La pura nudità
di Maricla Boggio

1 LA RUSA FIL CARUSA I

2 IO SONO MIO MARITO

3 SOSPESO NELL'ANSIA

4 IL ROSSETTO E' L'ALIBI

5 IL GIUDICE RIDEVA APERTAMENTE

6 ERO USCITO VESTITO DA ZINGARA

7 MI CHIAMAVANO LA CARDINALE

8 URLAVA PRETENDENDO GLI OCCHI

9 LE CELLE INFINITE DELLA NOTTE

10 CIAO MONSIGNORE!

11 LA RUSA FIL CARUSA II

12 LA RISTOURNE

13 MI STACCO LE SCARPE DALLA BOCCA

14 LA PURA NUDITA'

15 COME UNA PUPA FRAGILE DAL BOZZOLO

16 LE TOVAGLIE SI TINGEVANO DI PORPORA

17 LIBERE LE BOCCHE NELLE GRIDA

18 UNA RISATA BREVE

19 IL SIGNORE DELLE ONDE

20 LA PROCESSIONE DEGLI INTAGLI

21 DALL'ALTRA PARTE


1. LA RUSA FIL CARUSA I
______________________

Un muro bianco . Davanti al muro, un uomo nè giovane nè vecchio. Giacca e pantaloni scuri sopra una camicia bianca.

A Tunisi, da bambino, mi mettevo addosso gli stracci
che scovavo per casa, tovaglie, asciugamani dalle lunghe frange...E veli,
nastri, garze...Li drappeggiavo intorno al corpo
e uscivo a ballare per la strada ;biondo, bellino,
snello sembravo una bambina; nel quartiere
mi applaudivano ridendo e canticchiavano
"La rusa fil carusa...La rusa fil carusa...", all'infinito
ripetevano "La sposa va in carrozza..." , canta così
la gente , quando passa una sposa e il suo corteo.
Avvolto nei miei teli candidi, il corpo acerbo,
la pelle luminosa e la voce sottile,
sembravo davvero una sposa.

L'uomo canta una nenia incomprensibile; la sua voce, come un flauto; fempo lungo per chi ricorda e per chi riceve il ricordo . Dopo , fluisce l'onda delle immagini e dei fatti.

Bambino,ero approdato a Tunisi
insieme a padre e a madre, poverissimi, dalla Sicilia
in cerca di lavoro. Avevo subito amato la città,
bianca di luce, le case azzurre fra le palme della collina
e i bar discreti dove c'era sempre qualcuno
che preparava piccole cose da mangiare, e tu potevi entrare,
fermarti a godere la frescura dei muri spessi, e danzare
e cantare... Tante volte ho fatto l'amore
con i signori che incontravo lassù; da povero
diventavo prezioso , costavo un mucchio di soldini.
Seducevo, mi ritraevo, mi concedevo
e mi negavo. Un giorno una parente di mio padre mi aveva detto
che ero nato da una donna ricca e nobile
rimasta sconosciuta; prova di un amore danascondere,
ero stato affidato a quella vecchia che mi aveva poi dato ai siciliani.
Dov'era la mia madre vera? Chiudevo gli occhi
respirando profondo; immaginavo
che quello stesso vento stava sfiorando la sua faccia...
Quanto l'avrei amata se soltanto l'avessi conosciuta! Per la vita
che mi aveva dato , malgrado il tradimento; volevo vendicarla.
Seducevo i maschi: dovevano pagare
per avermi, ed ero io come donna a abbandonarli.

L'uomo si toglie la giacca e la camicia. Sotto appare un velo leggerissimo che lo avvolge tutto. Il volto appare contornato di una capigliatura femminile. Una musica leggera, appena accennata da strumenti a fiato e a percussione, di gusto orientale. La figura bianca danza.

2. IO SONO MIO MARITO

L'uomo è nel suo abito scuro; seduto, composto. Accanto a lui,
una valigia chiusa.

Ero andato a vivere lontano, Roma, Parigi, Londra...
Ritornavo nella mia città per nostalgìa .

Con cura, giorni prima, mi preparavo al viaggio. I vestiti,
dovevo scegliere i più adatti. La Standa era il mio regno.
I modelli di Marta, la contessa: a bracciate li rapivo
alle stampelle, e via! nel camerino a provarli
sgusciando fuori dai miei abiti maschili.
Alla cassa gettavo sul banco i capi scelti,
pagavo rapido. Fuori di corsa col mio pacco di fantasmi .
E finalmente la partenza .

Scendevo ad un albergo piccolo, nel cuore del quartiere antico.
Prendevo due camere, una per me, l'altra per mia moglie
che sarebbe arrivata poco dopo; affari urgenti da sbrigare ,
raccontavo al portiere ; capisse quello che voleva, una mancia
me lo rendeva amico. Appena in camera spalancavo le valige,
ne spargevo sul letto il contenuto, beatamente
mi ci rotolavavo.

L'uomo apre la valigia. Si prova gli abiti che via via tira fuori, leggeri, femminili. E' una sorta di danza al suono di una musica orientale. Ripone poi gli abiti nella valigia, lasciando fuori soltanto quello che indosserà .

Poi mi gettavo in fretta a prepararmi.
Intorno agli occhi la matita nera, un rosa pallido le labbra,
gli occhiali scuri sulle ciglia truccate; morbidi i pantaloni
sopra blusa ampia, un mantello ad avvolgermi tutto;
il cappello, con la tesa abbassata, che il volto si intravvedesse
appena, ed ero pronto ad iniziare il gioco.
Scendendo di corsa gettavo la chiave sul banco eludendo
il portiere ed ero fuori, nel profumo dei datteri maturi.
Svoltato l'angolo, in un attimo mi infilavo la parrucchetta
che tenevo in tasca ; via occhiali via cappotto ed ero lei!,
la me stessa sognata seduttrice, in giro per i viali affascinando
chi incontravo . A volte rimandavo la preda al giorno dopo ,
per il gusto di tenerla sospesa, o soltanto per provare
il mio potere provocavo la richiesta di un incontro .
Poi tornavo in albergo. Chiedevo la chiave della stanza.
Il portiere, ossequioso,"Suo marito è arrivato -diceva-,
ma adesso è fuori; suo marito mi dispiace non c'è". Rapido allora
mi sfilavo la parrucca, mutavo gesti voce atteggiamento,
in me la natura si adattava all'uomo evocato dal portiere:
"Ma signore! -esclamavo- Cosa dite?! Io!Io! sono mio marito!".
Mi porgevano la chiave tremando, incerti se inchinarsi alla donna oppure salutarmi come uomo. Finalmente salivo poi nella mia stanza ,
e spiavo dalla porta socchiusa il via vai dei clienti dell'albergo.
A un certo punto apparivo in vestaglia e a passi svelti
raggiungevo l'altra stanza in fondo al corridoio.
Sapevo che qualcuno mi osservava , ne avvertivo l'occhio
lascivo che andava immaginando le mie nudità ,
fino alla profferta sussurrata e all'assalto appena avessi fatto
un cenno...Sfuggivo mormorando "C'è mio marito...Attento! ";
e via frusciando nella mia vestaglia in una scìa di profumo di Coty...
Languidamente passavano le ore; sentivo crescere fuori dalla porta
lo spasimo di chi spera che gli arrivi un segnale; se bussavano , rispondevo come il tanto temuto marito: la voce greve, un sigaro
alla bocca mentre dalla fessura della porta filtrava in corridoio
un fumo acre; l'uomo si allontanava infine, borbottando
trafitto dal sonno; allora in un dolcissimo lamento trapelava
la mia voce di femmina reclusa, vessata da un marito possessivo.
A quel tiranno addormentato sfuggivo , ed ero fuori un'altra volta,
nell'oscurità del corridoio , dove ombre assetate i miei amanti
mi inseguivano senza osare di toccarmi. Incominciava allora
un nuovo gioco, a rischio della vita , sfrontato. Decidevo
di lasciarmi raggiungere da chi più mi eccitava all'avventura
e scivolavo con lui nella stanza destinata alla rappresentazione.
Si scatenavano tra noi battaglie ardite ; era concesso tutto per arrivare alla delizia estrema. cadeva poi nell'abisso del sonno
chi credeva di avermi da maschio posseduto: me lo guardavo,
avrei potuto ucciderlo, mi bastava abbandonarlo, beffato e vinto. Raccoglievo i miei seni imbottiti; mi riavvolgevo nelle mie sottane
e me ne andavo vendicato . Ad attendermi nell'altra camera, da signora perbene, mio marito col sigaro e la voce virile, pronto a intimorire
chi avesse ardito molestarmi...

Queste avventure... soltanto mio marito
avrebbe potuto averne sofferenza...
"Mio marito, signore?! Ma mio marito sono io!
Io sono mio marito!". E allora?!

3. SOSPESO NELL'ANSIA

L'uomo è rimasto con gli abiti del travestimento notturno.
La valigia gli fornirà in più occasioni gli elementi per rendere figurativamente le sue avventure, anche per il trucco e gli oggetti .
Accanto all'uomo, una lunga striscia di cartoncino dove figurano profili a diverse grandezze.

Sono tanti che vorrebbero andare con un travestito, ma non osano.
Fingiti donna, accetteranno quel rapporto . Ma fingere per chi?,
se tu lo sai! che loro sanno, e sanno che sai!...

Una sera stavo al lungotevere; un signore distinto mi prende su;
un boa di piume mi avvolgeva fluttuante,
lilla, e un nastro d'oro chiaro teneva a crocchia i miei capelli,
ero divina. Quando poi mi sente parlare, propone di andare
a casa sua, che poi era lo studio da architetto. Passavano le ore con delizia, tra champagne e nuvole di fumo,con crescenti allusioni trascinandoci all'atto finale dell'incontro...
Nella calda accoglienza della stanza l'architetto si era animato
di malizia ; i lineamenti gli si erano distesi. La sorpresa di scoprirlo
così bello mi sollecitò a fissarne l'immagine; ero bravo
nel disegno dei profili che infiniti rifacevo di me,
la mia mano volteggiò sopra il tavolo fitto di piani
urbanistici; tirò la testa su la figurina svelta, somigliantissima...

L'uomo disegna sulla striscia di cartoncino un profilo dell'architetto, con mano ferma e veloce.

...e l'architetto si ammirò, stupito .Quel silenzio intenso
ci portò all'incontro più stretto; possedevo quell'uomo
nell'immagine ; mi restituì l'intimità prendendomi nella sua persona.
Poi lui si addormentò. Lo guardavo sentendomi una moglie,
di quelle che il compagno, dopo averle destate
con i colpi dell'amore, poi le abbandona torpido,
ripiombando nel sonno .Mi immaginai con piatti da lavare,
bucati da stirare, e il timore di una gravidanza che poteva arrivare all'improvviso perchè, in occasioni come quella ,"lui" non faceva attenzione. Queste fantasie mi richiamavano la storia di mia madre,
la mia nascita e le sue sofferenze . Goduta la paura come un bambino
la sua fiaba, mi alzai cauto; dalla giacca dell'architetto
recuperai i denari pattuiti fin dall'incontro sulla riva del fiume, quello che mi ero guadagnato , non potevo rinunciarvi perchè il signore si era addormentato. Fuggii svelto , nella gioia di sentirmi libero .

L'uomo si riveste con l'abito scuro dell'inizio. La striscia con i profili scompare .
.
Qualche giorno dopo vado a piazza Navona. Volevo vendere
dei disegni a un amico che teneva un banchetto; gli stranieri
comprano , si fanno soldi, specie coi tedeschi;devi dargli
le rovine del Foro, l'Appia, le basiliche, ma c'è chi se ne intende
e preferisce comprare i miei profili. Appena mi vede ,
questo amico si mette a ridere e mi fa: "Hai perso per caso
un tuo disegno ?". Io lo guardo , non capivo. E lui: "Conosco la tua mano, il tuo tratto..."; e giù a ridere, non la finiva più. "Bè, che sarà? - gli dico - Falla corta. E quello allora mi racconta . Un giorno era stato nello studio di un architetto che sovente gli chiedeva disegni ed acquerelli
per arredare dei locali che andava affittando ammobiliati ;
e gli aveva portato le pitture; siedono in studio a prendere un caffè,
e al mio amico casca l'occhio su un disegno . "Bello!", esclama
rivolto all'architetto , e aspettava, curioso di sapere perchè mai
si ritrovasse là quel disegno che era la faccia sua, e mio lo stile.
L'altro nicchia, sospira, strizza gli occhi, .E più faceva a quel modo,
più l'altro insisteva a stuzzicarlo. L'architetto alla fine è scoppiato.
"E' stata un'avventura!...-ha cominciato -, ma di quelle!..." e giù a dire
di una donna stupenda, un'attrice che non poteva nominare,
per discrezione, ma che femmina!, che violenta passione!",
ne era ancora tutto erotizzato...A quel punto il mio amico fa deciso:
"Io lo so di che donna si tratta...", e l'altro si stupiva, e negava
che potesse arrivare a indovinare. "Altro che attrice! - gli butta là alla fine - E' uno che l'attrice la sa fare!" E gli ha detto per filo e per segno, nome e cognome, chi ero e che facevo. L'architetto alla fine ci ha riso.
E gli ha comprato tutti quanti i disegni.

4. IL ROSSETTO É L'ALIBI

Dall'alto scende un beauty in pelle bianca; si apre come un frutto maturo, mostrando sul coperchio all'interno uno specchio e tutto un armamentario di trucchi, rossetti, boccettine e matite.

Delle volte qualcuno mi ha chiesto di farmi vedere al naturale,
come sono senza trucco e senza la parrucca; ma ho detto sempre di no.
Io do un'immagine, è quest'immagine che gli uomini vogliono vedere. Tanti mai ci starebbero ad un rapporto con un uomo; basta un poco
di rossetto, eccoli pronti subito. All'inizio sono tutti carini con te;
quando hanno fatto, cambiano; hanno paura, non vedono l'ora
di scaricarti dalla macchina, di fuggire dalla stanza.

L'uomo comincia a truccarsi .

Il rossetto è l'alibi, per molti.
Tanti credono che io sia donna;
certi non vogliono neanche sapere; molti ci cascano!
Io mi accorgo subito quando gli uomini lo sanno,
e quando fanno finta di non saperlo ; io li assecondo, fa parte del gioco.
Il travestimento è un'arte. Anche quei travestiti di borgata,
grossolani, poverini... - ma è così la maggior parte della gente -
sono geniali, in qualche modo.

Il travestimento è una capacità che si acquisisce gradualmente,
ma devi avercela dentro di te; è un mistero che ti viene affidato ;
tu non l'hai chiesto; è qualcosa che hai trovato in te senza cercarlo;
è più forte di te: lo devi fare, perchè se non lo fai sei un frustrato...
E' una forma di schizofrenia che bisogna tu ti viva come un gioco...
La giornata scorre senza scosse; ti succedono cose magari intense;
ma tu non fai che aspettare quel momento in cui tutto
all'improvviso si ribalta. Ti travesti e ti liberi; è qualcosa
che costa, a cui devi soccombere, volendo o non volendo...

Come in teatro, tutto inventato. Quando tu entri in scena
e parli e ti vesti come il personaggio...
perchè sei diventato lui...quindi sei lui...Così quando mi travesto. Anche la voce, i gesti , i pensieri mi vengono diversi...

L'uomo riveste l'abito scuro, per poi mutarlo negli indumenti che va descrivendo; è un continuum di trasformazioni fluide nelle quali l'uomo assume via via differenti personalità.

Io mi vesto, delle volte, per me. Anche oggi
mi son messo da donna, e stavo solo, dentro casa.
Mi ero comprato un pantalone di velluto, disinvolto,
di un colore caldo, caramella; l'ho indossato di slancio,
cercando qualcosa che ci si intonasse ...Una camicetta
rosa pesca da tempo rimasta appesa nell'armadio; e sopra,
un pullover jacquard abbottonato sul davanti. Poi la parrucca,
capelli lisci, biondi, dietro le orecchie; e gli occhiali:
mi son guardato allo specchio, ero una donna, una signora
con un certo charme. Non è perchè ti veda un altro, è per te
che ti vesti e ti trucchi e ti trasformi...
Oggi mi sono vestito in un momento mentre stavo facendo da mangiare;
me n'è venuta voglia e in un lampo ho afferrato vestiti parrucca
e tutto il resto, mi volavano le cose tra le mani. Per me.
Mentre mangiavo mi sorridevo, seduta dritta sulla sedia,
stretti i gomiti al busto, come una mannequin. Dovevo poi uscire subito ; ho gettato ogni cosa nell'armadio , alla rinfusa...
Un po' di latte detergente, cotone, una ravviata ai miei capelli corti...
Via! son partito, uomo di nuovo, l'andatura veloce, il passo fermo; camminavo canticchiando e mi sentivo la voce profonda.

L'uomo è di nuovo nel suo abito scuro .

5. IL GIUDICE RIDEVA APERTAMENTE
L'uomo si trova in uno stato d'animo espansivo; la distanza tra lui e gli altri si annulla, la parola fluisce confidenziale ; è una parentesi giocosa
tra l'uomo e chi lo sta ascoltando.

Me ne stavo al sole un pomeriggio sulla piazza Navona,
disteso sopra il bordo della fontana piccola.
E mi siede accanto uno che conoscevo, un ragazzetto
che si arrangiava a fare un po' di tutto; tira fuori dei giornaletti pornografici; me li sfogliava proprio sopra gli occhi ,
additando qua e là: "Guarda qui! E questa! Guarda questa!" .
Mentre giravo lo sguardo pigramente,
dietro di noi intravvedo un ometto che sbirciava,
attratto da quei fogli. Il ragazzo continuava coi giornali ; ma gli occhi
via via mi si chiudevano nella luce accecante del tramonto.
Forse mi addormentai, il calore del sole sulla faccia
mi svegliò d'improvviso; il ragazzo era sparito,
si era fatto tardi e io dovevo andare.

Il giorno dopo, quando stavo ancora a letto, mi telefona il ragazzo
dei giornaletti, agitatissimo: l'accusavano di vendere
"pubblicazioni pornografiche", rischiava il carcere!:
io potevo dire al giudice che quei giornali lui non li vendeva,
me li aveva soltanto mostrati : e va bene!, accettai di aiutarlo,
per una volta sarei andato in tribunale senza accuse
o condanne da temere.

L'uomo fischietta, le mani in tasca nei pantaloni scuri, da uomo qualsiasi;

Viene il giorno stabilito, e vado. Chi accusava il ragazzo era l'ometto
che avevo intravvisto alle mie spalle : non era un voyeur,
ma un poliziotto, uno di quelli che si travestono per indagare
senza farsi riconoscere; quando il ragazzo stava andandosene
gli era saltato addosso e per via di quei quattro giornaletti
l'aveva arrestato e incriminato . Il giudice se ne stava sul suo banco
annoiato di quelle tiritere. Io osservavo l'ometto indaffarato
a sostenere la sua accusa; non glielo aveva chiesto nessuno, tanto zelo,
era stato lui ad insinuarsi dietro le nostre spalle : meritava quindi una lezione. Come se continuassi una riflessione , "Ma non vede la faccia
- esclamai rivolgendomi al giudice - , non vede la faccia
che ha quel poliziotto? Ci provava gusto, a guardare! Una faccia
da porco! Da porcaccione! "gridai, non riuscendo a trattenere l'indignazione. Mi sentivo incoraggiato dall'espressione del giudice: aveva smesso l'aria annoiata ed ascoltava, quasi cedendo al riso.
"Ma lo guardi bene, non vede che faccia ha?" , incalzai ancora,
intuendo che era arrivato il momento per togliermi la soddisfazione,
una volta tanto, di vincere, in un luogo dove tante volte avevo dovuto
piegare il capo alle condanne. "Ehh...bè..." si lasciò scappare il giudice,
riprendendo subito un atteggiamento impenetrabile. Ma intanto
tra di noi si era fatta un'intesa , una sorta di immediata simpatia.
Aggiunsi allora il colpo di grazia, rischiando per il gusto di rischiare.
"Questo mio amico - esordii placido - non mi ha voluto vendere
un bel niente; mi mostrava quei giornali così, per uno svago
di un momento insieme. Sa benissimo che non li comprerei ;
mi conosce; le cose che mostrano le foto io le faccio,
ma davvero non le guardo! ". Il giudice rideva apertamente;
e rideva la gente sfaticata che assiepava la sala delle udienze ;
l'ometto era paonazzo per la rabbia, e il ragazzo aspettava
il verdetto della corte, che quella volta fu clemente,
e accordò la sospirata assoluzione.

6. ERO USCITO VESTITO DA ZINGARA

Fogli disegnati con profili di ogni dimensione cadono sull'uomo, che li userà come oggetti evocati nel corso del racconto.

Una sera ero andato a piazza Navona a portare dei disegni
all' amico che ci tiene un banchetto : l'amico doveva andare a cena fuori, "Rimani tu mi fa - , tanto ciai pure i tuoi profili...", e mi lascia
a governargli tutto quanto. Dopo un po' arriva il giudice;
osservava attento ogni lavoro, godendo di passare inosservato;
mi feci riconoscere: si ricordava dell'udienza, e ne rise
senza il contegno che la toga allora gli imponeva.
Scelse da intenditore i miei disegni, pagò con un assegno; a quel gesto
mi sentii un pittore celebre e quotato ; non avevo una lira,
quei soldi erano proprio una fortuna. Il giorno dopo , di mattina presto mi precipitai alla banca per cambiarlo; finito di vendere i disegni
la sera prima ero andato a una festa, e mi ero messo qualche straccetto zingaresco. Col pensiero ai soldi da riscuotere, quel mattino mi ero vestito in fretta con gli abiti lasciati in giro dalla notte.
In banca la gente mi fece il vuoto intorno, fissandomi
con qualche risolino:"Signora! Si accomodi! Signora!" presero a dire; strano, mi facevano passare davanti a tutti..."Allora?"disse soprattono l'impiegato. Tirai fuori l'assegno, e un documento."Come?! Chi è questa?
L'avete rubata ? Non è mica vostra la patente!"; l'impiegato
rideva e minacciava; "Venga qui, signor direttore; c'è un ladro...
o qualcosa del genere, venga!". C'era folla intorno a me;
i clienti si erano assiepati per assistere al mio interrogatorio.
"Sono io ! E' la mia foto!" protestai. "Ho il conto qui, e un assegno
da incassare: è di un giudice" - ne dissi forte il nome, famoso
per i tanti processi riportati ogni giorno sui giornali; "Quel giudice? ", gridava il direttore ;" Il giudice tal dei tali?" , gli faceva eco l'impiegato allo sportello. "Certo !- replicavo, gridando anch'io per farmi coraggio -
E' un mio cliente! E mi ha pagato!". Ci fu un boato, un urlo indignato: "Pagato! Un tuo cliente!? Ma che dici?! Guardati addosso come sei!".
L 'occhio mi cadde finalmente su di me, ero uscito vestito da zingara. Tutta la mia sicurezza si sfasciò. Balbettai: "E' mio cliente ,
mi ha comprato dei disegni..."; cercavo di convincerli,
ma quelli mi avevano preso per un ladro, mentre qualcuno insinuava
addirittura che il giudice coltivasse vizi inconfessabili..."Intanto
si faccia vedere com'è lei", mi rimbeccò compunto il direttore;
"Nome e cognome devono corrispondere alla firma ed alla foto,
alla foto!"ripeteva poi, per umiliarmi. "Sono venuto in questa banca
come donna - replicai deciso, riprendendomi -, come donna
adesso me ne andrò. Tornerò da uomo per la firma, il riconoscimento
e tutto il resto. Rimasero di stucco, scontenti di non aver ottenuto
di vedermi, per quei quattro miserabili soldi, ridotto a uomo.
E per quel giorno i miei debiti aspettarono.

L'uomo getta in aria i fogli, facendoli scomparire verso il fondo,

7 . MI CHIAMAVANO LA CARDINALE

Nel muro alle spalle dell'uomo si apre uno sportello che a sua volta apre altri sportelli ; all'interno si intravvede una sorta di negozietto di vestiti usati, disposti in varie file in alto e in basso ; l'uomo ne tirerà fuori gli elementi per i suoi travestimenti . Un paio di scarpe rosse dal tacco altissimo oscillano dall'alto.

Mi chiamavano la Cardinale perché andavo in giro
con i vestiti lunghi, svasati, come le zingare; era una moda
lanciata dalla Claudia, sopra si portavano delle magliette aderenti
con delle immense scollature che mettevano in risalto il seno,
e sandali alti, di sughero, una voga riciclata dal dopoguerra,
io mi ci trovavo benissimo, camminavo sicura senza il rischio
di storcermi le caviglie come con i tacchi a spillo, che non c'ero abituata perchè li portavo soltanto nelle grandi occasioni. Era un periodo tranquillo; stavo a Roma, godevo quella calma strafottente
che si respira di notte nelle strade, quando c'è la vita ;
la sera allora aveva i suoni del primo Dalla,
e la passione esplodeva tutta per i Beatles...Scattava in me,
come un comando, quando stava facendosi buio, la frenesia
di andare nei prati dell'Eur. Al palazzetto dello sport
si tenevano i concerti rock; ci andavano in migliaia i ragazzi , sulle moto;
era un brillare di giubbotti neri e di capelli modellati col gel.
Una sera che gridava di ragazzi già in delirio nell'attesa di una star ,
stavo nel prato proprio in faccia al palazzetto , e arriva un bel tipo
su una moto con una vampiretta appiccicata dietro; mi guarda,
l'ho colpito, queste cose si capiscono al volo; non riesco neanche
a fargli un cenno che quello è già scomparso. "Sono felici - penso-,
stanno insieme, che gliene importa a quello di me...". Alzo gli occhi
e lo vedo di nuovo; lo riconosco subito, non ha più la ragazza...
Entra nel prato , in un balzo è accanto a me; appoggia la moto
ad un albero e mi sorride con l'aria di un padrone. Gli dico "Pagami!"
prima che mi chieda. Tira fuori una manciata di biglietti
e me li preme nella scollatura. Ride e intanto mi abbraccia.
Muoio di gioia, dura appena un attimo; mi stringe alle spalle
con le braccia, la sua forza mi impedisce di reagire; come nel film
di Piero Angela, dove un leone azzannava una cerva, il muso
fra i suoi denti : io sono quella cerva! Con la mano
mi preme sul collo, le dita sulla bocca; è una carezza
o vuole strozzarmi...l'ambiguità mi eccita e lo lascio giocare. "Senti
- il tono adesso è supplichevole -, non t'importa se mi metto le scarpe?". Non capisco che cosa voglia dire, i suoi piedi sprofondano in stivali...
"Come vuoi..." rispondo soffocato. Senza lasciarmi andare
armeggia nelle tasche della moto. Tentenna appoggiandosi a me;
lo sguardo a terra, scopro che si è messo delle scarpe dai tacchi altissimi, scollate.Le gambe inguainate in calze lucide,
dietro di me una donna gigantesca mi sta pugnalando con vigore;
il mio corpo si apre, ardito per l'immagine rubata.
Grido trafitto finchè non mi abbandona, come un osso
spolpato da un cane. Se ne va, infilando svelto gli stivali,
a ritrovare la sua fidanzata.

Gli sportelli si richiudono, le scarpe risalgono verso l'alto, tutto ritorna come prima.

8. URLAVA PRETENDENDO GLI OCCHI

L'uomo apre uno sportello; dalla cavità estrae i pacchetti che contengono il trucco, i pennelli e gli oggetti necessari all'azione.

Era uscita una réclame della Max Factor. Ti guardava,
quella femme fatale, dalle vetrine di profumeria, nei grandi magazzini, sulla metro...fissandoti con occhi che esprimevano
una sorta di inquietudine; al di là dello splendore del trucco forte
e sofisticato, l'immagine mi comunicava un turbamento indefinibile...
Era, quel pallore levigato, la beauté stessa nel suo mistero;
non sesso non perfetti lineamenti nè armonia di luci o di colori.
Presi con ansia a cercare di scoprire cosa si nascondesse
in quello sguardo, e nella bocca appena un po' socchiusa
su cui era sospesa una parola non detta , non dicibile forse...
Sontuosi gli abiti , e gioielli adornavano la femme, perle
su perle accompagnando perle a cascata sul vasto decolleté.
Spuntò giorni dopo un'altra immagine accanto alla donna misteriosa;
era di un giovane dalla barba ispida e corta , lo sguardo netto
sopra il naso aquilino, perfetto sulla bocca ad arco, dischiusa appena....Ma pochi giorni dopo, accanto ai primi, ecco un altro pannello
ed una scritta che lo riempiva tutto: "Questo è un uomo!
E' diventato donna! Ma una donna , più donna ancora
potrebbe diventare! "Rubai nella notte, ad una fermata della metro,
due manifesti di quelle mute divinità; arrotolati alla svelta,
miracolosamente intatti li portai correndo fino a casa;
lì tornarono a guardarmi , sorridendo assenti , come appunto gli dei.
Da tempo avevo comprato i prodotti della Maison de beauté.
Mi gettai ad aprire quei pacchi ; già svolgendo la carta
ne usciva il profumo. Toccavo le lucide superfici colorate
respirando l'opulenza provocante delle lacche dorate;
scatole di lapislazzuli si aprivano come scrigni rivelando
il loro contenuto in un fruscìo da orgasmo. Tremavo,
anelando di perdermi in quelle agognate meraviglie, turbato
e già sul punto di fuggire da me stesso. Ad un tratto
avvertii l'insopportabile presenza della barba
che mi lasciavo sulle guance per pigrizia; mi parve una camicia di forza, ma un'insolita languidezza mi impedì di strapparla con violenza;
con la cura delicata con cui le fragili estetiste accarezzano l'epidermide delle signore, asportai dal mio volto quella ruvida corteccia;
apparve l'ovale, liscio come uno specchio greco; la mia faccia dimenticata
stava davanti a me nuda, impudica nell'aspettarsi dei regali
da cui emergere regina. Applicai un rosario di liquidi, acquei, cremosi, lattei, alcoli profumati, una sequela orante . Sul viso fatto marmo
a colpi leggeri le dita distesero una pasta rosata scaturita da un'anfora opale; fissavo l'immagine ambigua che a sua volta mi fissava:
aspettava che io, che ero lei, la completassi per esprimersi pienamente.
Mentre Geppetto sbozzava il suo legno, sempre più affiorava con bramosia Pinocchio, provocando a insulti il padre putativo:
cosìapparivano i miei occhi, d'improvviso spalancati come globi di vetro,
e la bocca che si sforzava di esprimere suoni che ancora non conosceva. Andavo eseguendo gesti, comandato; il rosa brillante di quel fondo tinta si vellutò di finissima cipria; risaltarono gli zigomi - esistevano prima?,- nel colore di pesca che vi azzardò il pennello
impregnato di polvere. Come una bambola cieca che aneli al respiro
ed allo sguardo , urlava pretendendo gli occhi e le labbra, diomio!
le labbra soprattutto...Con febbre sceglievo le matite, i fard, gli ombretti, i mascara e pennelli e spugnette e gommine...Lavoravo , opera
e operaio. Nascevano stupite le pupille ; occhi senza malizia o desiderio, lo stato puro dello sguardo...Andavo dietro ad un impulso
che le mani fornivano di trucchi. Sottile e chiara,
stirata sui denti, la bocca si muoveva piano,staccata
dal contesto. Il bastoncino rosso morbidissimo
strisciò sopra le labbra; avidamente quelle succhiarono la linfa, pigramente palpitarono imbronciate.
La trionfante regina di bellezza srotolata sul tavolo,
accanto al suo signore, era simile in tutto alla figura
che mi osservava dallo specchio, ed ero io ad essere specchiato;
ma quale io mai, se non riconoscevo il viso, e pure toccandolo
le dita avvertivano la calda sensazione della vita...
Ero cambiato , i movimenti, i gesti ; e la voce, altro che un sussurro
da quelle labbra non poteva uscire. Più volte nel trascorrere dei giorni mi ritrovai dentro a quel volto; lo ricreavo con piccole varianti ,
tornava a spiarmi dallo specchio....

Trucchi ed oggetti tornano dentro l'armadio; il muro si richiude.

9. LE CELLE INFINITE DELLA NOTTE

Ero arrivato un giorno, con il mio viso levigato e chiaro,
preso in una retata; i poliziotti ,quando mi incontravano al mercato
al mattino,vestito da uomo, mi gridavano dietro minacciosi:
"Ti prenderemo stasera, vedrai! Ci sei sfuggito, ma presto o tardi
ci devi cascare!"; Era un gioco, per loro, una caccia. Ti provocavano.
Le mani addosso, proprio lì, e quando ti difendevi, l'arresto
perchè li avevi colpiti, insultati..."Oltraggio a pubblico
ufficiale, stai fresco adesso, ti sei scavata la fossa con le mani tue!".
Il giudice appena mi vedeva si spazientiva, non voleva neppur sentire
di cosa mi accusavano. "Sempre la stessa storia !"- ripeteva -
e "Non prendetelo più, che cosa lo mettiamo dentro a fare !?".
Quando però c'era di mezzo il furto, il giudice per forza
doveva sbattermi in prigione. Quando battevo, dopo essere stati
assieme a me certi non volevano darmi i denari stabiliti.
Li teneva stretti nella mano , uno una notte, non voleva lasciarmeli,
fatto il comodo suo...Sono arrivato a supplicare, avevo bisogno
di quei soldi; "Dammeli - ho detto - , ne hai tanti, sei ricco,
si vede, a te che te ne importa? Eppoi me li sono guadagnati!..."Niente,
mi insultava disprezzandomi proprio per il motivo dell'incontro...

L'uomo indossa una divisa carceraria. Dall'armadietto tirerà fuori gli oggetti che andrà evocando,
.
In carcere ognuno organizzava la sua vita, come fuori.
Un'immensa città, maschi soltanto; ma si creavano le coppie,
c'era bisogno d'amore, la libertà andava sostituita; sognavamo...
Arrivato con soltanto un vestitino addosso ed il mio trucco
da soirée, mi son visto cambiare in pochi giorni sotto gli occhi beffardi dei compagni. Come un affresco mangiato dal tempo
il mio roseo incarnato si spegneva ,bucherellato dalla barba in crescita, ispida come il modello di Max Factor. Per qualche giorno
mi illusi di resistere ; poi tornai piano piano a farmi scuro,
ragazzaccio uscito di borgata, fino a che ritrovai gli amici cari,
quelli capitati lì prima di me; molti di loro, fuori,
non si erano mai sentiti femmine; ma in carcere
era un modo per sfuggire all'assenza.Si inventava dal niente.
Il trucco, come si poteva. Per il fard delle guance ,grattavamo i mattoni
dai muri lungo il corridoio, quando si usciva per l'ora d'aria...
Allo spaccio si comprava il formaggio olandese, quello con la buccia
rossa e lucida, che ti macchia le dita se appena la premi ; così colorato,
il polpastrello si passava sulle labbra. I trucchi li facevamo in cella .
Cipria! quanta ne volevo, in cucina rubavi un pugno di farina, e il talco, quando lo spaccio lo vendeva in quelle belle buste verdi,
della Roberts...Le meraviglie che potevi inventarti
con le merci ordinate allo spaccio! Dai fustini del bucato
si strappava una strisciolina di cartone: lo bruciavi,
diventava un carboncino, perfetto per la riga di velluto intorno agli occhi e la sfumatura sulle palpebre depilate ad arte...Marlene
certo faceva così. Poi, acqua e zucchero, si cotonavano i capelli,
e se si trovava del limone, sbattuto insieme faceva una pappetta splendida per depilare gambe e braccia...Allora sì, ti sentivi donna
totalmente! Ma il limone raramente lo trovavi...
Davanti alla mia cella, il vuoto separava il ballatoio
che stava dalla parte opposta ; là di fronte c'era una porta
chiusa, identica alla mia, e a tutte le altre centinaia
dietro cui i carcerati come me aspettando il sonno sognavano.
Dell'uomo avvertivo solamente il luccicare metallico dell'occhio
che sfondava il buio trapelando dallo spioncino. Forse indovinavo
chi era, perchè nell'ora d'aria uno nuovo mi aveva guardato;
uno sguardo che non smetteva di fissarmi . Ritornava adesso, uguale nella fissità intensa e prolungata...

Un lungo filo di ferro cala dall'alto e rimane ad oscillare davanti all'uomo, che lo afferra.

Arrivò sfiorandomi fin dentro la cella, gelido, aguzzo,
un fil di ferro lanciato dall'altra parte; lo afferrai d'istinto.
Un gemito, e l'occhio di lontano si richiuse per brillare di nuovo
con un guizzo; sentii uno strattone, qualcuno teneva l'altro capo, imprimendo al filo nel vuoto un movimento per tutta la lunghezza;
preso dal gioco, assecondai quel moto; su e giù come un'onda, un'altalena ...Mi persi nell'immagine solare di me bambino spinto verso il cielo
dalle mani materne, sopra gli alberi alti del giardino...L'occhio riapparve di colpo cancellando di schianto l'orizzonte dell'infanzia. Ansimava implorando, percorso da un fremito crescente; il filo si era fatto tremulo e scottante . Mi concentrai nel movimento, l'uomo mi cercava
come si cerca una creatura d'amore. Per questo aveva superato l'ombra , la voragine, il silenzio. Il desiderio alato mi scuoteva finchè la tensione si impennò in un'ultima scossa ,smorzandosi quietamente in un sospiro.
L'occhio placato si richiuse e "Grazie!" sussurrò rifrangendosi in un'eco ripetuta nelle celle infinite della notte.

"Grazie!" si avverte moltiplicato in risonanze che si accavallano. L'uomo si toglie la divisa da carcerato.

10. CIAO MONSIGNORE!

Riappare nel muro lo spazio degli abiti usati; l'uomo vi attingerà per vestirsi o per usare gli indumenti nel corso del racconto .
Un violino suona i suoi esercizi, talvolta contrastato da un pianoforte, lontano.

Suonava il violino in un'orchestra; musica classica,
si esercitava per ore, sempre gli stessi passaggi,
fino alla sera del concerto; e silenzio gli altri in casa,
lui doveva stare concentrato; la moglie alla fine lo aveva scacciato, perchè lei, poi, pianista, era costretta a sacrificare il suo talento
per colpa del marito. S'era portato via solo il violino, povero Aurelio,
e di donne non aveva voluto più saperne; gli eran tornati su
tutti i difetti, le debolezze, le manìe, le frivolezze
che aveva dovuto sopportare per anni, dalla moglie, col ricatto del sesso: solo per quello le donne lo attraevano ; ma adesso,
pur di non averne ad angariarlo, voleva farne a meno .
Così s'era trovato a cercare sul lungotevere;
e alla fine aveva conosciuto - "meglio ancora" - un travestito,
che di femmina aveva l'apparenza, e le attrattive, le dolcezze
e le malizie, non quegli obbiettivi rovinosi che fanno di ogni donna
una moglie, anche se soltanto potenziale. Questa femmina
di apparenza ero io. In quell'epoca mi piaceva assomigliare
alla Bardot . Bocca di bambina con il broncio ;cerchiati
gli occhi come Bambi; lunga coda di cavallo aggiunta, si capisce,
ai miei capelli e la frangetta a coprire la fronte; in cima alla testa cotonata , messo a triangolo, il bordo rovesciato, un fazzoletto
annodato sotto il mento, quello che si chiamava " alla Bardot".
Più che di sesso Aurelio era assetato di vendetta, e voleva sfogarsi
a raccontaretutte le sconcezze che sua moglie
gli aveva fatto in tanti anni sopportare. Il pianoforte soprattutto,
chè quella si ostinava a esercitarsi proprio quando il marito rientrando
avrebbe voluto a sua volta suonare. Si apriva con me
e io gli davo tutte le ragioni; più che un rapporto di sesso
s'era fatta tra noi una bella confidenza; da parte sua cioè,
perchè le mie cose io le tenevo per me solo.
Un giorno Aurelio mi telefona: "Devi farmi il testimone in una causa,
ti spiego a voce" e chiude, senza lasciarmi il tempo di rispondere.
Me lo vedo davanti poco dopo, eccitatissimo. La moglie chiedeva
la separazione e voleva, s'intende, gli alimenti. "Capisci?
- gridava - Anche i miei soldi pretende quella scema!
Dopo avermi rovinato la vita!". Gli era balenata allora in mente
un'idea : chiedere la nullità del matrimonio; s'eran sposati
in chiesa, con una prova poteva dimostrare che non c'era mai stato
quel legame!: perchè - rideva nel dirlo, soddisfatto della sua trovata -lui era omosessuale, e i preti queste cose non le tollerano.
Io però non capivo che c'entravo. "Come che c'entri tu!,
mi fa lui, sempre più infervorato -; c'entri eccome! Devi testimoniare
che noi viviamo insieme 'more uxorio'!" . Insomma, tanto fece
e tanto disse per convincermi, che accettai, non potevo
lasciarlo in quell'angoscia; e poi, sinceramente,
cominciavo a godermi l'idea di quella burla.Nei giorni che seguirono pensammo ad ogni elemento che poteva riguardare il nostro piano,
e al vestito, alla pettinatura per l'appuntamento in Vicariato
dove c'era da discutere la causa. Non del tutto sicuro
che un solo testimone fosse sufficiente, Aurelio insistette
perché gli suggerissi qualche altro-altra da portare con noi.
Gli descrissi un tale che conoscevo da tempo , una buona creatura
che spasimava per apparire donna, pur essendo ,
nella sua bruttezza di maschio angoloso ,negato
ad ogni vaga connotazione femminile. Si trattava di Gervasio;
suppliva con la grazia alla durezza della sua struttura; il viso legnoso, rettangolare, si addolciva nello sguardo , e i capelli tintissimi,
crespi di una tenace permanente, splendevano ai lati delle guance
come due orecchie enormi, che lo facevano somigliare
al sor Pampurio disegnato da Sergio Tofano per il Corriere
dei Piccoli: era di quel candore da bambini che si illuminava
la sua faccia. Per anni era stato in compagnia all'Ambra Jovinelli; ballerina di fila, un po' indietro perchè si intravvedesse appena,
ma si muoveva a tempo e sculettava; invecchiando aveva continuato
ad andare in quei locali dove trovava una parvenza di famiglia,
ma ballare, non più; c'eran tutte ragazze sportive, scattanti e franche come nuotatrici; con la sua malizia démodée Gervasio
era finito a pulire i pavimenti. "E un duè trè...e un duè trè...",
canticchiava sgomitando , e gli pareva di essere ancora in palcoscenico; ridacchiavano le donne della Fulgida che l'avevano accolto tra di loro.
Vendeva cravatte, per arrotondare; a casa, riposandosi dalle fatiche
mattutine, tracciava disegni astratti sulla seta; gliele compravano
gli ambulanti alla stazione, lui le portava tutte ben cellofanate;
poi, smaltito il suo carico leggero, andava a battere lì intorno,
tanto per trovarsi compagnia, così l'avevo conosciuto: uno
che se una sera ti vedeva un po' triste , t'invitava a cena
a casa sua; e cucinava bene, era la sua passione.
Aurelio accettò la proposta. Gli chiesi come avrei dovuto comportarmi; nessuna preoccupazione - mi disse -, bastava che parlassi in modo naturale, senza alcuna finzione. Il giorno della causa
ci incontrammo a piazza San Giovanni; arrivai con Gervasio,
timidissimo. Avevo scelto una tenuta adatta al caso, un abito lungo, nero, con dei pizzi davanti, come per una visita al Papa ; non si andava da lui,
ma il Vicariato era un po' casa sua. Sulla testa mi ero aggiunto un toupé
per arricchire la mia chioma tirata su. Gervasio aveva insistito
per mettersi una gonna svasata "demilonguette"; secondo me
non aveva fatto bene, perchè le gambette gli sporgevano
stecchite, e in tutta la loro grandezza mascolina si notavano i piedi
dentro delle scarpacce con il tacco a rocchetto e la fibbia sulla scollatura;
ma lui le aveva pretese perchè "facevano tanto monsignore".
Guardò Aurelio pieno di materna comprensione e con la sua vocetta
acuta gli assicurò che per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Entrammo
nel vasto portone vescovile, superando l'ostilità del guardiano
che voleva impedirci l'accesso; ma Aurelio mostrò il foglio
in cui stava scritto il suo nome con la data e l'orario dell'udienza,
e quello ci fece passare seguendoci con uno sguardo sospettoso
finchè non scomparimmo su per lo scalone di marmo.
Dopo una breve attesa in mezzo a missionari , monache cilestrine
e anziani scouts, entrammo in una stanza damascata ;
dietro una scrivania sommersa dalle carte emergeva un pretino ;
ci guardò appena, e intravvedendo un movimento di sottane, "Prego,
si accomodi, signora", mormorò rivolto a me, e ripetè lo stesso invito
a Gervasio che sbottò in una risatina felice . Cominciò con le domande:
aveva rapporti regolari con sua moglie? "No!" rispose trionfante
Aurelio; non ne aveva avuti mai; tant'è vero che manteneva
una relazione con la presente signora - e mi indicava -; il prete
allora si voltò verso di me e mi chiese di rispondere a mia volta,
se fosse vera quell'affermazione. Vera, rispondevo io; soltanto
che non ero una signora, ma un signore, ero un travestito; e Aurelio
lo avevo conosciuto sul lungotevere, dove saltuariamente,
e per mio gusto, battevo. Il pretino sudava, ma nessun commento
gli usciva dalle labbra esangui; l'interrogatorio doveva arrivare
fino in fondo. Aurelio gongolava; proprio così l'aveva pensato
quel mio comportamento, e così lo stupore del prete:
quanto più fosse stato insopportabile lo scandalo, tanto maggiori
per lui le probabilità di ritornare libero. Forse però, nell'impeto
dell'invenzione, il mio amico aveva voluto strafare.
"E quest'altra signora - esclamò rivolto al prete che annotava
ogni cosa con pazienza curiale -, anche lei è una mia amante".
Gervasio non aspettò neppure la domanda; la anticipò con irruenza, proclamandosi follemente innamorato di Aurelio, e naturalmente,
sia pure con pudore, confessò la sua natura mascolina,
anche se - aggiunse - nell'anima era femmina! Quel riferimento
a materia di sua stretta competenza indispettì il monsignore
che fino a quel momento si era mantenuto calmo per antico esercizio
burocratico; si rivoltò contro Gervasio intimandogli di non bestemmiare,
e "Per favore, signora, smetta di fumare quel sigaro!" aggiunse, calcando
con un tono carico di acredine, su quel "signora" e su quel "sigaro"
che Gervasio, tanto per darsi un tono, aveva acceso aspettando
il suo turno per rispondere. Faceva caldo, l'estate traboccava
dai finestroni immensi del palazzo; arrivavano fin lassù
le grida dei bambini e le scampanellate delle bici; fuori
era il mondo; esplodeva a tratti lo stridìo dei tramvai sui binari;
le sirene delle ambulanze sibilavano entrando e uscendo
dal San Giovanni addossato al Vicariato; io mi facevo vento
con il pizzo dell'abito; il sole fuori e quella vita disordinata
e festosa mi colpì; là dentro soffocavo. D'impeto mi rivolsi al monsignore: "Noi si è finito? - chiesi con ostentata educazione -Perchè allora potremmo anche andare...". Presi Gervasio per un lembo della gonna: "Saluta il monsignore!" gli intimai; quello si piegò in una riverenza sporgendo la scarpa dalla fibbia luccicante; "Ciao monsignore!"
gli fece con la sua risata mingherlina, e finalmente superò la porta
oltre cui l'avevo preceduto, mentre Aurelio al prete ammutolito
stava balbettando delle scuse. Oltrepassato il portone, ci avvolse
una luce accecante. Attraversammo la piazza danzando
fino al baretto sull'angolo. Aurelio offrì uno champagnino ,
e brindammo soffocandoci di risa...

La libertà se l'era forse conquistata, il mio amico,
nel profondo del cuore,quando aveva deciso di vivere lontano
da quella temibile virago che si era rivelata la sua sposa.
Per quanto riguardava il matrimonio e la nullità del sacramento, interpellata a sua volta, la moglie si era massacrata dalle risa
quando le avevan detto che il marito si era dichiarato
omosessuale; il gioco lei lo aveva subito associato
al tentativo di non pagarle gli alimenti.
Dopo l'incontro al Vicariato, c'eravamo lasciati con Aurelio;
m'aveva preso in macchina Gervasio che passava vicino a casa mia.
Tralasciando di guardare davanti a sè mentre guidava
la sferragliante cinquecento gialla che possedeva da vent'anni,
Gervasio eccitatissimo non faceva che parlare del mio amico;
se n'era tutto d'un colpo innamorato; la sua virilità
riservata, da signore, il tratto con cui aveva retto
alle domande tranello del prete, l'offerta galante del "Nano"
- un'allusione forse a più livelli - nel bar della piazza con il brindisi
l'avevano portato a idolatrarlo, per uno di quei colpi di fulmine
senza motivate ragioni e senza razionali motivazioni
che negli innamoramenti talvolta accadono. "E' maschio
è un signore è bello è forte è gentile è colto è alto è sportivo è artista
insomma a me piace un sacco e mi ci vorrei fidanzare....se non fosse
uno che sta con te!" , intonò tutto d'un fiato superando un semaforo
clamorosamente rosso. Minuscola e sgargiante nel suo giallo,
la macchina fu bersagliata di insulti ma sfrecciò indenne
fra la calca delle automobili rampanti. "Se mi ammazzi muori anche tu
- gli gridai velenoso -; è meglio che stia attento ai semafori.
Quanto ad Aurelio, tientelo pure, a me non me ne importa niente.
Figurati adesso, poi, che sto con Angelo". "Davvero me lo lasci!?"
strillò Gervasio fermando di colpo; si rizzò poi uscendo a pieno busto
dal tettuccio aperto della macchina e si mise a gridare "Aurelio!Aurelio!"; la gente si fermava a guardare, pensando fosse una réclame.

Per un po' non ebbi notizie della coppia; avevo poi saputo,
attraverso una telefonata di Gervasio ,che la passione aveva preso
anche Aurelio, e i due filavano il perfetto amore. Silenzio
per mesi, segno che la felicità impegnava quei due cuori.
Li avevo quasi dimenticati, quando Gervasio si rifece vivo.
All'inizio erano brevi conversazioni telefoniche, quasi dei monologhi ;
cominciava lodando l'amante per l'impeto della sua passione;
lo inteneriva che certe volte, nel cuore della notte, telefonasse
per fargli ascoltare una sonata che andava provando;
gli dedicava quei pezzi con languore infinito e una vitalità scintillante, degna di Paganini....

Un violino appare dall'alto mentre attacca vigorosamente una sonata; tutto il racconto successivo diell'uomo dovrà combattere con questo suono che, pur creatore di classiche sequenze, le offre con proterva ostinazione.

Già a letto per la necessità di alzarsi presto - le pulizie
all'Ambra Jovinelli restavano la sua fonte di guadagno più cospicua -, Gervasio si era perfino addormentato nel bel mezzo
di un pezzo un po' monotono; erano piccoli nei in una relazione
che sembrava avviata a diventare un ménage;
e infatti, dopo qualche tempo, Gervasio mi aveva raccontato
che Aurelio andava a trovarlo con maggiore assiduità:
non più soltanto per soddisfare un rapporto che si era irrobustito
con l'abitudine e la pratica, ma anche per conversare, e apprendere
tante piccole cose femminili ; fissandolo un giorno aveva detto:
"Che bel trucco !" e si era spalmato sulle guance una ditata
del suo fondo tinta; giorni dopo si era provato anche il rossetto,
poi le matite poi gli ombretti; sollecitava l'amante ad insegnargli
i segreti di un perfetto maquillage. Ormai l'uomo arrivava a casa sua portandosi un beauty con i fards; si era comprato un armamentario
di colori, ciprie, creme, lozioni, profumi; con meticolosa pignoleria confrontava i prodotti delle diverse case, discutendo
con Gervasio sulle qualità ed i vantaggi di questa e di quella;
l'altro per un po' lo assecondava, poi si irritava per quelle scivolate dentro il suo territorio, che lo lasciavano sempre più preoccupato. Aurelio prendeva gusto a farsi donna; un giorno si presentò
con una borsa rigonfia di indumenti, scarpe col tacco alto
e biancheria di pizzo. Impiegò parecchio tempo a prepararsi;
seguiva un rituale tutto suo, come se avesse dovuto entrare in scena . Truccato, il corpo robusto sparito nella leggerezza delle trine pastellate,
era comparso irriconoscibile davanti a Gervasio che si aggirava
nervoso nelle stanze, in attesa del permesso di essere ammesso
alla presenza dell'amante, chè quello, tutto preso dal suo gioco,
non gli consentiva di entrare nel bagnetto finchè non avesse terminato
di abbigliarsi. Così conciato ne usciva; brandiva il violino e si gettava
in un suo repertorio di sonate, dedicandole all'amico.
Cresceva in Aurelio il piacere delle scoperte femminili.
Andò a scovare dei vestiti che Gervasio teneva gelosamente
in un armadio per le feste dove tutti insieme i "travestis" si ritrovavano; anch'io ci andavo qualche volta, ma preferivo l'avventura singola.
Ormai per Aurelio era l'intera giornata a consumarsi nel travestimento. Rigoroso e puntuale, arrivava con la sua valigetta rifornita
di tutto quanto gli serviva. Veloci trascorrevano le ore, per lui,
davanti allo specchio da cui sorvegliava ogni fase della sua metamorfosi. Esigeva partecipazione da Gervasio, che invece andava esasperandosi,
e come unico sfogo riversava il suo cordoglio nelle telefonate a me ,
che avevo conosciuto l'altro Aurelio, maschio e sciupafemmine,
di cui si era innamorato in Vicariato. Come consolare Gervasio ?
Che potevo fare quando singhiozzava raccontando che l'amico
voleva essere posseduto da lui che ormai considerava suo marito?
Nella mia testa si aggirava un pensiero intorno al senso del suo soffrire, uguale per Aurelio e per me. Io credo - pensavo - che se fossi donna vorrei, credendo di essere come sono, sembrare un uomo.
Andò avanti ancora un po' quella storia tra i due; alla fine
Gervasio si spazientì e non volle più vedere Aurelio;
quello arrivava alla sua porta e gli faceva una sonata
per indurlo ad aprire. Lui zitto, come se non fosse in casa.
L'altro allora lo chiamava per telefono: sviolinate a non finire. "Basta!" urlava Gervasio, e sbatteva giù .Gli dispiaceva di aver perso l'amante,
ma era soprattutto indispettito perchè proprio l'amante
l'aveva superato come donna.

L'uomo richiude le ante dell'armadio-negozio; Tutto ritorna bianco.

11. LA RUSA FIL CARUSA II

L'uomo è fermo, silenzioso.La stessa situazione dell'inizio.

Ero tornato a Tunisi, dopo anni che giravo per il mondo.
Una volta cresciuto ero partito; mi ero messo in testa di diventare attore,
e il teatro aveva reso accettabile alla gente il mio gusto
del travestimento. Recitavo in una commedia che l'Italia aveva inviato in Tunisia, non so per quale scambio o anniversario;
e dopo lo spettacolo, la sera della prima , l'ambasciatore
era venuto in camerino a farmi i complimenti; era con lui un giovane
che apparteneva ad una famiglia di prestigio ; come parecchi
del ceto aristocratico aveva preso la laurea in Italia.
Mentre l'altro me lo presentava, il ragazzo sfuggiva canzonando
il mio sguardo finchè non mi fissò con un sorriso che a me parve stranamente provocante, e mi invitò alla sua festa di nozze,
che dovevano celebrarsi il giorno dopo. Di fronte al mio silenzio
il giovane insisteva: ci sarebbe stato il pranzo, e cerimonie e riti .
Quei banchetti di gente importante , io li avevo conosciuti da bambino;
per mangiare avevo sovente rallegrato le tavole imbandite dei signori
con le mie danze lievi, le canzoncine...E oltre al cibo, quanto ne volevo, mi regalavano un mucchio di monete. Accettai l'invito del ragazzo, oscuramente desiderando di rivederlo, e il giorno seguente
andai al ricevimento.La sposa troneggiava al centro della sala, nella sontuosa veste sfavillante a metà tra il costume nazionale e gli abiti della celebre Gramani. Lo sposo si rivolgeva agli amici
con la gentile sicurezza del padrone; ogni tanto lanciava alla sposa
uno sguardo adorante facendole un inchino; sorrideva la bella, circondata dal suo universo femminile, libera di giocare con le amiche fino al momento in cui sarebbe appartenuta a lui.
D'improvviso il giovane si stacca dal gruppo degli amici;
con quelle sue mani imperative si apre un varco
tra il groviglio degli abbracci e mi raggiunge. Mi stringe la mano,
a lungo me la tiene fra le sue ; arrossisco, conosce forse
il mio passato?Rimango fermo, sorridendo appena, consapevole
dell'assurdità del desiderio che mi chiude il respiro ; lo guardo sforzandomi di non esprimere quello che provo . "Quanto chiasso",
sussurra sfiorandomi; il contatto mi fa star male ; "Vieni con me"
dice piano; lo precedo,ma è lui che mi guida
mentre forziamo la ressa della gente . Passiamo oltre una porta ;
un corridoio lungo , un'altra porta in fondo ; la apriamo
e c'è la stanza degli sposi , preparata per il loro primo incontro
dopo la cerimonia consacrata. L'ampio letto nel mezzo era coperto
di una seta intrecciata dai colori brillanti, fluttuante
al soffio più leggero, come un mare che respira nel sonno; sopra,
a mazzetti e coroncine ,fiori dai profumi di zucchero; intorno, specchi dappertutto , e tante brocche d'acqua freschissima; e incensi dentro vasi d'argento. Lontano a tratti voci acute acerbamente impegnate
in un canto mi riportavano all'infanzia...Era un invito
ad afferrare quel momento , prima che il tempo lo bruciasse...
" La rusa fil carusa...La rusa fil carusa..." cantava la gente
guardandomi danzare nei vicoli della città vecchia, avvolto dei teli bianchi sottratti a casa..."La rusa fil carusa...",
la sposa passa in carrozza:...Ridevano battendo le mani
al ritmo del mio canto; io danzavo , candido e lieve come una ragazza nel giorno lieto del matrimonio...Accennai quel canto, la mia voce
si era fatta infantile; il giovane mi teneva per mano.
"Vieni - mi disse - , facciamo l'amore". Delicatamente afferrò
per i lembi la coperta; così distesa, i fiori sparsi ,
la deponemmo a terra. Immacolato, soffice, perfetto,
apparve il letto, soavemente preparato per le nozze.

L'uomo prende un rametto di incenso acceso; il fumo leggero si sprigiona dalla sommità del bastoncino; l'uomo guarda l'incenso bruciare, mentre un suono leggero e lontano , di voci infantili indistinte, rende sospeso il momento assorto.

L'amore arse come un ramo d'incenso; un brivido l'ultimo bagliore, silenzio di cenere alla fine. Rimettemmo al suo posto la coperta . "Dobbiamo andare", disse. Eravamo già fuori, al di là della soglia.

12. LA RISTOURNE

Scende dall'alto un vistoso paio di scarpe con il tacco al spillo; l'uomo le indossa restando con i suoi abiti maschili. Poi scende una parrucchetta bionda . Scarpe e parrucca verranno indossate o tolte nel corso del racconto, come oggetti parte del gioco.

A Parigi mi sento a casa mia. Là posso costruirmi
come voglio, padre e madre a me stesso; cominciando
dal nome, Mignardise... garofano minuscolo, ingenua droga
profumata, evocatrice dell'infanzia con il raffreddore
e il vin brulé , nella quiete casalinga della sera...Mignardise ,
gioco e malizia da mignottaggine bambina...
Mi preparavo quando faceva scuro, calze nere di seta,
e poi i soliti straccetti ...Quando indosso delle cose da donna
mi trasformo, cambio totalmente. Ma è l'idea soprattutto...
il pensiero che sia io a vestirmene in un sesso che la natura
non mi ha dato. Il viso...non mi trucco quasi...un po' di rosso
sulle labbra, la matita intorno agli occhi, sono miei
i capelli biondo chiaro, con la frangia bombée...
Sapevo già dove andare, il mio bar dai tavolini fuori...
Non facevo niente per sedurre; immobile, assente, e subito attraevo.
Sceglievo tra quanti si fermavano; l'uomo diventava mio . Un'occhiata, qualche frase gentile ,pretesti scopertissimi...Una bella signora , abbandonata da chissà quale amante ...per una lite forse...
od un inganno. Eludevo la risposta, sulla soglia delle lacrime,
nello sguardo la passione trattenuta...Quale dolore mai si nascondeva
in fondo agli occhi rimmellati di blu?...Ma lo strazio più crudele
a un certo punto cede alle lusinghe di un invito a cena; alla fine
con un sorriso rassegnato ammettevo di sentire un po' di fame. Quello, felice! -che occasione migliore per l'approccio galante, prima di finire dentro un letto? - si affrettava a dire "Proprio qui, dietro l'angolo,
c'è un bel ristorantino.." e mi portava giusto nel locale
dov' ero d'accordo col padrone: ogni cliente, una ricca percentuale
sopra un conto gonfiato di champagne. Tutte le sere
di clienti in questo modo me ne facevo almeno due o tre. Nei piatti piluccavo soltanto; bevevo lo champagne,mi aiutava a inventare
ogni volta una storia misteriosa ed eccitante.
Quando arrivava il momento di pagare, mi alzavo lieve
sussurrando "Scusami, devo andare un attimo...", una signora
non pronuncia mai certe parole; lui sorrideva dicendo
"Ti aspetto", mentre stava mettendo mano al portafoglio. Volando
sui tacchetti raggiungevo la porta di quel bagno agognato; aveva
un finestrino largo appena quanto la testa di un bambino;
mi ci incastravo trattenendo il fiato, i denti conficcati nel cinghietto
delle scarpe scalzate, e finalmente mi affacciavo nell'umida cucina.
I camerieri allora mi estraevano dallo scomodo buco , paonazzo
e madido come un neonato gigantesco . Uscivo dalla porta sul cortile,
di corsa a raggiungere la strada , zoppicando a rimettermi i tacchi .
Mi riassestavo gli abiti , i capelli; a poco a poco si calmava il respiro; svoltato l'angolo mi riprendevo, sicuro di averla fatta franca.
Andavo a casa un momento a riposare; poi restauravo il trucco, cambiavo vestito...E di nuovo nella notte, seduta a un bar,
languida, silenziosa , sola...Passando un uomo mi notava, si fermava indugiando...le prime avances... gli sguardi, il pianto trattenuto...
l'invito a cena...il ristorante! Era facile mettersi d'accordo col padrone; noi che vivevamo di espedienti chiamavamo quest' affare "ristourne".
Ed era ogni sera divertente escogitare un marchingegno diverso
per sedurre l'uomo e raggirarlo. Se facevi la ristourne, non dovevi
andare a letto col cliente; io mi sono prostituito tante volte,
non era il fatto in sè che rifiutavo, ma qui il lavoro consisteva soprattutto nell'abbindolare, i soldi poi te li dava il ristorante.
A sedurre mi gettavo con impegno , come se vivessi un incontro fatale; nel contempo , da attrice esperta , mutavo inflessioni e atteggiamenti secondo le reazioni del cliente . Finita la mia parte sparivo ; la fuga
mi consentiva di restare , per quell'ingenuo amante di ristourne ,
la bella triste avvolta nel mistero.

13. MI STACCO LE SCARPE DALLA BOCCA

Era una serata di ristourne. Il giovanotto si era quasi ubriacato
e dopo il dolce - una delizia di crème caramel - , mi alzo
e con aria maliziosa gli sussurro le solite parole tra il pudico
e un tantino di erotismo, come se in quell'andata alla toilette
mi preparassi al rapporto con lui. Mi avvìo svelta,un gesto a suggerirgli "Torno subito...". Entro nel cesso; tutto come sempre, le scarpe in bocca, la testa a forza dentro il finestrino, giù in cucina a precipizio, liberato
dagli sguatteri e via di corsa ! Sistemo la frangetta , mi rimetto le scarpe, e tic e tac e ticchiticchi ticchi tac rallento, mi calmo,
sono fuori pericolo. Ma di colpo dietro di me risuona un urlo feroce!...L'uomo mi stava raggiungendo! Come aveva fatto quel dannato
a scoprire la truffa così in fretta?! Di solito il padrone del locale
trattiene il cliente per un po'; "Sarà ancora in toilette..." comincia a dire;
poi manda il cameriere a bussare... "Forse la signora non si sente bene.."
Ma quella volta l'uomo era sul punto di raggiungermi. Correvo
a perdifiato e quello dietro! Disperato mi infilo in un portone
che mi trovo davanti spalancato; una rampa di scale...
salgo i gradini come un gatto...Buio e silenzio e il mio ansimare sordo. Arrivo a un pianerottolo, incespico e mi trovo una chiave tra i piedi, sbucata da sotto uno stuoino; mi butto a infilarla nella toppa
e la porta si apre di scatto! Entro e richiudo, è un attimo.
La voce del mio persecutore scende e risale col rumore dei passi, paurosa minacciando per le scale; ne sento il fiato al di là della porta , poi si perde lontano imprecando...Se ne va...respiro di gioia,
sciolgo le membra irrigidite, mi stacco le scarpe dalla bocca.
Come una bestia scampata al massacro mi getto a terra nell'oscurità...Dopo tanto terrore, finalmente è un momento
tutto da godere! Ma pochi istanti dopo, ecco ancora dei passi : rimbombano sul marmo dei gradini; il rumore è diverso
da prima..Silenzio . E un raspare, proprio lì davanti: la chiave !,
stanno rivoltando lo stuoino...Colpi alla porta, e una voce imperiosa, concitata: "Chi c'è dentro? Chi c'è? Chiamo la Polizia!".
Mi rimetto le scarpe, un po' di cipria ; ricomposto nella mia dignità
trovo la forza di parlare. "Per favore! Per favore...Apro subito!"
- e intanto manovravo il catenaccio - ; "Stavo scappando, una situazione di emergenza..." - ero riuscito ad aprire, davanti mi stava un uomo stupefatto -; "Scappavo da un corteggiatore.. " - un uomo non brutto, anzi piuttosto attraente - ; "...da un corteggiatore... " - dovevo ammansirlo - ; "...troppo violento...un bruto..." - lo osservavo , incerto: non sembrava cattivo, e stava ascoltandomi - ; "...uno che voleva a tutti i costi..."- pareva divertito della mia confusione, già attratto -
"...a tutti i costi andare a letto con me!". " E voi non volevate, bella bionda?". La mia recita aveva funzionato, e la cipria, e il profumo
di Coty..." Io no...non volevo...perchè...": stavo cercando una scusa,
non potevo certo raccontargli la mia reale identità Abbasso gli occhi
econ un tono appena intelligibile mormoro "Monsieur...in certi giorni, no..."; poi alzo lo sguardo e arditamente aggiungo " E in ogni caso, soltanto se mi va!". Ride!: benissimo, l'ho fatto divertire! Alla fine
si acqueta; preso dal gusto del dominio, deciso impone:
"Stai con me e io non ti denuncio!".Tento una resistenza doverosa,
ma lui incalza: "O con me o la Polizia!".Gioco il tutto per tutto:
"Ma lo sai che mi piaci così maschio, così potente!"
gli getto in un orecchio solleticandolo con le ciglia finte.
Chiude la porta e mi avviluppa in un abbraccio .
Gli offro quanto posso, fingendo una natura femminile... L'onda
dei capelli luminosi - ci affonda le mani estasiato -, labbra scarlatte
e lucide - è pazzo di quel sapore di burro di cacao -, e il profumo inebriante di Coty - avido ne aspira le ventate, attratto, intronato,
alla fine delirante di passione e totalmente in mio potere!
Provo anch'io gusto inaspettatamente a quel rapporto intenso
e imprevedibile. Sazi, placati ritroviamo infine le parole. Vuol sapere
di me, chi sono cosa faccio dove sto, e quando possiamo
rivederci. "Verrò - gli dico carezzevole -; verrò... , e scherzosa :"So
come fare per entrare...". Quasi in pianto mi supplica: "Verrai!...
Prometti!...". Prometto, giuro di farmi al più presto rivedere...
Qualche giorno per tornare in bellezza, per darmi a lui
senza più limitazioni...Mi lasciò andare. Mai più sarei tornata
a quella porta. Amata come donna, banalmente, in un amplesso
destinato a svanire come un labile profumo di Coty.
L'amore di un uomo e di una donna. Una donna? Una donna. Me.

14. LA PURA NUDITA'

Alle scarpe ed alla parrucca si aggiunge un foulard di seta; l'uomo'giocherà con questi elementi, tormento, alibi, invenzione.
La loro graduale eliminazione riporta l'uomo alla sua connotazione iniziale.

Ero come pazzo in quel corpo che non mi volevo.
Avrei voluto uscirne, liberando la mia vera natura ,
invisibile a causa di una mascolinità impicciosa e soltanto apparente.
La piegavo allora portandola all'immagine che la gente attribuisce
alla femminilità. E battevo ; guai a confessare il desiderio di cercare l'amore ; mascheravo prostituendomi.

Una notte stavo ritornando a casa, pioveva fitto , ero sfinito.
I tacchi sgangherati si incastravano nelle fessure dei sampietrini.
Colavo trucco, i capelli appiccicati sulla fronte. Passa una macchina,
mi investe una marea di spruzzi sporchi. Inveisco, bestemmio,
alzo la mano a maledire...La macchina si ferma
e fa marcia indietro lentamente. Oddìo mi viene la paura...
Vorrà picchiarmi per quello che ho detto!... Mi si ferma accanto,
dal finestrino si affaccia un uomo distinto, sui trent'anni, e mi fa: "Signora scusi!". Ero interdetto, non mi aspettavo quella cortesia .
"Ah...fa niente... -rispondo -, scusi lei". Intanto con le mani
andavo sbattendomi la gonna per toglierne via l'acqua,
e così mi bagnavo ancor di più. Lui scende dalla macchina.
"Venga ", dice, e apre la portiera con un gesto galante. Salgo
e mi lascio andare sul sedile. "Le bagnerò tutta quanta la moquette...". Ma lui non ci badava. "Venga che l'accompagno, mi dica dove sta...". Intanto era salito, stava avviando il motore. "Sto qui ad un passo,
non doveva disturbarsi...". Chissà perchè, mi venivan quelle frasi
da ragazza perbene ; l'uomo non era dei i soliti che vanno a caccia
di battone o di trans; timido, si vedeva; non abituato
a frequentare la gente come me; per questo ,forse ,volevo piacergli.
La pioggia aveva lavato i colori dal mio viso ; annullato il clamore
dei capelli ondulati e lucenti, cancellati i profumi..
Nel buio il rumore dell'acquazzone che cresceva d'intensità.
Durante il tragitto nessuno dei due parlò.Mi accompagnò fin sotto casa. Scese, mi aprì la portiera con un inchino. Mi seguì senza chiedere;
lo desideravo, ma ero pieno di paura, per quell'uomo io ero una donna.
Non so se si sia reso conto, quella sera, quando muti facemmo l'amore,
di chi fossi. Tornò la sera dopo e poi ancora. Smisi di battere.
Lo aspettavo. Mi facevo trovare vestita tra il maschile e il femminile; poco trucco, i capelli vaporosi. Ero certo più bella
che nell'incontro del diluvio,ma a lui non pareva importare,
nè gli premeva che parlassimo. E neppure il rapporto amoroso
sembrava poi interessargli tanto . Cercavo di capire per che cosa
venisse ogni sera da me, ma non osavo chiederne,
per timore che svanisse la mia favola.
Una sera trascurai il rossetto per la fretta di correre ad aprirgli.
Quella notte andandosene mi disse: "Non mettertelo più".
La volta successiva me lo vidi arrivare all'improvviso ;
dovevo ancora contornarmi gli occhi; nel lasciarmi
ripetè la stessa frase. Gli obbedivo , pur temendo
che non mi avrebbe accettato più .Una sera scordai di cambiarmi ;
ero rimasto, per la fretta, come quando vado in giro
per le mie commissioni. Era la parrucca a resistere ;
ma una sera la dimenticai: l' avevo messa ad asciugare nel bagno ,
sopra una cordicella; stretto e abbassato sulla fronte ,
un foulard di seta leggera mi circondava il capo tutt'intorno.
Mi baciò andando via: "Grazie ", disse appena, e non capii
se si era accorto di quel radicale mutamento. Quando ricomparve
la notte successiva portava con sè delle valige. Le depose in entrata,
mi raggiunse . Tremavo nella mia pura nudità. Il velo
aderiva alla fronte , ultima mia difesa. Lentamente
lui ne disciolse il nodo e la seta sfuggì via.
Io lo scrutavo pieno di paura; non c'era stupore, non c'era sconcerto
nel suo sguardo. Poi chiese placido: "Dove metto la roba?". Si muoveva agilmente per le stanze, indovinando armadi e cassetti. Ben presto
le cose sue si trovarono mescolate alle mie; libri con libri,
scarpe con scarpe e saponi e rasoi. Come due parti di una noce
ci addormentammo attorcigliati, nello spazio di una sola persona.

15. COME UNA PUPA FRAGILE DAL BOZZOLO

L'uomo è raccolto su se stesso; riemerge poi tornando al suo atteggiamento di riflessione .

Può la passione mantenersi intatta? Tra di noi s'era creato un ménage;
io avevo abbandonato ogni parvenza femminile , Angelo
mi sapeva donna, la nostra intesa era perfetta.
Ma il corpo ha i suoi sussulti; siamo tentati da ciò che non amiamo.
C'erano sere in cui Angelo rincasava tardi. Una notte non rientrò.
Per un intero week-end non lo vidi nè mi diede notizie. L'angoscia
mi prendeva alla gola; non riuscivo a respirare. Mi dicevo "Ragiona :
una cosa è il sentimento, un'altra i muscoli, i polmoni"; ma non serviva
la volontà, era la mia natura sotterranea a comandare inesorabilmente,
e in quelle circostanze rischiavo di morire.
Che la nostra passione si riducesse alla stessa gelosia
delle coppie normali, per l'intrusione di un terzo che infrangeva
il rapporto precedente!... Oh! Non così avevo immaginato!...
Rimpiangevo di farmi trascinare in questo meschino genere di angosce.
E a poco a poco, all'Angelo facevo confessare. Che si era innamorato. Che lei non era bella; ma sì, era una donna e -cosa mai accaduta prima - se ne sentiva attratto . Non potevo combattere, era per me
un territorio estraneo .Mi torcevo nell'impotenza e lo assillavo
di domande. Sì, andava a casa da lei. Non facevano niente di speciale.
E l'amore? gli gridavo d'impulso. Sorrideva: anche quello,
ma non era importante... Proprio come con me!
Con quella donna! Oh! fosse morta!...Per un caso fortuito...
un segno del destino...Smaniavo di conoscerla, mi pareva
che , prendendo volto , la mia angoscia si sarebbe un poco placata.
Così un giorno , quando Angelo stava uscendo dal lavoro,
lo seguii di lontano, protetto da un paio di immensi occhiali scuri,
la gonna lunga, un cappello dalla falda abbassata. Camminava svelto
dando calci ai sassi sulla strada, come fanno i ragazzi spensierati.
Sparì ad un tratto dietro a una portina in una viuzza di Trastevere;
riapparve su un balcone; respirava profondo, come se davanti
gli si fosse dispiegata una vallata; accanto ai vetri intravvedevo
una figura femminile; entro di corsa, divorando i gradini ;
mi attacco al campanello, non smetto finchè non vengono ad aprire. Spalancano la porta spaventati, lui e la donna. "Ah così? - ansimavo - Così eh?!" e mi guardavo attorno. La sua giacca appoggiata
a una sedia, e le scarpe accanto; portava delle pantofole ,
non gliele avevo mai vedute, e neppure il pullover , morbido, vivace...
Mi getto sulla giacca, strappo le maniche, dilanio la fodera a brandelli . "Ah così? Così eh?!", non riuscivo a pronunciare nient'altro . La donna... un'altra razza.. si agitava torcendosi le mani, diva da quattro soldi!, voleva spiegare...accomodare...lei dolce, lei puttana, lei favorita
dalla natura...leileilei!!!..ottusa sfinge priva di segreti ; avanzava tentando un sorriso, le mani protese a rabbonire l'animale.
Scartai il contatto e puntai sulla vetrata aperta, mi ci tuffai
bevendo l'aria avidamente.....

Il muro dietro l'uomo si spalanca; ne vien fuori un'ingessatura bianca
a corpo intero, con il collo e la testa, una sorta di armatura che l'uomo indossa mentre parla.

Mi risvegliai in ospedale: sopra di me il volto dell'Angelo. Il gesso
mi imprigionava braccia e gambe, e il busto e il collo fino alla testa. L'Angelo sorridendo mi cullava; ritmicamente la sua mano batteva
sulla superficie rigida, inducendomi al sonno.
Dormii per giorni; ogni tanto mi svegliavo e vedevo il volto dell'Angelo ; respiravo seguendo il suo respiro... lo sognavo sdoppiandomi in lui.
Dopo un po' mi mandarono a casa; avevano intagliato delle fessure
nell'ingessatura per consentirmi qualche movimento.
La paura che morissi per colpa sua mi aveva restituito
alle cure dell'amante.. Mi seguiva con attenzione trepida , sciolto all'apparenza da ogni altro pensiero.
Ma la natura umana inganna. Una notte mi rivoltavo per l'afa
nel letto rovente prigionìa; svegliandomi non lo trovai.
Nell'assillo di scoprire dove fosse mi gettai giù dalle scale
rotolando sui gradini; quella crescente sofferenza io la offrivo
per ritrovare l'Angelo. Fitti come aghi seccamente fili di pioggia penetravano nel gesso; sfacendosi la pietra mi colava sul viso ,
mentre barcollavo per le strade buie. Rare macchine di passaggio
mi gettavano addosso i fari e schizzavano via . Arrivai
alla casa della donna; una luce di candela filtrava dalla vetrata.
Tentai di salire la rampa delle scale, in preda a una disperazione bestiale. Sdraiato alla fine sull'asfalto bagnato ,
gli occhi alla luce del mio dio traditore, urlai nel pianto;
mi costringevo al respiro per continuare il grido e farmi udire,
malgrado la volontà di morire. D'un tratto apparve l'Angelo. Mi chiamò. Stupore e che altro in quella voce?, tenerezza... rimprovero...
rabbia ... amore...Me lo trovai accanto. Toccò il gesso rammollito
e ogni spasimo cessò; tacqui ma non potei sfuggirne lo sguardo. Svenni.

Lunga la mia convalescenza. Avevo bisogno d'aria pura , di calore
e di passeggiate. Trovammo un albergo piccolo sul mare; nessuno in giro, la fresca pulizia di fuori stagione.

L'uomo si libera dall'armatura di gesso , che torna dentro il muro.

Mi liberai dal gesso un mattino di sole,
come una pupa fragile dal bozzolo; caddero a terra
i gusci sporchi e inutili. Mi stirai allungandomi.
Le membra intorpidite obbedivano pigramente .
La completezza del corpo ritrovato mi dava una sensazione di piacere . Per la prima volta dopo mesi camminavo. Percorsi brevi,
un gelato, il chiosco dei giornali.

Dall'alto scende un foglio di giornale spiegato. L'uomo lo afferra; eseguendo poi le azioni dellAngelo, intrecciando alle azioni le parole .

In prima pagina il quotidiano della città riportava un incidente.
Una donna era bruciata con tutta la casa:
una candela aveva propagato il fuoco intorno.
Seduti su un muretto, con il mare davanti, leggevamo
il foglio spalancato. Angelo accese un fiammifero,
diede fuoco alla pagina; aspettò che si fosse consumata ;
strinse nel pugno la superficie nera finchè non fu che polvere di cenere ; la gettò nelle onde. Brillò un attimo. Scomparve inabissandosi.

16. LE TOVAGLIE SI TINGEVANO DI PORPORA

L'uomo è fermo, nel suo abito scuro.

Una sera ero a mangiare da Pippetto, a via del Seminario ;
ci andavano parecchi intellettuali; quella volta me ne stavo tutto solo, nell'attesa vana di un amico; mi si era avvicinato un ragazzo,
elegante, alta classe, straniero; parlava inglese; mi guardava
e rideva ; ridevo anch'io, e non capivo niente; andò avanti così
per un po'; intanto si era seduto accanto a me; ordinava le stesse cose che chiedevo al cameriere; si chiamava Edoardo, ripeteva il nome indicandosi, finchè non lo ebbi pronunciato, e allora "yes yes"
era contento; rimase al mio tavolo , interrogando e rispondendosi .
Alla fine ha pagato anche per me; mi sono alzato per andarmene
e lui mi ha seguito; da quel momento non mi ha lasciato più. Mi portava con sè nelle sue passeggiate; al museo etrusco del Ninfeo di Villa Giulia
mi confrontava coi profili sui vasi, incantato della mia somiglianza.
Si divertiva alle danze con i veli, ricordo dell'infanzia tunisina,
che improvvisavo nella casa dov'era andato ad abitare.
Ma preferiva la mia pura nudità o il ragazzo di strada che ero ,
quando lo accompagnavo fuori. Mi incuriosiva, mi intimidiva,
me ne sentivo attratto ; era diverso da quelli che incontravo
quando battevo, violenti, possessivi; diverso anche da certi amanti
buoni a niente. Mi leggeva delle poesie; a volte lanciava in aria i fogli
continuando a memoria, le pupille dilatate, nel suo inglese
incomprensibile.Sbarravo gli occhi nello sforzo di afferrare qualcosa
e lui rideva; una volta mi frustò con il libro sulle labbra, poi bruscamente lo gettò a terra e tacque , all'improvviso assente.
Certi giorni quando pigramente si andava in barca sul laghetto
di Villa Borghese, voleva vedermi specchiato nell'acqua;
vi sporgeva il mio capo con la mano ; contemplava il riflesso, sussurrando Ofilia insieme ad altri suoni flebili ; lo prendeva allora un'emozione che capii soltanto anni dopo, quando conquistai
le ali dei poeti . Era comodo non doversi guadagnare la giornata offrendosi al primo che pagasse; ma rimpiangevo i rischi e le incertezze di una vita che prima era tutta mia . Eppure mi stavo affezionando a lui.
La sfrontatezza di andare in giro, noi due, la mano nella mano,
ridava eccitazione a un' esistenza sprofondata
in una troppo tranquilla sicurezza. Edoardo si inebriava dello scandalo; mostrarsi qual era , qui da noi, poteva ; si nutriva della disapprovazione innocua dei benpensanti, cosa che non poteva concedersi nella sua terra e con la sua famiglia. Ma il rischio induce al rischio. Decise
di ritornare a Londra: mi voleva con sè, presentarmi a sua madre - viveva con la vecchia nobildonna - e mostrarmi alla sua fidanzata; scontato il matrimonio deciso tra le nobili famiglie Partii,
eccitato ed impaurito. A Edoardo piaceva andare in giro senza soldi , giocare con le circostanze, fingere le angosce dell'imprevisto,
divertirsi ad una povertà truccata. Io ero povero davvero
e mi toccava viverla sul serio, quella mancanza di denaro;
lui se ne riscattava al momento opportuno, lasciando conti
da mandare alla madre, o facendosi regalare ogni cosa
per la sua bellezza maledetta. I biglietti del treno fino a Dover
li mandò già pagati sua madre. Durante il viaggio una specie di hostess passava ogni tanto accanto a noi offrendo dolci e tramezzini, bibite, liquori e caffè; io non prendevo niente, ; lui si serviva lanciando occhiate
cariche di fascino alla ragazza che gli sporgeva quelle cose prelibate ; invidiavo la sua capacità di sedurre, quel coraggio incosciente
che lo rendeva padrone del mondo; soltanto al momento di scendere seppi che cibi e bevande erano compresi nel biglietto,
anche la bottiglietta del cognac che con gesto grandioso Edoardo
mi aveva proteso dopo averne sorseggiato; non me lo aveva detto
che era tutto gratis, e si divertiva al mio sconforto.
Mi portò in una pensione; c'era stato, si capiva, altre volte;
sarebbe passato a prendermi, si doveva andare ad un concerto;
scappò via lasciandomi sfinito . Tornò puntuale; aveva indossato
un abito scuro con le code, la camicia candida e un cravattino nero;
io non avevo portato che poche cose pigiate in una sacca
e mi ero sistemato alla meglio, aggiungendoun fiocco vivace
al mio camiciotto sfilacciato. La madre ci attendeva regale in un palco, in ampio decolleté; sorridendo benevola mi porse la mano che baciai,
con la riconoscenza di chi merita un rimprovero e spera
di farsi perdonare; ne ricevetti uno sguardo indulgente,
ero portato da suo figlio, a cui consentiva ogni cosa ; avvertivo
la curiosità tollerante degli amici che festeggiavano
il ritorno di Edoardo con esclamazioni e risate; parlavano tutti insieme , io non capivo niente e aspettavo che l'inizio del concerto
ponesse fine al mio disagio. Finalmente la serata si concluse;
Edoardo mi riportò alla pensione; non poteva restare con me,
se ne andò promettendo di tornare il giorno dopo. Mi sentivo
disorientato e deluso; fortissima, la nostalgia di Roma, dove luoghi
e persone mi erano familiari, ed il nostro legame non era oppresso
dal pregiudizio che ora andava facendoci sentire degli estranei.
Per non pensare mi svagavo ad accendere il camino finto
che troneggiava nella mia stanzetta, infilando una moneta
in una fessura; una fiamma di lampadina illuminava quattro ceppi incrociati. Il mattino seguente Edoardo venne a prendermi;
andammo in giro , mi portò ad un museo che pareva un tempio greco.
Aveva incontrato la fidanzata, impossibile rimandare
il matrimonio , doveva fissare la data; ne parlava
come di una cosa spiacevole e noiosa; eravamo in uno di quei posti
in cui la gente va a prendere il tè per riposarsi durante la visita; ascoltavo ma non mi riusciva di afferrare quello che continuava a dirmi, che, una volta sposato, con molta più libertà poteva stare con me:
ad un marito non si chiede che la forma, e mi carezzava la mano
sotto il tavolo. Parlava e parlava; che la madre aveva già preparato
la casa; era quasi arredata del tutto, c'era la stanza degli ospiti,
avrei potuto star con loro...Mi fissava , stupefatto che non gli rispondessi. Ero indeciso se rovesciare il tavolo con la teiera, le tazze e i biscottini
e urlargli tutta quanta la mia rabbia, oppure continuare ad ascoltarlo
e accettare quella insolita proposta , rassegnandomi, per amore,
ad un comportamento che respingevo. Mi portò a vedere la casa;
era zeppa di regali , ne stavano arrivando da ogni parte.
Quella vista mi rese consapevole che Eodardo stava davvero
per sposarsi; mi mostrava i bicchieri di cristallo,
i piatti decorati in oro e smalto, le posate d'argento
nelle morbide custodie di velluto, le tovaglie coi pizzi ,
le lenzuola con le iniziali del suo nome intrecciate a quelle di lei ...
Mi aggiravo per le stanze disperato; avrei dovuto essere io la sposa,
nei veli candidi...Di slancio lo gridai a Edoardo; rise, eccitato;
quella notte volle restare lì con me, ed io provai un senso di rivalsa.
Il giorno odiato si avvicinava. Io volevo partire, poi volevo restare
per fare ancora un assurdo tentativo. Giocava, come sempre.
Alla fine disse:"Ho bisogno di un erede"; era l'unica cosa
che non potevo dargli . Mi preparò lui stesso la valigia;
finsi di rassegnarmi, accettai i soldi che la madre mi aveva messo
in una busta, salutandomi all'ultimo tè. Mi chiamarono un taxi;
ma invece di andare alla stazione, mi feci portare alla casa degli sposi.
Entrai senza problemi, Edoardo mi aveva dato le chiavi
ed io non gliele avevo restituite. Vagavo dal bagno alla camera da letto;
con l'animo in tumulto vedevo Edoardo in ogni ombra,
mentre come una belva all'improvviso dal buio mi aggrediva
la fidanzata sconosciuta.Si sposava il mattino dopo, il mio ragazzo.
Mi prese uno sconforto disperato.

Dall'alto scende, oscillando sulla testa dell'uomo, un tagliacarte acuminato. L'uomo lo afferra; lo userà come un pugnale rifacendo i gesti che va descrivendo.

Scintillante nell'impugnatura tempestata di quarzi e di ametiste,
un lungo affilato tagliacarte mi attrasse tra i regali allineati.
Con un colpo deciso mi tagliai le vene, dai polsi sprizzò violento
il sangue. Colava rosso e scintillante il mio sangue di povero plebeo;
lo facevo sgocciolare nelle brocche d'argento, nei calici di vetro soffiato: che brindisi ,che pranzi avrebbero più potuto farci? E le tovaglie
si tingevano di porpora a grandi petali ondeggianti...
Riaprii gli occhi in un letto, imprigionato dalle bende. Edoardo
vestito di scuro mi toccava la fronte. "Ora stai bene - sussurrò -;
mi avevi spaventato". La sua mano mi dava un senso di benessere. Trasse un pugnaletto dal taschino: "Me l'ero portato al matrimonio -ammiccò strizzando l'occhio -; se ti fossi presentato in chiesa ,
mi sarei ucciso!". Sul risvolto del tight spiccava un fiore bianco, bellissimo, con una foglia verde.Lo staccò dall'asola e lo gettò sul letto. "Parto. Arrivederci!". Si chinò e mi diede un bacio sulla guancia; non feci in tempo a dirgli niente, era già fuori. Chiusi gli occhi. Così forse era morire...

La mia mano percorreva il lenzuolo...E d'un tratto...

Nella memoria dell'uomo emerge il ricordo del fiore di Edoardo; un gelsomino gigantesco gli arriva accanto dall'alto .

...la sensazione di una fresca superficie vellutata.
Un profumo delizioso si sprigionava dal piccolo fiore
stretto nella mia mano, invadendo la stanza.

17 - LIBERE LE BOCCHE NELLE GRIDA

L'uomo si esprime, a tratti, con qualche piccolo movimento improvviso, subito ritornando alla fissità ; brevi scatti di cui si percepisce appena l'accadimento, perchè prevale la fissità .

Facevamo dei viaggi , la domenica. Luoghi lontani
si ritrovavano l'uno accanto all'altro. Decidevamo il percorso,
quelli del gruppo dovevano essere d'accordo, la scelta
toccava una volta per uno, ed era una festa , allora, camminare.
La passeggiata che amavo sopra tutte partiva dal belvedere del Pincio.
Mi soffermavo sulle panchine del viale che congiunge villa Medici
a Trinità dei Monti, aspirando l'aria pulita; individuavo dall'olfatto la stagione, polline , foglie marcite, frutti selvatici beccati dagli uccelli ; rivelavo
ogni scoperta agli altri che mi seguivano devoti, aspettando dalle mie parole
di camminare in un parco oppure in una strada affollata del centro.
Deviavo, repentinamente, per sorpresa a chi aveva previsto
un itinerario, e mi addentravo nelle strade strette, in salita,
dove si affacciano le botteghe delle sartorie . Ne descrivevo
gli abiti, li indossavo sfilando in mezzo ai compagni estasiati;
mi applaudivano perchè la misera roba carceraria
si trasformava , nel veloce rigirarsi della stoffa, in un vertiginoso decolleté,
il pantalone lasciava indovinare le ginocchia... volteggiava una mantella
sopra una sfuggente forma femminile.Scartavo la via venti settembre,
dai ministeri deserti nel giorno festivo; attraversavo
i giardini del Quirinale e talvolta vi incontravo il Presidente
a passeggio con gli amici; era domenica, i rapporti tendevano all'intimità,
ci scambiavamo saluti che cancellavano la differenza
dalle nostre esistenze; in comune c'era l'attesa del pranzo....

Si vestivano tutti al meglio, la domenica, gli ergastolani miei compagni
di passeggiata. Nel giorno festivo il cortile dove passavamo l'ora d'aria
si dilatava smemoratamente . Se era ancora presto quando si arrivava
a piazza Navona, proponevo una sosta al bar dell'angolo; qualcuno
portava un bicchiere con del caffè; se tenevi gli occhi chiusi e ti lasciavi sfiorare da un filo di vento, sapevi con certezza che stavi nell'aria stessa
della piazza, vicina a te di un soffio; il medesimo sole scendeva sui clienti sdraiati ai suoi tavolini .Ma se eravamo stati svelti, si poteva fare ancora
un salto a Capri, sulla piazzetta: portati dal soffio marino
planavamo con delicatezza su quella piccola sala aperta al cielo;
a gara allora, le palpebre serrate a sfidare l'aria pungente,
libere le bocche nelle grida, come uccelli sfogavamo l'angoscia .
Tra amore e follia, una rete di rapporti, di segni...
E circolavano le "figlie", i bigliettini per mandare notizie;
così sapevi che ti sarebbero arrivate sigarette; anche se non fumavi
era una merce buona per lo scambio; oppure del caffè,
prepararlo in cella ti riportava la casa perduta; potevi invitare qualcuno
o goderti con sublime egoismo quella tazza fatta apposta da te...
Uno degli ergastolani aveva ucciso la sua fidanzata; con gli occhi persi
me lo confidava. Dimenticato il motivo sciocco del delitto,
era tornato al ricordo delle tenerezze e si tormentava d'amore per lei.

Scende dall'alto sull'uomo, a sfiorargli il volto, un guanto azzurro di camoscio. L'uomo afferra il guanto, lo infila su di una mano; la agita con movenze di danza, morbidamente, nell'aria.

A volte tirava fuori un guanto piccolo, di camoscio azzurro,
appartenuto alla sua bella. Implorandomi me lo protendeva;
le pupille serrate a fessura, nella luce opaca della cella zufolava
una canzone di qualche estate prima, e spiava la mia mano che fluttuava
danzandogli a lato del viso; ma se lo sguardo vi si fosse voltato,
sarebbe fuggito, quel fantasma implorato.

18 - UNA RISATA BREVE

Le ante nel muro si socchiudono, lasciando intravvedere una cavità ; l'uomo vi si addentra, continuando a parlare in un sussurro, mentre colpi e grida in echi ripetuti escono dall'antro oscuro.

Una notte mi entrò in cella un carceriere: la pistola nel pugno,
mi costrinse ad avere un rapporto con lui; e stava male
perchè non voleva ammettere di sentirsi attratto da un uomo;
punendo me si dava una pena; solo così , pensando e ragionando,
potevo riuscire a sopportare.
Un guardiano una volta si è innamorato di me, e ad ogni chiamata del processo tremava al pensiero di perdermi; inventava mie mancanze, liti
delle quali ero stato l'iniziatore!...Temeva di non vedermi più,
se fossi uscito di prigione. Io non sapevo cosa fare,
combattuto tra l'impulso di denunciare il suo comportamento
e il timore di quell'angelo in divisa, biondo, gli occhi freddi e cilestrini,
che ero andato amando anche un po'....
Un compagno di cella , un politico, aveva resistito a un secondino.
Era bello, un brigatista dai lineamenti aristocratici, di quei giovani illusi
sognatori di utopie. Non aveva accettato le regole della vita carceraria, l'avevano subito isolato. Di lontano mi arrivava la sua voce sorda,
piena di risentimento. Malediva , ma non per sè ; era il sistema
a esaltare il suo odio; non potevano capirsi il carceriere
a caccia di svaghi per far scorrere l'orario, e il brigatista
avvinto ad un'idea affascinante, terribile, perfetta.
Lo picchiava, la guardia, ogni sera. Lui niente, nessun lamento;
a tratti una risata breve, derisoria. Dalle celle si sentivano i colpi.
Tacevamo, trattenendo il respiro ad attendere il colpo successivo e il grido
che non veniva; soffrivamo per lo sfogo mancato, per la pietà negata nell'ottuso scontro tra due mondi; nessuno dei due ci apparteneva;
ma il pensiero era per quello che pativa .

19. IL SIGNORE DELLE ONDE

Dall'alto scendono a pioggia ,mentre l'uomo parla, fogli scritti a mano; sono di carte le più diverse, fittamente riempite di scritture incerte.

Mi mandavano a far le pulizie dentro agli uffici; spazzavo,
gettavo l'acqua e pulivo i pavimenti con lo straccio ,
libero di andare di qua e di là...Ero il signore delle onde,
quello che ridava la bellezza, l'ordine, lo splendore alle cose offuscate .
Il capo delle guardie mi teneva d'occhio fumando un sigaro, e alla fine
mi dava un bel bicchiere di vino caldo con le spezie oppure un frizzantino fresco, e brindavamo insieme...Mi vedevano in giro, i carcerati...
Nell'ora d'aria poi ci si parlava, e quand'era il giorno delle docce...
Mi mandavano lettere d'amore. Pacchi! ne avevo, mi ci facevo dei cuscini; sotto il capo sentivo il fruscìo di mille voci che imploravano...A sciami
uscendo dalle celle mi venivano intorno...
Un giorno il direttore mi fa chiamare:"Sei trasferito", dice. "Ma perchè!?"
e lui:"Disturbi la quiete, sei causa continua di scandalo!" Presi su la mia roba
e mi fecero partire. Una guardia mi teneva con la manetta a un polso
legato al suo; tutto il viaggio in treno, e la gente mi guardava;
io sorridevo , chi stava peggio era il mio accompagnatore.
Ero stato assegnato ad un carcere piccolo, in una cittadina
che stava tra il mare e la montagna; la prigione era dentro un castelletto,
e davanti un giardino che si affacciava sulla piazza; ci stavano rinchiusi
altri due carcerati. A chi arriva per ultimo la legge del carcere impone
di sottostare al padrone del luogo; accettai di mettermi con il più forte. Mi ero portato nella sacca il mio guardaroba di indumenti femminili,
stracci e straccetti, cose che passavano senza dar nell'occhio ai controlli
delle guardie; poi, stirati, distesi, rispianati, mi offrivano spunto per le danze,
i giochi, le canzoni che mi veniva voglia di cantare; avevamo un piccola stanza dietro a una tenda; là ci raccontavamo le nostre storie.
Il capocarceriere aveva imparato dalla sua esperienza
che colpevoli e innocenti non sono equamente suddivisi;
unico a doverci sorvegliare, decideva orari, vitto e gratificazioni;
diventammo amici, e qualche volta riuscii a dimenticare
di vivere in una prigione. Il mio compagno finì di scontare la pena;
restammo in due; in carcere un corpo vale l'altro, un cuore un altro cuore; esiste il compagno perchè sogni un affetto tu, che vivi la tua voglia di vivere
e reagisci al taglio dei legami che avevi fuori e torni a immaginare , sentendoti accanto una creatura che un' altra un tempo tua te ne richiama.
Anche questo compagno se ne andò; erano allora mie soltanto
le attenzioni del capocarceriere.

Riappare la lunga striscia di cartoncino dove si susseguono i profili che l'uomo va disegnando.

Restavo la mattina a disegnare, sdraiato sull'erba davanti alla prigione;
l'ora d'aria durava tutta la giornata, se c'era il sole.
Il guardiano mi portava dal bar un caffè ed un cornetto
su un vassoio di latta , con garbo; e allora io gli offrivo
un pezzo di brioche . Scorrevamo insieme il giornale, che puntualmente
metteva accanto alla colazione, aspettando che lo aprissi io;
ogni avvenimento ci appariva lontano.

20.LA PROCESSIONE DEGLI INTAGLI

Una stella d'oro di Natale scivola dalll'alto sopra l'uomo.

Natale, il panettone , una stella d'oro tra le sbarre ,
un rametto di abete sulla lampadina nel soffitto.
La bottiglia di vino dolce che aggiunse al vassoio della cena
mi aiutò a cadere nel sonno ; quel giorno terribile sgusciò tra la vigilia
e Santo Stefano. A Capodanno per dare il cambio al mio guardiano,
mandavano di solito dei giovani ; ma quella volta avevano tutti
la licenza ; il turno sarebbe toccato ancora a lui. Il vecchio
non aveva fatto storie, stava già pensando ad un suo piano.
Quando era buio arrivò con il figlio ; non l'avevo mai visto, studiava fuori, disse, e mi guardava, gli occhi socchiusi tra le ciglia chiare,
strusciando una scarpa sul terreno. Mi avvolsero in un cappottaccio scuro;
uno davanti e l'altro dietro, padre e figlio mi fecero uscire.
Nella neve leggera come un'ostia, sulla strada ci aspettava l'automobile,
scivolò silenziosa , nessuno in giro. Dalle finestre coglievo nella corsa
stanze piene di luci colorate, voci attutite, musiche , risate .
Stretto fino allora , il cuore cedeva all'emozione . Ad aspettarci
c'era tutta la famiglia, la moglie, la figlia col marito pasticcere
e la loro bambina di tre anni ; il padre aveva decorato il dolce
con le rose di zucchero ; la piccola strillava perchè voleva subito
una rosa , ma quando mi vide si quetò .

Una gigantesca rosa di zucchero scende dall'alto.

Ballai per lei, facendo risuonare tacchi e punte; mi truccai da pagliaccio
con le matite della mamma; intorno ridevano beati, nonni, zie
e la cugina suora venuta dal convento di clausura. Nella stanza accanto
la televisione scandiva i minuti; la famiglia stava intorno alla tavola,
dove la madre accumulava ogni sorta di pietanze. Si avvicinava l'ora
e sentivo sfuggirmi la gioia; brindai scontrando il bicchiere con tutti quanti,
uno dopo l'altro. Il padre doveva riportarmi alla prigione;
l'esaltazione della serata lo aveva affaticato; disse incerto: "Può portarti
mio figlio...". Il ragazzo si precipitò a rassicurarlo, faceva lui,
andasse a letto in pace. Il guardiano mi abbracciò e con la mano alzata
"Mi raccomando - aggiunse - niente scherzi!" Di nuovo nascosto nel cappotto
rientrai in macchina, accovacciandomi sui sedili dietro.
Il ragazzo guidava per le strade deserte; all'arrivo attraversamo di corsa
il giardino urtando gli alberi e la neve ci cadde addosso; ridemmo sollevati , finalmente al sicuro , scrollandoci il biancore che stava facendosi acqua..
Cominciammo a girare per le stanze. Andavamo per i lunghi corridoi, nella cadenza del nostro respiro; fiori , tralci , uccelli sui soffitti invasi dalle crepe,
e mazzi di violette... immagini di un perduto splendore offuscato dall'umidità ; e infissi straripanti di pratiche ingiallite ... Scostammo una porta
che sporgeva appena dal muro; apparve un corridoio
che portava a una stanza scavata nella roccia, imbiancata, bassa, con un letto di pietra, e sulla pietra l'impronta di un corpo .Alla parete ,
tanti intagli sottili uno sull'altro; accanto, dei numeri ,
e lettere, elle, emme, emme di nuovo...e poi gi poi vu ed esse,
e infine una di...Ogni tanto lettere più grandi, gi ed effe ed emme, ed a...
I giorni e i mesi, incisi nella pietra; volavano in alto seguendo la curva
della roccia, fino al soffitto ; correvano lungo lo spazio dell'arcata, scendendo poi sulla parete in faccia...Brevi intagli; accanto i numeri ,e le lettere, diverse, lavorate come cifre di un corredo a cui viole del pensiero e stelle alpine
si intrecciavano in morbidi motivi...Come un filo di Arianna in labirinto
si muoveva la processione degli intagli, percorrendo perfino il pavimento , deviando agli angoli , inserendovisi a chiocciola, involvendosi in se stessa, girone infinito, sequela inarrestabile dei giorni di prigionia di qualcuno
così solo da osare di dialogare con la pietra... La processione si interrompeva brusca. Mi prese un desiderio disperato di gente viva . Scappammo via.

21. DALL'ALTRA PARTE

Nella cella ritrovai le mie piccole cose. Le palpebre albine spalancate,
il ragazzo aspettava, sfregando sul pavimento la punta della scarpa .

Dall'alto scende uno scialle rosso, di seta. Scenderà poi una vestaglia ricamata a fiori, ed una parrucca di fili di cotone.

Appeso a un chiodo c'era il mio scialle rosso, di seta, con le frange lunghe;
lo feci volteggiare, sfolgorò come ali di libellula, me ne avvolsi improvvisando una danza mentre cantavo l'adorata Piaf per quel ragazzo attonito.
Poi tirai fuori una vestaglia ricamata a fiori ; incrociandola sul petto, trattenuta da una sciarpa nera era un costume da gheisha;
fili intrecciati, a turbante sul capo, era una parrucca giapponese.
Frenetico agitarsi , spasimo di creare... Fatica inadeguata
per un solo spettatore, all'oscuro dei simboli che attribuivo
a quelle povere cose...Il ragazzo avanzò di un passo, entrò nella scena,
si trovò dall'altra parte.
Cominciò allora a muoversi sul ritmo della canzone che stavo cantando; azzardò un balbettìo, poi qualche parola, frasi, ed io gli rispondevo.
La storia tra il giovane straniero e la gheisha si concluse
in un amplesso delirante. Quanto di reale ci mettessimo, quanto di simbolico non so; fu bello, nel suo tempo circoscritto. All'alba la luce invase il pavimento. Intorno a noi riapparve la prigione . E il ragazzo se ne andò .
PRESENTAZIONE DI MARIO FERRERO AL FESTIVAL DI TODI, 28/8/96.

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