Per il corso di recitazione di terzo anno affidatomi da Ruggero Jacobbi, allora direttore dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, scelsi “Le Troiane”, non soltanto per la denuncia contro le violenze della guerra da parte delle donne, che della guerra patiscono – oggi come allora – le pene più dolorose e umilianti, ma anche perché, nella ricerca di un testo per gli allievi la cui maggioranza in quell’anno erano ragazze, individuai nelle figure femminili la duplice valenza dell’umanità variamente espressa e dell’allegoria in esse adombrata: Ecuba, la regalità decaduta; Cassandra, la sacralità violata; Andromaca, la maternità tradita; Elena, la bellezza adescatrice; il coro delle ragazze, la folla delle degradate e offese di ogni tempo e cultura; questi personaggi interagiscono intrecciandosi in una tessitura che offre le possibilità interpretative del monologo, del dialogo e del coro.
Questi personaggi ricevono impulso dagli interventi maschili: il regale e ambiguo Menelao in bilico fra il rifiuto filosofico della sposa traditrice sollecitato da Ecuba e il cedimento al sesso riproposto da Elena mediante l’impudica esibizione di sé; il guerriero Taltibio incerto fra l’obbedienza a uccidere Astianatte come esecutore di un ordine militare e la pietà che da osservatore partecipe lo pervade. Ma già nel prologo l’incertezza del comportamento maschile si riscontra in Poseidone, che si lascia convincere da Atena assecondandola nella vendetta contro i Greci.
Dopo aver letto e confrontato diverse traduzioni, nessuna delle quali secondo me permetteva un’interpretazione teatralmente valida - alcune meticolosamente fedeli al greco ma imparlabili, altre che affossavano la coerenza di un linguaggio ancorato a credenze e comportamenti attraverso trasposizioni modernizzanti, altre ancora che, soprattutto nei cori eliminavano le metafore e risalendo al significato logico distruggevano quanto il poeta aveva creato per sfuggire al naturalismo della dimensione episodica.
Decisi di tradurre verificando in scena l’espressività delle battute insieme alla loro comprensibilità; mi mantenni a un linguaggio alto ma non aulico, cercai di ottenere quella musicalità determinata dagli accenti di una frase, lontana certo dal recupero dei versi e del canto, ma fluente nelle diverse accezioni dello sviluppo drammaturgico; quando un dialogo si inceppava, tornavo all’originale greco, fino a individuare una più aderente modalità espressiva. Nel corso delle prove la traduzione andava modificandosi via via che gli attori vi si confrontavano:
“àneke, pàreke, fére fòs”
canta Cassandra: quanto riesco a suggerirle è
“alza, mostra, porta la luce”,
e con questo tipo di ricerca sui ritmi e sui suoni ho lavorato in tutta la tragedia.
“Le Troiane” andò in scena nel maggio del 1978 al Teatro Studio Eleonora Duse, il “Teatrino” dell’Accademia. Lo spettacolo si svolgeva in mezzo a due ali di spettatori occupando l’intera sala, dal palcoscenico alla porta d’entrata. Vennero ad assistervi anche gli attori del Living, uno dei quali – Argento – era un nostro allievo. Ricordo Julian Beck e Judith Malina seguire le azioni senza mai distogliere lo sguardo; la figlia, una ragazzina di una dozzina d’anni, pianse per quasi tutto il tempo: aveva capito le nostre metafore sceniche, come quando su di un fondale bianco precipita, come per il colpo di una mannaia, una striscia di velluto rosso: Astianatte gettato giù dalle mura della città.
Dopo il debutto romano, “Le Troiane” venne invitato a Siracusa da Giusto Monaco, allora presidente dell’INDA – Istituto Nazionale del Dramma Antico – e andò in scena nella chiesa di San Giovannello; la navata centrale scoperchiata si prestava a un trasferimento dello spettacolo dal Teatrino, e Filippo Amoroso, direttore organizzativo dell’Istituto, ci diede un forte aiuto perché la rappresentazione si svolgesse nel modo migliore, tenendo conto che i ragazzi per la prima volta recitavano fuori dall’Accademia. Lo spettacolo andò talmente bene che un impresario lo ingaggiò per una tournée che si protrasse fino all’anno successivo.
Forse fu il rapporto di stima instauratosi tra noi a indurre Giusto Monaco ad affidarmi per la rappresentazione siracusana del 1984 la traduzione del “Filottete” di Sofocle. Era stata inaugurata da pochi anni la collaborazione fra un autore e un grecista, al fine di garantire la fedeltà nella trasposizione linguistica e al contempo la sua rappresentabilità, non sempre di completa soddisfazione con il solo apporto di professori esperti linguisti ma inesperti di teatro. Avrei avuto l’onore di lavorare con Agostino Masaracchia, prima cattedra di letteratura greca nell’università “La Sapienza” di Roma, grandissimo studioso e docente di genio, giustamente intollerante di confusionarietà e di ignoranze, e io temevo la mia inadeguatezza. Ma dopo una sua prima diffidenza, alla verifica sul lavoro comune Masaracchia, oltre che la stima mi regalò la sua amicizia; la sua cultura profonda mi consentì di innestare su solide basi un linguaggio teatrale che richiamasse le antiche risonanze, e questa splendida intesa fruttò un risultato confermatosi poi alla rappresentazione: Walter Pagliaro potè lavorare con gli attori senza i tormenti di un linguaggio ingessato; dai protagonisti al coro tutto risultò di forte comunicabilità, e il successo fu intenso ed emozionante
“Filottete”, pubblicato dall’INDA nell’anno della sua rappresentazione, venne poi inserito nella nostra Collana “Passato e Presente”, di cui porta il numero 8.
Nell’ottica delle nostre finalità - scegliere testi di particolare valore poetico e tematico, sia del passato che dell’epoca attuale -, anche questa tragedia viene oggi a inserirsi nella Collana. Ripresa con qualche esperienza in più da parte mia, sia sul piano della traduzione che della sensibilità teatrale, ha subìto alcuni cambiamenti, riacquistando ad esempio certe metafore accantonate nell’interpretazione accademica per timore di incmprensioni, con più fiducia nella suggestione di un testo di questa forza poetica, e si è inoltre avvalsa della sagace verifica di Agostino Masaracchia. La sostituzione di “Troiane” con “Troadi”, che riporta il titolo al suono più vicino all’originale “Troades”, lo stesso Masaracchia se ne è dichiarato convinto; la sua supervisione illuminante viene poi avvalorata dal saggio che accompagna la traduzione.