Titolo: “Vincenzo Talarico un calabrese a Roma"
A cura di:
Antonio Panzarella e Santino Salerno
Roma - Campidoglio - Sala della Promoteca
Anno: 2008
Testimonianze: Maricla Boggio, Antonella Fulci, Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Walter Pedullà, Franco Rispoli, Ettore Scola, Ettore Zocaro
Coordina: Paolo Aleotti
Interventi: Goffredo Fofi, Ugo Gregoretti, Raffaele La Capria, Giovanni Russo
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ENZINO A VENEZIA
di Maricla Boggio

Non mi è facile ricordare quando ho conosciuto Enzo Talarico, “Enzino”, come lo chiamavano gli amici e come anch’io lo chiamai subito, con il suo permesso, nonostante la notevole differenza di età; ma a lui piaceva sentirsi giovane come i giovani – e soprattutto le giovani – che frequentava. Negli anni in cui si era da poco costituita l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro – inizi del ’70 – ero davvero giovanissima anch’io, ma i critici tendevano, per la mia volontà di essere considerata “un collega” e non una donna, a trattarmi con una franchezza rispettosa e amichevole, ma più cameratesca che cavalleresca. Enzino non poteva dimenticare il suo stile di gentiluomo meridionale; tra noi si era creata quindi una sorta di scherzosità connivente, in bilico fra l’amicizia fra colleghi e una certa qual galanteria, Talarico rappresentava, in quegli anni, la realizzazione di un sogno per intellettuali meridionali; venuto su dal Sud, aveva acquisito a Roma una fama che gli veniva certo dall’arguzia con cui scriveva i suoi pezzi, le sue recensioni, i suoi commenti allo spettacolo, ma anche, e direi in maniera esorbitante, dalla popolarità che aveva conquistato attraverso certi film sul genere della commedia all’italiana che a quell’epoca decretavano la celebrità a chi, accanto ad attori famosi come Totò o Alberto Sordi, vi prendeva parte. Ora non ricordo con precisione quale film mi avesse colpito per la sua presenza, ma mi pare che si trattasse di un film con protagonista Alberto Sordi, “Il dentone”, un episodio di una pellicola ancora in bianco e nero, dove l’attore romano vinceva un concorso da presentatore televisivo superando caterve di candidati raccomandati, per la simpatia che, nonostante la macroscopica dentatura sporgente, provocava in chi lo vedeva sul video, insieme ad una indiscutibile superiorità culturale, che emergeva immediatamente ad ogni domanda che la giurìa, per metterlo in difficoltà ed eliminarlo, gli poneva. Ebbene, in quella giurìa, assieme a personaggi di rilievo della TV di allora come Alessandro Cutolo, grandeggiava Talarico, con quel suo testone che spuntava dalle spalle magre, la lunga capigliatura impomatata tutta all’indietro e i grandi occhi a palla, sempre spalancati in un’espressione di stupore, fino al momento in cui furbescamente, quegli occhi tondi li strizzava prorompendo in una clamorosa risata. In parti come questa Enzino era tutto se stesso, perché nelle discussioni fra membri di giurìa non faceva che usare quel suo linguaggio pieno di sottigliezze giuridiche, da vero leguleio meridionale, e dal tono imperativo passava poi sempre a quello della tolleranza, dell’umanità e della voglia di mettere tutti d’accordo.
Mi raccontava a volte qualcuno di questi suoi momenti cinematografici, e allora vi si diffondeva ripensandovi e ci si divertiva, come per tanti altri episodi della sua esistenza di intellettuale in continua trasferta, come il giornale in cui scriveva lo costringeva, per partecipare a convegni, festival, assemblee.
Eravamo infatti a Venezia, per vedere gli spettacoli della Biennale, allora scelti e organizzati con rigoroso stile da Vladimiro Dorigo, e dopo alcuni giorni di permanenza in quella splendida città, dovevamo tutti quanti ritornare alla rispettive sedi. Io scrivevo allora per l’Avanti!, insieme a Ghigo de Chiara che era titolare della rubrica teatrale, ma a me lasciava ampi spazi di espressione; quella volta infatti ero andata io a Venezia, a vedere non ricordo più che cosa. Eravamo tutti quanti i critici nello stesso albergo, in pieno centro di Venezia, affacciato al Canal Grande. Talarico ed io dovevamo partire per Roma, mentre Roberto De Monticelli – il famoso critico del “Corriere della sera” - doveva andare a Milano come Bertani dell’”Avvenire”, mentre Colomba del “Resto del Carlino” tornava Bologna e così via. Con le nostre valige ci incontrammo nella hall, e soltanto allora venimmo a sapere che c’era lo sciopero dei vaporetti: a Venezia questo annuncio significa andare a piedi, e stavolta per noi voleva anche dire camminare trascinandoci le valige fino alla stazione dei pullmann, dove poi, forse, un mezzo ci avrebbe portato all’aeroporto. Dopo alcune imprecazioni da parte di ognuno di noi, i gruppi si divisero fra quelli che avevano deciso di rimandare la partenza, quelli che volevano affittare una gondola, e quelli che decisero di andare a piedi fino al piazzale Roma. Enzino ed io fummo gli unici a prendere questa eroica decisione, ignari che il tragitto fosse, come poi si rivelò, lungo, accidentato da scale e ponticelli, e incerto tranne che quando si trovavano vaghe frecce a indicare “stazione”. Rotolando le nostre valige affrontammo il percorso. Talarico, volendo distrarmi e distrarsi da quella dura incombenza, cominciò a raccontare, a raccontare, a raccontare, interrotto a tratti dalle mie esclamazioni di meraviglia a certi passaggi narrativi, e da qualche domanda che andavo facendogli via via che il racconto procedeva. Evocava spettacoli fastosi, meraviglie a cui aveva assistito decenni prima, Ruggeri e la Duse, teatri germanici, spettacoli shakespeariani di Olivier...io ascoltavo e dimenticavo la strada e il peso dei bagagli, e anche lui, tutto preso e infervorato al punto da non interrompere mai il racconto, anche quando salimmo sul pullmann, finalmente diretti all’aeroporto; neppure quando entrammo nell’aereo appena in tempo per volare a Roma, e neppure si interruppe quando, arrivati a Roma, scendemmo la scaletta ed entrammo in un pullmann diretto alla capitale. Soltanto quando vide profilarsi l’EUR e i suoi palazzi di zucchero, si arrestò per un attimo, e battendosi la mano aperta sull’ampia fronte, esclamò con un tono alto e drammatico: “Oddìo! L’avevo dimenticato!”. “Che cosa?”, chiesi io vedendolo tutto sconsolato e finalmente zitto. “Mi era venuta a prendere all’aeroporto!”, non disse chi, ma si capiva benissimo che si trattava di una giovane amica, dal tono quasi disperato che gli era uscito al pensiero, improvvisamente tornatogli, di quell’appuntamento mancato. “Ma ormai... che farci?”, esclamò riprendendo un tono normale, piuttosto ilare, e poi: “Ah! Che cosa stavo dicendoti?..”, e mentre io gli rammentavo l’episodio che aveva interrotto a metà, già lo riprendeva con ilare foga, con il gusto di rivivere quel momento della sua vita che ora gli si ripresentava in tutta la sua divertente singolarità. Aveva già dimenticato la mancanza, e di nuovo si gettava a raccontare con quel gusto della vita e del ricrearla con le parole che lo rendeva un personaggio unico.


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