Maricla Boggio non è nuova alla denuncia. Anni fa un po’ dovunque sollevò polemiche un suo teatro – “Santa Maria del Battuti” – sulla condizione manicomiale in Italia, sostanzialmente contribuendo ( per quanto possa fare il teatro) alla notissima legge Basaglia sull’eliminazione di quel tipo di struttura.
Problemi di emarginazione allora e tuttora, anche se stavolta a far da contenitore aperto ( ma non per questo meno pericoloso) è la periferia urbana. La borgata romana dunque, coi borgatari appunto, allucinato luogo di vizi, di incultura soprattutto, che conduce i suoi abitanti,e in particolare i giovani, a un’esistenza grama, assurda, ma soprattutto priva di prospettive.
Una denuncia ancora dunque. La contiene “Schegge – vite di quartiere”, Premio IDI 1986 che il “Teatro di Roma” ha posto in scena nella sala Duse dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, con la regìa attenta e ricca di intelligenti suggestioni, di Andrea Camilleri, per l’interpretazione di un gruppo di diplomati dell’Accademia stessa.
Se la matrice del testo( Sostanzialmente “raccolto” alla “magliana”in lunghi mesi di registrazioni e di colloqui) è pasoliniana, forse la diagnosi di Maricla Boggio è più disperata e senza prospettive, a ben poco valendo quel paio di eccezioni di presunti redenti, di fronte alla regola di vita inutile ( più che disperata) che è divenuta la seconda natura di questi gruppettari ma potrebbero anche dirsi “schegge”, per quel loro farsi talvolta – mano armata di schegge di candele d’auto – violenti fino al più crudo teppismo), pronti alla droga, alla prostituzione d’ambo i sessi, ma soprattutto a un’ignavia che si consuma in se stessa, non solo senza desideri, ma fors’anche senza neppure la conoscenza di essi o della loro esistenza.
E’, come scrive Luigi Lombardi Satriani nel programma di sala, “un universo segnato decisamente da antiche e nuove povertà, dalla disoccupazione, dalla solitudine”, fatto di “ragazzi disoccupati e senza futuro cui è stata sottratta ogni forma di progettualità e di adulti impotenti a creare condizioni di vita diverse”; un universo terribilmente vero e terribilmente assurdo, danno a se stesso e alla collettività.
Anche se la Boggio si ribella a tutto ciò, forse percependo tratti di autentica bontà in quello “scemo” che è pronto ad aiutare tutti, magari divertendosi quando le busca da qualcuno perché in tal caso “finalmente avverte un contatto umano”, non c’è dubbio che a emergere dallo spettacolo è la disperante crudeltà del buio financo oltre il tunnel.
Quel corridoio stretto e lungo cioè dove il regista e lo scenografo Buonincontri ambientano cento storie di periferia; quella galleria che ha per fondo una tiepolesca selva di nubi nere e decisamente impenetrabili.
Alle madri dunque non resterà che aspettare, lavare le camicie, preparare i pasti e magari, purtroppo, piangere sulle morti annunziate.
Spettacolo complesso e semplice a un tempo, recitato con molta convinzione da tutti gli attori, tra i quali primeggia per la caratterizzazione dello “scemo” Angelo Jokaris.
(...) Il testo di Maricla Boggio sembra particolarmente adatto quale banco di prova per talenti individuali impegnati in un lavoro collettivo. I personaggi che interpretano sono una trentina e alquanto differenziati fra loro; la lingua che essi adoperano, mista di espressioni gergali e dialettali ( sulla base d’un “romanesco” ormai di secondo o terzo grado, trattandosi spesso di immigrati da altre regioni), esige una puntigliosa ricerca di congrue vocalità ( e delle gestualità corrispondenti); infine, il respiro sociale e civile del tema affrontato dalla Boggio richiama a una funzione primaria del teatro, e di chi lo faccia con passione e coscienza: quella di costituirsi, a fronte della realtà, come uno specchio critico, lucido e veritiero.
(...) E’ un modo suburbano “dopo Pasolini”, e perfino più disperato, nella sostanza, anche se l’autrice adotta tinte più tenui. Una successione di brevi quadri o “flashes” cui fa da intermittente legame la storia di Valerio e Teresa: lui, ragazzo di buona famiglia, obbiettore al servizio militare per rifiuto “di principio” della violenza, e venuto dunque a svolgere opera di educatore in quel luogo; lei, una ragazza di modeste condizioni e di sani sentimenti, innamorata ma ritrosa, non per gretto perbenismo, ma per una diffidenza “di classe” che lo sviluppo degli eventi, purtroppo, convaliderà. Poiché altro è studiare l’emarginazione sui libri, o frequentarla per un periodo determinato, altro è conoscerla, soffrirla sulla propria pelle, lottare per liberarsene, ma insieme con quanti patiscono dello stesso male. Così, nella cupezza del finale, un lieve barlume di speranza è acceso dalla solidarietà che, verso la giovane abbandonata, manifesta il più diseredato di tutti, lo “scemo” del quartiere, figuretta dal vago profilo dostoevskijano.
(...) La Boggio, autrice fra l’altro di inchieste sulla realtà urbana contemporanea, pubblicate o trasmesse per radio, ha vissuto alcuni mesi alla Magliana per conoscere “in diretta” la vita degli abitanti d’un quartiere della periferia romana, i loro problemi, i loro drammi, certi esiti aberranti e “Schegge” è nato da questa esperienza, nella quale le è stato vicino, tra gli altri – come racconta la stessa Maricla, che è anche la nostra collega giornalista – padre Gerardo Lutte, del Centro di cultura proletaria.
Il quartiere ha subìto modificazioni negli anni, e già parlare di post-Pasolini ha un suono remoto. Le nuove povertà, anche se girano più soldi di prima, sono l’emarginazione culturale e soprattutto la droga: la grave piaga che abolisce molto spesso, per i giovani, anche una premessa di futuro.
In un seguito di “stazioni” si espongono episodi diversi ed esistenze travagliate, accomunate da uno stesso ambiente e, sul terreno espressivo, da un analogo linguaggio, fatto non tanto di un dialetto o di più dialetti ma da una sorta di miscela lessicale, con strozzature di gergo che si alternano alle sillabe delle parole.
Pier Paolo Pasolini appena giunto a Roma conobbe subito la vita delle borgate e da essa trasse elementi vivi per i suoi romanzi e ad un certo punto identificò la sua stessa figura di artista con l’esistenza quotidiana dei giovani di una periferia povera ed abbandonata a se stessa. Molti anni sono passati da allora ed il fenomeno di una metropoli in continua espansione, con ondate crescenti di immigrazione, ha assunto connotati turbinosi ed inquietanti che le amministrazioni pubbliche non sono riuscite né ad incanalare né ad affrontare per il giusto verso, come ha rilevato nei giorni scorsi persino il Pontefice.
Allora l’occupazione delle case, oggi la droga, le occupazioni saltuarie e marginali, il fenomeno endemico della piccola criminalità, oltre naturalmente alle mille difficoltà della vita di ogni giorno, a cominciare dai trasporti sino alle forme più gravi del racket.
La scrittrice piemontese Maricla Boggio, che proprio venti anni or sono, arrivando nella capitale esordì in teatro con un significativo dramma ambientato tra le camerate di un manicomio inteso quale luogo simbolico di un malessere profondo, ha continuato a sentire i problemi degli emarginati come un dramma che non riguarda solo i diretti interessati ma l’intera società, e già, quando il problema degli stupefacenti non aveva ancora assunto a Roma la gravità che ha oggi, delineò in un indovinato film televisivo i tratti essenziali di una lacerazione sociale inquietante.
E adesso con “Schegge” 8 Premio IDI del 1987) ripropone altri aspetto della vita disagiata nella periferia, verso la Magliana. Da una prolungata permanenza sul luogo l’autrice ha tratto una serie di scene rappresentative di un microcosmo percorso da ragazzi in cerca di lavoro, di denaro e di un po’ di felicità.
Vengono così sulla scena personaggi apparentemente minori ma pieni di una loro intensità di vita: le cattive compagnie possono rivelarsi pericolose e accanto ai buoni sentimenti possono crescere tentazioni pericolose. Ma Boggio tiene a sottolineare una concatenazione di eventi rapportabili a quella generale condizione che non aiuta certo a superare le prime difficoltà della vita, l’avvìo al lavoro, la scelta della persona con cui accompagnarsi. Piccoli tasselli di un mosaico che, nella accurata realizzazione di Andrea Camilleri nella sala Eleonora Duse dell’Accademia d’Arte Drammatica, risaltano pur nell’oscurità di una scenografia di Buonincontri tesa ad immedesimare i luoghi della periferia e della povertà romana con antri monumentali di un’antica decadenza.
C’ì nel lavoro della Boggio un eccesso di pessimismo cupo ed una insistenza voluta nel sottolineare una incomunicabilità con strati sociali più sfortunati, ma c’è soprattutto una capacità di descrivere l’ambiente, di seguire le varie figure nel succedersi ed intrecciarsi delle scene, una felice vena nel porgere aspetti singolari e sintomatici di personaggi appartenenti a generazioni diverse, l’intuizione profonda, liricamente espressa, di una umanità che stenta a trovare le strade di un destino migliore perché contro di essa si accanisce l’indifferenza e l’incomprensione ancor prima di una volontà negatrice di valori e di un senso di solidarietà, quella solidarietà che invece non manca all’interno del gruppo sociale che la Boggio individua con sensibilità e immediatezza.
Abbiamo già detto come il regista sia riuscito a rendere lo spettacolo teso nella presentazione, anche delicata, di singole vicende: ed in particolare la storia della ragazza che si innamora del giovane borghese, sceso in borgata nella sua qualità di obbiettore di coscienza, e che infine viene da questi trascurata ed abbandonata in quanto il suo rango sociale lo chiama a più vantaggiose scelte, costituisce l’emblematica parabola di quella incomunicabilità sociale di cui sopra abbiamo parlato.
Un mondo chiuso e che tale sembra rimanere per molti versi ma che per altri tende a confondersi in quel rimescolamento di condizioni e posizioni sociali che la metropoli provoca, suo malgrado.
Gli attori, bravi e misurati, sono tutti diplomati dall’Accademia, e alcuni di recente data. Lo spettacolo, che si replica fino al 22 marzo, può dare adito a riflessioni e discussioni che non perdono di attualità per il fatto che del fenomeno ormai conosciamo tanti aspetti: infatti, pur essendo noti, non danno luogo ad interventi adeguati. Al poeta, all’artista non spetta che individuarli, come facevano gli scrittori veristi alla fine del secolo scorso per la Milano dei poveri e delle mense popolari. Oggi diverse sono le tematiche e le condizioni, ma le cause di infelicità sono difficilmente rimovibili, ha voluto dire la Boggio.
Ex-allievi dell’Accademia fanno rivivere il dramma dell’emarginazione in una sorta di rappresentazione-documento, su un testo di Maricla Boggio
Al di là dei risultati di palcoscenico dei quali diremo tra poco, lo spettacolo adesso in cartellone alla saletta “Eleonora Duse” di via Vittoria rappresenta il primo episodio di una collaborazione tuttora allo studio tra il Teatro di Roma, l’Accademia d’arte drammatica e l’Istituto del dramma italiano: tre organismi che pure nelle loro singole specificità vogliono porsi il problema di un nuovo repertorio nazionale capace di raccontare la realtà della nostra società nel nostro tempo. Primo frutto di tali ambizioni è l’allestimento di un testo di Maricla Boggio, “Schegge – vite di quartiere”, vincitore del concorso IDI dell’ ’86 e prodotto dallo Stabile di Roma per la regìa di andrea Camilleri e l’interpretazione degli ex-allievi dell’Accademia, di recente e meno recente diploma. Il quartiere cui il titolo accenna è quello romano della Magliana dove la Boggio ha lungamente lavorato da documentarista: un quartiere periferico che il Tevere, come confine di classe, separa dalle luci e dall’opulenza dell’EUR antistante. Ma è davvero povera questa Magliana? Forse è peggio che povera: “non è”. Nel senso che i suoi abitanti arrivati a queste geometriche case popolari ( nuove e già fatiscenti) dalle baracche di borgata non formano ( e come potrebbero?) una comunità: senza servizi sociali, senza luoghi di aggregazione, senza radici comuni ( c’era più solidarietà nel fango delle borgate, rimpiange qualcuno) essi non possono che vivere individualmente la loro giungla privata. Da soli o, nel caso dei più giovani, aggregandosi per bande tenute insieme dalla disoccupazione, dalla droga, dai violenti miti di massa, dagli inganni della pubblicità: avere “quelle” scarpe, “quel” giubbotto, “quel” motorino. Averli a tutti i costi. Tra questa umanità si aggira Maricla Boggio: e la riporta senza darne giudizio morale, analiticamente la racconta così com’è, e pensi lo spettatore a trarne conclusione. Lo spettacolo ha un suo intenso andamento veristico, c’è il gusto acre della presa diretta, della testimonianza scientifica: ma pure in tanto oggettivismo prendono corpo e calore le passioni, le struggenze, le disperazioni. Vogliamo dire che posto dinanzi all’estraneo inferno sottoproletario metropolitano, lo spettatore borghese ( cioè lo spettatore “tout court”) si ritrova partecipe e persino coinvolto anche per il tramite dell’impianto scenico totalizzante di bruno Buonincontri, una sorta di cupo apparato claustrofobico che avvolge monocromaticamente platea e palcoscenico. Particolare interesse riveste l’operazione lessicale, cioè l’uso di gergalità neologistiche, vocaboli della cultura della droga, fenomeni televisivi, il tutto mescolato alle memorie di un romanesco che era già perduto al tempo pasoliniano delle lucciole. Va pure detto che nel corso di questa rappresentazione-documento c’è posto per il candore, l’innocenza, il gesto solidale: persino per l’amore. Materiali dunque di estrema diversità che tuttavia l’affettuosa e vivace regìa di Andrea Camilleri riconduce al denominatore comune della pietà. Tra i giovani interpreti si avverte disparità di valori, però data la tesa coralità cui si impegnano, desideriamo citarli tutti e alla pari. (...) Tanti consensi per questo sospetto di teatro un tantino diverso.
(...) si tratta di “Schegge – vite di quartiere”, che ha vinto il Premio IDI nel 1986. E’ andato in scena soltanto quest’anno grazie ad un progetto “pilota” dell’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio D’Amico”, la nostra massima scuola per attori, alla quale si sono uniti il Teatro di Roma e l’Istituto del Dramma Italiano, con l’intento di dare un’opportunità sia agli attori diplomati dall’”Accademia”, che hanno partecipato ad un quarto anno di perfezionamento, sia per valorizzare la drammaturgia contemporanea che, come ha fatto notare il presidente dell’IDI, il critico Ghigo de Chiara, premiare gli sforzi di quegli autori che scrivono sui vizi, sulle lacune, sulle ingiustizie di oggi, oltre che sugli eventi collettivi e sulle ansie dell’individuo.
“Schegge – vite di quartiere” è un teatro che si compone di undici episodi, cinque scene ed una storia d’amore, ed è nato da una ricerca sociologica della Boggio: (...)
“Schegge” viene a svilupparsi fra strade di sassi, con una pedana mobile che porta gli attori dal campo lungo al medio, focalizzando questa realtà in una specie di Basilica post-realista che dalla resurrezione nella nicchia di fondo fa penetrare un piccolo barlume di speranza, davanti a tanta desolazione o almeno sottolinea la sacralità di queste emarginazioni. Nella storia d’amore tra Valerio e Teresa si inseriscono altri quadri sulle nuove povertà delle “periferie”, dei “Bronx” italiani, che si chiamano droga, mancanza di strutture, mancanza di comunicazione od identità culturali, che si manifestano in espressioni ed idiomi che non sono più né dialetti né lingua. Da questo lavoro viene fuori una vera tragedia della degradazione e dell’emarginazione: una cultura terzomondista che cerchiamo di individuare negli altri, ma che ormai fa sempre più parte del nostro vivere, delle nostre città, della nostra ricchezza materiale, quella della macchina e della televisione.
La Boggio ha fatto un gran lavoro di cesura, tra le varie situazioni, per presentarsi una sua realtà che Camilleri visualizza con una certa solennità, col passare o ritornare da un quadro all’altro. Quello che resta è la continuità del degrado, gestuale e vocale, che soffoca anche il riso che può derivare da una battuta. Ci troviamo davanti alla tragica realtà che la Boggio riesce a condensare nella dimensione di uno spettacolo reinventando dialetti individuali, l’uno differente dall’altro, che formano un linguaggio impastato che viene spacciato per un “neo-romanesco”.
Il DOPO-PASOLINI è una periferia in gabbia, un’ultima zattera della Medusa con giovani superstiti sul cui volto non s’accende più neanche un violento sorriso. A condurci adesso in questo inferno urbano, in questa Roma cupa, è una prosa ordinata in stazioni e in laici misteri di dolore. “Schegge – Vite di quartiere di Maricla boggio, Premio IDI ’86, un testo che vara l’interessante convergenza operativa di Teatro di Roma, Accademia d’Arte Drammatica e, appunto, IDI.
Che si tratti di sequenze da Easy Rider dantesco, che si scenda quasi in cripta e nei recessi di civiltà di vecchi monumenti, se ne ha conferma al primo impatto con lo spazio, il teatrino Eleonora Duse di via vittoria i cui stucchi accademici sono per l’occasione foderati e sormontati da un caveau catacombale, un’ogiva che simula rocce piranesiane disposte a cavea di fronte a un palcoscenico-navata a piano retrattile che ha per sfondo un’abside di nuvole, di cielo inaccessibile e invocato.
Qui si celebra l’impossibilità di essere normale e di un intero ceto e relativa sua cultura. A dare allo spettacolo un leggero empito d’azzardo e una ridda di idiomi da emarginazione è un nucleo di allievi già diplomati all’Accademia, un quadri di attori professionisti uscenti cui spetta il più possibile “vivere” e non soltanto recitare la rabbia, il sopruso, il deteriorarsi delle nuove generazioni confinate in ghetti di serie C, senza barlumi di prospettive.
Il copione, a volte più duro nelle intenzioni che nel prodigarsi linguistico, è un censimento non volto ad urtare realisticamente la platea, quanto, mi sembra, incline a sfaccettare una poesia di frustrazioni, di teppismi indotti, di rapporti e consumismi degradati con tanto di tacito consenso, spesso, della società del benessere. In questa luce, c’è forse qualche cosa di oratoriale, di eloquente ma anche di perentoriamente drammatico. In quel luogo di angeli-vandali al buio, in quella delusione di ex baraccati dispersi in alveari-alloggi, in quella furtiva ambizione di ragazzo della malavita assunto al bar del tribunale e perciò pentito ma non troppo. S’avverte l’angoscia deformante della droga nella posta che un tossicodipendente fa a un pensionato uscito di farmacia. S’assiste a moine di strada che nascondono lo choc di mire borseggiatrici, e nel pianto della derubata c’è il doppio smacco di un’infelice e consimile. Ricorre ogni tanto una vittima di rito, il Vecchio ( pedone, guardia o gelataio che sia). Vien da pensare: questo dopo-Pasolini è meno idealista, meno consorziato, meno sbruffone, meno gaudente, è “meno” in tutto. Com’è vero, anche. Magari non ha ovunque le stesse sonorità sfatte di oggi, eppure la Demotivazione vi si scorge, urgente come un urlo rappreso.
L’abiezione in capitoli tocca man mano il ricettatore, il predatore di giubbotti, il ladro d’auto ( e famiglia, colta in ignorante afflizione), il boss per ruberie su commissione, il povero ma bello che accondiscende a prostituirsi, il monello “disturbato” e vilipeso. Ma non si direbbe che questi adolescenti siano “di vita”, perché semmai ( non per niente siamo in un sotterraneo, in una cloaca di giovani martiri) e un sentore di morte, di condanna a morte, a prevalere. Il bambino “bucato” di sette anni, il marito deceduto nel traffico ( con primo piano di donne romanesche in attesa) o il suicida restauratore di putti dorati, sono un’umanità al massacro. Non si salva neppure la tenera Coppia di fidanzati di incompatibile estrazione, che abbiamo spiato in più inquadrature a parte. Alla compilation sa dare ordine e dinamica Andrea Camilleri. Scena granitica di Bruno Buonincontri. Musiche appassionate e dolci a cura di Paolo Terni. Bravi tutti. A dover prediligere segnaleremmo Giancarlo Cosentino, Fiorella Potenza, Angelo Jokaris, Maria Luisa Bigai, Antonio Manzini, Tullio Sorrentino, Fulvia Midulla, Chiara Beato.