Il teatro di Maricla Boggio si lascia a stento definire: non solo perché ricco di proposte molteplici e diverse e insieme aperto a futuri esiti, ma per la qualità delle proposte.
Storia, mito, antropologia, attualità: a prima vista catalogabili entro questi saperi e in queste zone, i drammi di Maricla Boggio sfuggono invece alle gabbie che imbrigliano cataloghi e categorie.
Il lampo, il flash, il frammento, la visione sembrano la cifra stilistica di questo teatro; che potrebbe anche definirsi, perciò, epico. Un teatro cioè che si avvale di una costruzione drammaturgica per brevi esposizioni narrative che interrompono il flusso continuo dell’evento e consentono la riflessione, il giudizio. Interrompono costruendo, motivando, creando nuovi spazi per capire i personaggi e le loro vicende.
Teatro a prima vista epico, quello di Maricla. E certo le referenze al mito, alla storia, all’attualità (storia anch’essa, ma dettata da altre emozioni), spingono verso questa sommaria definizione. Mito, storia, attualità, tre modi di raccontare il mondo.
Ma a guardare meglio, tutto sfugge alla definizione, sfuma i contorni, chiede altri modi di leggere e di guardare questo teatro.
La vita, l’ansia di raggiungerla e di afferrarla, il desiderio radicatissimo di far scoccare la scintilla che nasce dalla frizione tra presente e passato, visibile e invisibile, corpo e anima, destino e libertà; tutto questo lievita in questi drammi e li pone in un personalissimo palcoscenico.
Il più epico, “Schegge” (Premio IDI 1986), potrebbe far pensare al “Nost Milan” di Carlo Bertolazzi.
Non solo per il valore e la funzione architettonica delle “scene”, momenti che si separano senza disperdersi anzi costruendo un mondo; quello della marginalità, cui è negato il progetto e dove invece regna il frammento, la vitalità disperata destinata a raggiungere la morte. Dove dunque regna un tempo non della storia, fatto di costruzione e ragione, svolgimento e compimento, ma del mito o della leggenda, tempi di sospensioni e ripetizioni, senza compimento se non quello del desiderio e dell’amore.
La scena è dunque, in “Schegge”, la forma necessaria per rappresentare personaggi e luoghi tagliati fuori dalla storia e immersi nella profondità del loro voler vivere, ad ogni costo: come si legge nella prima didascalia del dramma:
“Un quartiere di periferia di una grande città. Oggi. Le scene in ordine alfabetico rappresentano prevalentemente episodi di vita di gente di quartiere. le scene numerate sono lo sviluppo di una storia singola, vissuta prevalentemente attraverso le riflessioni e i dialoghi dei due personaggi...”.
Ma l’autrice aggiunge - e mi sembra che stia proprio qui il segno insieme di una costruzione “aperta” e priva di didatticismo o ideologismo e di una profonda pietà per quanto è rappresentato -: “Mentre le scene numerate devono essere rappresentate secondo l’ordine numerico, quelle in ordine alfabetico potrebbero venire spostate tra loro, anche se la successione suggerita offre un tipo di conclusione condivisa dall’autore; tuttavia la materia trattata possiede intrinsecamente una forza di movimento, e può presentare motivi di interesse spostare certe scene: ne deriva una visione diversamente finalizzata dell’insieme, e riflessioni diversificate di tale universo in divenire”.
Non si potrebbe dire meglio quanto congiunge e disgiunge il teatro di Maricla Boggio da una nozione tradizionale (di Bertolazzi e di altri, fino a Brecht) di “epico”: costruzione per scene e tessuto narrativo molto argomentato e insieme apertura e spostamento così della visione teatrale come dell’interpretazione e del giudizio. Costruzione e frammento, organizzazione e dispersione si inseguono, proprio come fanno i personaggi e le loro vicende.
Così, sembra suggerire la Boggio, si comporta un teatro che ambisca a rappresentare non la città ma la borgata, non il centro ma la periferia, e con essa la disgregazione sociale e la nobile disperazione-dispersione dei personaggi. Un teatro che abbia tale ambizione deve assumere dentro di sé la struttura della materia rappresentata. Qui, lo dice la Boggio, la dialettica è tra storie individuali e condizione collettiva, tra personaggi e coro; in altri drammi, dove il protagonismo è il femminile, le cose non cambiano di molto. (...)
(dalla presentazione al libro Maricla Boggio - La monaca portoghese, Schegge, Storia di niente, Olimpia, Collana Teatro Italiano Contemporaneo, Editori & Associati, Roma, 1991).