Schegge . un fitto intreccio di esistenze che si consumano in un universo segnato decisamente da antiche e nuove povertà, dall’emarginazione, dalla solitudine.
Ragazzi – disoccupati e senza futuro, cui è stata sottratta ogni forma di progettualità – e adulti – impotenti a creare condizioni di esistenza diverse – si incontrano dicendo implicitamente l’aspirazione a una vita più clemente, l’amore che pur resiste a tanta violenza, la disperazione perché niente riesce a intaccare la dura opacità di questo mondo chiuso: attraverso diciassette scene brevi, Maricla Boggio ci dà la rappresentazione della vita in un quartiere romano di periferia.
Un drogato che rimedia i soldi della dose con scippi; un ricettatore ultima risorsa per procurarsi comunque i soldi per la droga; donne unico sostegno di famiglie disgregate; ragazzette con “loock” alla moda e trucco violento, che sognano il matrimonio; un marchettaro che col ricavato delle sue prestazioni pensa di metter su casa; un ragazzo che fa “giudo” nella palestra dei carabinieri e che si arruolerà da loro, malvisti nel quartiere, perché è il solo lavoro onesto cui è possibile pensare; la ragazzine che per spregio chiamano “a bocchinara” soltanto perché suo fratello si buca; un giovane che ha tentato medicina all’università ma ha dovuto andarsene – ai poveri non è consentito di fatto neppure la pratica in ospedale – e si è messo a fare il pescatore; un vechio, stupito che le sue pastiglie di Roipnol facciano gola a un ragazzetto che gliele ricompra ad alto prezzo; una madre –moderna madonna addolorata – su cui si abbatte la morte dei due figli; intrecciato a queste storie di snoda un amore che dall’incanto del primo incontro precipita nell’urlo della separazione. Nella vita non è vero ciò che è tale nell’ideologia: omnia vincit amor resta frase lapidaria, tratto dalla retorica con la quale trucchiamo la realtà; la diversità socio-economica crea barriere quasi sempre insormontabili e l’amore tra l’obbiettore di coscienza – idealista, in buona fede ma irretito dai suoi astratti furori – e la ragazza – capace di un impegno concreto nella vita del quartiere – si rivela presto impossibile in questa società retta da leggi cui non è ato sottrarsi.
Mira Nair ci ha dato con Salaam Bombay! una rappresentazione lucida e partecipe dei bambini abbandonati nelle strade di Bombay; Maricla Boggio ci dà una rappresentazione, non meno lucida e partecipe, di altre esistenze abbandonate, nella periferia di una città che orgogliosamente si disse caput mundi ma non sa garantire un futuro – e quindi un presente – vivibile a tutti i suoi abitanti.
Di queste esistenze, oppresse dalla loro datità, non resterebbe memoria se non ne venisse resa, con l’intensa suggestione dell’espressione letteraria, testimonianza, se non venissero dichiarate nella loro scandalosa presenza e irriducibile verità.
Viene così reso quanto accade oggi in un aquartiere romano di periferia, ma anche altrove, con analoghe valenze, drammi, crisi di identità, frustrazioni, speranze e solitudini. Attraverso un linguaggio – denso di espressioni gergali e di termini scurrili, magma dialettale nel quale sono confluiti disordinatamente spezzoni e rottami linguistici – pienamente aderente alla realtà che è chiamato a espreimere, Maricla Boggio narra, con laica religiosità, questa Vita di quartiere.
Affronto l’operazione con la natura del giocatore che è di per sé irrazionale, “punto” sul testo insieme ai miei attori.
L’attenzione deve concentrarsi di volta in volta su frammenti di un’unità perduta a tutti i livelli, sociali, culturali, linguistici. Il frammeto ha senso di per sé ma apparitene a una generale economia che ha bisogno di far intuire: i bordi non sono mai tranciati di netto ma hannp punte, rientranze, sporgenze.
Un momento che si accetta di vivere in sé e per sé ( un anno, lo scambio di un istante, qualche giorno bruciato nel tentativo di un rapporto, una vita?).
Il quartiere dovrebbe risultare un concerto magmatico, impasto non omogeneo e non omogeneizzabile di culra, sonorità linguistiche, radici lessicali che siincontrano in frammenti che talvolta pervengono a sintesi momentanee irripetibili.
L’idea della sonorità come solo momento reale. Sarebbe bello ma forse è inattuabile. E ancora: eccessiva. Divertente il gioco dello scambio, in prova, tra le varie “schede”, la sequenza temporale non si altera mai. Tanto che i segni del trascorrere del tempo sono costretto a definirli dall’esterno.
Dice il personaggio Teresa al personaggio Valerio qualcosa di simile: “Voi la nostra vita di quartiere la leggete nei libri”. Maricla è partita per scrivere il suo lavoro dalle registrazioni documentaristiche. Poi ha reinventato il testo. Il rischio che corro è quello di far tornare tutto “al libro”. Ma, onestamente, faccio teatro. E, in teatro, non vado d’accordo col documento realista.
Maurizio Scaparro, con i Consiglieri del Teatro, ha voluto che la collaborazione con il Teatro di Roma e l’Accademia d’Arte Drammatica prendesse la forma concreta di uno spettacolo. Non bastano infatti le norme inserite negli statuti – occorre piuttosto che si dia vita al lavoro ed alle esperienze che gli allievi dell’Accademia hanno compiuto negli anni di insegnamento e in quelli successivi.
Spetta quindi ad una grande istituzione pubblica quale è il Teatro di Roma valorizzare gli attori ed i registi che provengono dall’Accademia.
Bisogna aggiungere anche che la collaborazione con l’IDI comporta la scelta di un testo che è stato appunto scelto da quella istituzione e sul quale si misurano gli attori.
Sarà importante verificare la bravura di tutti e in questo senso è significativo che sia stato scelto un testo che non soltanto ha numerosi personaggi, ma che consente alla maggior parte degli attori di interpretare più ruoli.
Anche la ricerca del linguaggio è interessante. Su questo una tavola rotonda che discuta il problema della lingua italiana in teatro, dei dialetti e di una lingua convenzionale quale sembra essere quella del testo prescelto, metterà a fuoco il problema indicando certamente soluzioni diverse.
E non dimentichiamo infine, che gli attori diplomati dell’Accademia non possono essere abbandonati a se stessi una volta esauriti i corsi, ma debbono essere sostenuti proprio perché il riconoscimento ricevuto da quella istituzione non è un atto formale ma costituisce la prova della loro bravura.
Un discorso occupazionale?
Forse. Ma perché non dobbiamo pur dire ad alta voce che nel nostro paese e a Roma in particolare il teatro deve essere, oltre che cultura, industria e lavoro?
Con questi propositi il Teatro di Roma inaugura con l’Accademia d’Arte Drammatica e con l’IDI una stagione che, se i risultati saranno buoni, intende proseguire.
Qualche tempo fa, parlando con Renzo Vespignani, gli chiesi quale fosse per lui la differenza tra i giovani romani, i pasoliani ragazzi di vita, degli anni ’60, e quelli dei nostri anni ’80.
Vespigani, che aveva terminato la sua ultima, affascinante mostra, mi rispose semplicemente “hanno gli occhi più piccoli”.
Una risposta che mi è parsa tremendamente profonda, per quello che credo volesse significare.
In soli venti anni, a Roma, (ma solo a Roma?) eravamo passati dagli occhi aperti pieni di stupori, di curiosità, di vita, agli occhi chiusi da un benessere artificiale e da una crescente separazione tra vita reale e possibilità di sogno, alla ricerca di paradisi effimeri, come la droga, per citare solo il più lancinante degli esempi.
Di questo, e di altro, ricordo di aver parlato con Maricla, che è stata sempre attenta al linguaggio difficile degli emarginati ( e i giovani oggi più che mai lo sono), ai loro problemi, alle loro disperate speranze.
Queste “Schegge” di vita di quartiere sono nate anche sugli occhi aperti e sugli occhi chiusi.
Speravamo di portarle alla luce già da due anni. E arriva ora, attesa, voluta, questa scelta dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica che il Teatro di Roma fa sua, nello spirito di una intesa che nasce per le due istituzioni, e che permette la realizzazione di un primo discorso sugli occhi aperti, sugli occhi chiusi.
Lo Statuto dell’Accademia già prevedeva un quarto anno di perfezionamento per gli allievi attori e gli allievi registi, senza specificarne l’articolazione. Dallo spirito dello Statuto e delle successive norme sulla didattica si evince però chiaramente la natura di un quarto anno che non è semplice prosecuzione dell’esperienza scolastica ma si propone come ponte di raccordo tra la formazione di base e la vita professionale.
Dalla riflessione sulla lettera e sullo spirito statutario è nato il progetto di un quarto anno da articolarsi in tre laboratori permanenti, destinati agli allievi neo-diplomati, ma aperti ai professionisti usciti dall’Accademia, i cui temi saranno:
1)drammaturgia contemporanea con particolare riguardo a
2) quella italiana.
3) 2) Il repertorio nazionale.
4) 3) La sperimentazione.
La realizzazione dei laboratori deve avvenire attraverso la collaborazione tra l’Accademia e il mondo teatrale non soltanto nella forma di una collaborazione di personalità individuali, ma anche soprattutto di organismi e strutture di lavoro e di produzione teatrale.
E’ così evidente come la realizzazione del primo laboratorio passi attraverso una collaborazione permanente con il Teatro di Roma e con l’Istituto del Dramma Italiano, che in questa fase di avvio sperimentale del quarto anno si realizza intorno al testo “Schegge – vite di quartiere” di Maricla Boggio, che dell’Accademia è stata allieva e docente e che proprio per questo testo ha ottenuto il Premio IDI 1986.
Premiato al concorso dell’Istituto del dramma Italiano, prodotto dal Teatro di Roma e realizzato dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, questo testo di Maricla Boggio è anticipazione e presagio insieme del lavoro che, in un rapporto operativo organico, intendono svolgere insieme tre Enti votati al pubblico servizio culturale e accomunati dall’impegno di promuovere e valorizzare una nuova drammaturgia di autori italiani. Nella piena consapevolezza che un teatro è anche nazionale, cioè voce diretta della comunità che lo esprime, o non è, i tre organismi in aquestione intendono adoperarsi congiuntamente perché nella futura memoria dell’arte scenica resti traccia – e nella nostra lingua – dei nostri giorni, dei nostri umori, della nostra società.
Adeguata severità nel vaglio dei testi e adeguata professionalità negli allestimenti dovranno proporre spettacoli cui l’Accademia fornirà la giovane passione intellettuale dei suoi allievi, il Teatro di Roma la sua capacità produttiva e l’IDI la sua incessante ricerca di nuove opere di scrittori italiani.