“Ho vissuto sei mesi fra loro per capirli”, dice l’autrice Maricla Boggio. Lo spettacolo è prodotto dallo Stabile romano con sedici attori dell’Accademia d’Arte Drammatica diretti da Andrea Camilleri
“Non c’è altra metafora del deserto, che la vita quotidiana. Essa è irrappresentabile, perché è l’ombra della vita: e i suoi silenzi sono interiori”, da questa riflessione di Pasolini muove “Schegge”.
Da questa riflessione di Pasolini sulla cruda verità dell’emarginazione e della solitudine metropolitane, tratta dal libro “Il Vangelo secondo Matteo”, prende le mosse un’operazione teatrale ideata e condotta dall’autrice Maricla Boggio.
“Schegge” non è semplicemente uno spettacolo, ma il frutto di una lunga e attenta ricerca sociale e antropologica, iniziata circa tre anni fa.
(...) Con questo primo allestimento, lo Stabile romano intende avviare un programma diretto a valorizzare gli attori e i registi provenienti dalla “Silvio d’Amico” e anche a potenziare la drammaturgia italiana contemporanea.
Maricla Boggio, torinese di nascita ma romana di adozione, non è nuova al genere degli esperimenti teatrali sui temi più delicati dell’attualità sociale. Non solo autrice drammatica, ma anche saggista e regista, la boggio ha cominciato vent’anni fa con il testo “Santa Maria dei Battuti”, un rapporto sull’istituzione psichiatrica. Poi è stata la volta di “Ragazza madre” (1974), “Marisa della Magliana” (1976), “farsi uomo oltre la droga” (1981), “Mamma eroina” (1983) e così via fino al recentissimo “Storia di niente”, un dramma sulla violenza suburbana, rappresentato l’estate scorsa alla Rassegna Città spettacolo di Benevento.
“ ‘Schegge’ è il capitolo più recenti di questo mio itinerario condotto all’interno della periferia romana, in particolare nel quartiere della Magliana, dove ho trascorso sei mesi a osservare la realtà’, racconta la Boggio. ‘Non è stato facile inserirmi in un ambiente dove a volte nemmeno la polizia entra e dove domina la paura. La gente diffidava di me, ma poi ha cominciato a conquistarmi la fiducia di molti. Sono entrata in rapporto con le madri – prosegue l’autrice – che mi hanno esposto i loro problemi di sopravvivenza, le preoccupazioni, la rassegnazione. Sono entrata in rapporto con i ragazzi, con la loro esaltazione, la loro rabbia. Al Centro di cultura proletaria, l’unico sgangherato circolo culturale-ricreativo di cui dispone la Magliana, ho stabilito un contatto anche con i bambini, con le loro paure”. Così è nato “Schegge”, con storie di scippatori, di prostitute, di ragazzini che muoiono di droga, di spacciatori, di uomini che si uccidono per far ottenere alla propria moglie un posto da bidella. Le schegge sono anche quelle delle candele di ceramica bianca, delle automobili, che vengono usate come fossero punte di diamante per commettere furti o atti di vandalismo. Servono per tagliare i vetri.
Sullo sfondo di questa realtà drammatica, emerge però una tenera storia d’amore, quella fra Teresa e Valerio. Lei è una ragazza del quartiere, lui un obbiettore di coscienza, ma il loro non è un amore a lieto fine. “Come sosteneva Pasolini, i finali rosa servono solo a tranquillizzare le nostre cattive coscienze” si giustifica la Boggio “tuttavia, il mio testo, che si ispira proprio alla riflessione profonda di Pasolini sulla degradazione umana, non vuole certo esaltare la retorica del sacrificio, intende solo essere il più possibile aderente alla realtà”.
E’ per questo suo bisogno di realismo, che lei ha trascorso molto tempo anche presso il Centro Italiano di solidarietà di don Mario Picchi?
“ Sì, perché per descrivere bisogna conoscere. Così, per più di un anno, ho partecipato ai gruppi terapeutici per la riabilitazione e il reinserimento sociale dei tossicodipendenti: un’esperienza che mi ha dato la misura di quello che significhino da un lato l’emarginazione e dall’altro l’indifferenza e l’ignoranza nei confronti dei problemi”.
Qual è la soglia che divide il suo modo di fare teatro dalla cronaca nera che si legge nei giornali?
“Per evitare il rischio di scadere nella cronaca, bisogna cercare di non limitarsi a esporre realisticamente i fatti. Occorre approfondire, lasciarsi coinvolgere, per poi arrivare a un atteggiamento critico”.
Anche “Schegge”, come altri suoi testi, è scritto in dialetto romano. Come riesce ad adoperare un linguaggio che non le appartiene culturalmente?
Più che un vero dialetto romano, il mio testo è una contaminazione linguistica. E proprio su questo argomento della degradazione del linguaggio, si terrà un convegno il 14 marzo al Teatro Argentina, in rapporto al mio spettacolo. Comunque, proprio perché provengo da una cultura diversa,sono più attenta e disponibile nei confronti del linguaggio locale. Tutto sommato ho meno pregiudizi”.
Lei pensa che il suo impegno teatrale possa in qualche modo servire a risolvere, oltre che a descrivere, i problemi da lei affrontati?
“Il mio non è un teatro politico e non ho lo scopo di trovare facili soluzioni”, conclude la Boggio. “La mia vuole solo essere una testimonianza onesta e sincera”.