Lina arriva dal fondo della sala.
Porta con delicatezza in mano una borsa, come se temesse di rompere qualche cosa.
Tiene sotto braccio una cartellina con dei fogli.
Mentre viene avanti si guarda attorno timidamente, cercando un posto libero fra gli spettatori, ma non vuole scomodare chi è seduto e continua ad avanzare.
Arrivata sotto il palcoscenico, vi sale andando a raggiungere una sedia che si trova nel mezzo e si siede.
LINA: Se non ci sono altri posti…
Mi sento in po’ isolata qui…ma pazienza…
Estrae una scatolina dalla borsa. La guarda, poi la ripone con un respiro di sollievo. Depone a terra la borsa, accanto alla sedia.
Tutto a posto, meno male. Perché lui, quando deve fare il controllo, manda me.
Lui non viene, non se la sente! E io devo chiedere un permesso dal lavoro, dico che devo fare le iniezioni, e così vengo io. Perché non ce la fa, lui, a venire qui.
Osserva alcuni tra gli spettatori, scegliendoli con lo sguardo.
Eh, Così…Ognuno la sua pena. Anche voi…Uno crede di essere il solo!, l’ unico a patire…Quello a cui è successa la “cosa”, e poi…
Apre la cartellina e tira fuori dei fogli.
I risultati della analisi. Decine! ne abbiamo fatte ormai! ogni volta, un po’ più un po’ meno…Ci capisce soltanto il dottore, io non riesco a imparare che cosa voglion dire queste cifre, aspetto che sia il medico a dire “Andiamo bene” oppure “Dobbiam tirare su questi numeri”…
Si rivolge a uno spettatore in particolare, per stabilire un’intesa più personale. Dopo uno spettatore, dopo un altro.
Di solito vengo a un’altra ora. Quelli del mattino li conosco uno per uno. Quasi tutti arrivano da soli.
Qualcuno, ma sono pochi, lo accompagnano i parenti. A portare le analisi. E per la cura. Voi no n vi ho mai visto, ma dopo un po’ di volte ci si conosce. Abbiamo in fondo lo stesso destino. Storie diverse, anzi differenti.
Ma poi come l’ hai presa la malattia non ha importanza.
Soffriamo tutti nello stesso modo. Duro è reagire, convincersi che c’è ancora un futuro e non bisogna lasciarlo consumare nei rimpianti…
Uno sguardo a sfida, a qualcuno tra il pubblico.
Chi siete? Malati?... Tu hai portato le analisi per un parente? Sei un amico?... E tu stai qui solo per fare compagnia…e la “cosa” ti tocca appena appena, di lontano…
Depone i fogli a terra. Si allunga sulla sedia e respira profondamente.
Ah! C’è stato un tempo in cui ero felice!
Non sapevo di esserlo, non me ne rendevo conto!...
Mi lasciavo impigliare da quelle cose stupide che ti fanno credere di vivere sempre in piena tragedia…Seccature, le bollette da pagare alla posta …il conto mostruoso del meccanico per l’ennesimo guasto della macchina…e le borse pesanti della spesa…e il telefono isolato…e il chachet troppo scuro dei capelli …e un chilo in più intorno ai fianchi…Mi lamentavo di queste meraviglie convinta che mi rubassero la vita, non capivo! che erano la vita!, casuale all’apparenza, fatta di tante cose alla rinfusa…bere un caffé, andare in bicicletta, litigare per un giudizio sopra un film, implorare la guardia che ti tolga una multa…ferirsi a un dito, mentre tagli il pane…e preparare un piatto specialissimo perché piace tanto a tuo marito.
Si arresta di colpo. Fissa gli spettatori.
Oh! scusatemi… Sto dicendovi cose di me che non ho mai detto neppure a un’amica…
Ma adesso tutto quanto mi riguarda è come se mi venisse davanti in trasparenza: i segreti si fanno incandescenti…corpi santi da spartire insieme…E’ la voglia di vivere che insorge, desiderio violento, necessità di esistere senza l’incubo di una fine già prestabilita.
Io sono sana, per ora. Ma chi sa? se lo sarò domani, o fra un mese, fra un anno… Questo mistero che annulla a poco a poco chi sa che non si insinui anche in me …Ah! E’ tremenda la paura!, la corsa folle della mente a inventare possibili contagi!
Il pregiudizio ci spia ad ogni istante: noi che sappiamo siamo così, pensate chi non sa e respinge per timore ogni contatto, chi sente l’amico, l’amante mutato in un nemico da sfuggire, un essere con cui non si può stabilire nessun rapporto perché già passato, almeno nel pensiero di chi teme, a un’altra fase, quella della morte…
Lo sguardo cerca un consenso fra gli spettatori.
Anche tra voi, chi è sano, chi è legato per affetto a un malato, questo impulso di fuga se lo cova nel cuore. E anch’io…anch’io! Certe volte mi prende una smania di scappare cove nessuno mi possa trovare, che c’entro io?, che c’entro col suo male?
Urla.
Imbrogliata! Tradita! Minacciata!
E non ho colpa di quello che è successo, ne porto invece il peso e non è giusto!...
Si ricompone e riprende a parlare con un tono coinvolgente
Eravamo una “coppia felice”.
Studiavo ancora, quando ci siamo incontrati.
Istituto d’arte,mi piaceva dipingere. Mio padre faceva l’imbianchino, e io - mi era nata in testa quell’idea - volevo riscattarmi, mi ero messa in testa di dipingere. Mio padre lo chiamavano “ il pittore”, a me pareva che lo sbeffeggiassero. Io! Sarei stata una pittrice, un’artista! e avrei riscattato la famiglia.
Lui l’ho conosciuto ad una mostra, doveva scrivere un pezzetto su un giornale. Ci siamo messi insieme: che bella coppia!, io pittrice, lui scrittore – giornalista!
Mesi incantati, ci siamo sposati quasi subito.
Abbiamo affittato una casetta, mio padre ce l’ha tutta ripulita. Ma a me mi imbarazzava che i vicini lo vedessero tutto bianco di calce , col cappelletto di giornale in testa a spennellare le pareti mentre io, io ero un’artista, e discutevo di pittura d’avanguardia.
In casa, oltre ai lavori di mio padre, non abbiamo potuto fare altro.
Mio marito scriveva qualche articolo, ma i soldi arrivavano a distanza di mesi. Le mie tele costavano, e i blu di Prussia, e le terre di Siena … non potevo risparmiare sui colori.
Un amico mi aveva proposto di disegnare cartoline per Natale; era piaciuto subito un bozzetto con Gesù piccolo in mezzo alla neve e intorno un gruppo di sciatori fricchettoni carichi di panettoni e videogames: ha incontrato l‘idea, perché era nuova, e originale mi ha detto l’amico, e me l’hanno pagata: poi mi hanno chiesto per Pasqua, se mi veniva un’altra idea… E così da una Pasqua a un Natale ho finito col dipingere soltanto cartoline e cartoncini di auguri. Sfogavo in questo modo la mia passione artistica , e intanto riuscivamo a pagare l’affitto e le rate dell’auto. Sfumati i sogni , il successo, le discussioni accanite con i compagni; certo c’era l’affetto , la tenerezza… e poi, i figli. Io ero così presa da tutto quello che dovevo fare in casa e fuori, che non mi accorgevo che qualcosa stava cambiando.
Piccole crepe incrinavano i discorsi fra mio marito e me. Silenzi imbarazzati. Voler dire non riuscire a dire. Non voler dire più. Tacere e basta. Non riuscivo a rendermene conto. Tiravo avanti, mi dicevo “Lasciamo correre, tornerà tutto come prima”. Invece, a quei silenzi tesi alle parole avare ci si stava facendo l’abitudine. Quando arrivava a casa lui, mi trovava sempre indaffarata. Riuscivo a disegnare quando i bambini stavano a scuola; appena riapparivano, era l’inferno: li infilavo nel bagno, la lavatrice straripava di vestiti; poi la merenda, i compiti, seguirli, le lezioni di nuoto e di chitarra, le feste con i compagni, spuntava sempre qualcosa che rubava il mio tempo, non mi restava niente per lui, e gli impegni costituivano il mio alibi.
Per un po’ mio marito aveva tenuto duro a scrivere - recensioni, articoli, interviste- sperando che un giornale lo assumesse, ma raccoglieva soltanto promesse: a un certo punto si era dato per vinto, in un concorso per entrare in banca era uscito tra i primi in graduatoria, e così aveva rinunciato al giornalismo. Ma rinunciato veramente a cosa? solo alle sue illusioni …
E a me questa sconfitta, lo confesso, non mi era per niente dispiaciuta: provasse anche lui che cos’era la vita! guadagnasse anche lui i soldi per la famiglia! Perché soltanto io dovevo rinunciare a realizzarmi, riversando in quelle cartoline la mia sete di gloria?! Perché erano oscene ora lo posso dire – erano oscene veramente quelle mie pitturine di Natale! Ma io davanti a lui mi volevo vantare del mio estro pittorico, non potevo apparire da meno di fronte alle sue arie da scrittore! Faceva orari lunghi, dopo la chiusura gli straordinari. Non raccontava niente, quando rientrava, alla sera. Si gettava in poltrona, guardava la tivù già accesa dai bambini che per ore si bevevano i cartoni animati ed i pupazzi .
Zitti i figli a seguire i filmetti, zitto il padre finché non si cambiava canale. Allora erano grida di protesta dei ragazzi per quella violenta espropriazione. Niente accordi fra le due parti, e si acquistò un secondo televisore. Pace raggiunta allora, un accordo perfetto, e silenzio delle nostre voci, dei pensieri, di quanto potevamo contare l’uno per l’altro, nel bene e nel male. Le stanze erano invase di suoni che non ci appartenevano, muta la nostra vita. Mi lasciavo andare, arida senza sentir dolore. Mio marito ha reagito in un modo diverso, l’ ho capito dopo. Quel senso di impotenza che si covava dentro, non poteva, lui, sfogarlo urlando con i figli come io facevo, tagliando con tutta la violenza di cui ero capace la carne e la verdura per la cena. Un giorno stavo ripulendogli un vestito, e vedo cadere dal taschino della giacca delle bustine colorate, piatte: le ho raccolte, si trattava di preservativi. Noi due non ne avevamo mai usati: forse sarebbe stato meglio, una volta lui non aveva “fatto attenzione” e c’era scappato l’ultimo bambino. E dopo io mi addormentavo che lui stava ancora davanti alla tv, o mi sentivo male e mi voltavo dall’altra parte se voleva avvicinarsi, o era lui a dirmi “Dormi pure io resto a finire il giornale “…Insieme ci si stava sempre meno col passare degli anni. E quei preservativi, un affronto! M’è salita una vampata di calore: era un’offesa. Non me l’aspettavo, l’indifferenza è un conto, ma lo sfregio… Con chi li usava quei cosi molli, viscidi, schifosi.. Oh! non avevo immaginato che finisse così il nostro amore nei mesi incantato dell’inizio, quando avevo scoperto – credevo!- di potermi specchiare in un uomo, di completarmi dandomi a lui! Alla sera gli ho mostrato quelle buste, col gesto, senza una parola . Lui ha fatto un sobbalzo, s’è visto scoperto. Poi giù a dire che erano per noi, li aveva comprati per darmi sicurezza, ma non aveva avuto poi coraggio, sentiva come un muro a dividerci quando alla sera stavamo nel letto.. Io ci ho creduto. Ho voluto accettare quella bugia: ero stanca, non mi sentivo di andare fino in fondo in quel discorso che lasciava intravedere sviluppi minacciosi: paura di scavare oltre quel paravento di parole: non volevo rischiare un dolore più forte, andando a cercare cosa si nascondesse sotto quelle motivazioni fragili .
Ciò che c’era di vero, nei suoi confusi tentativi di spiegarmi, era che io da tempo lo tenevo lontano da me.
Lo sguardo è fisso come si rivedesse la situazione. La voce è un filo su cui si innesca il pianto trattenuto.
Avessi gridato che non gli credevo!
L’avessi insultato perché aveva un amante!
Lui avrebbe capito che me ne importava ancora!...
Forse ci saremmo spiegati ! Avremmo detto le cose più tremende, ci saremmo offesi…Ma una via d’uscita alla fine l’avremmo trovata! E invece niente.
L’orgoglio, l’esasperazione, la fatica del vivere ogni fatica quotidiana hanno impedito il nostro dialogo. Neanche una parola gli ho risposto. E ho gettato quelle bustine nella spazzatura.
Lui ha alzato una mano per colpirmi: io aspettavo, meglio uno schiaffo che l’indifferenza. Invece, niente, dopo un attimo era già sulla poltrona. Gli occhi ficcati dentro la tivù. E’ finita così.
Sono passati quattro o cinque mesi, lui s’era fatto pallido, sudava: qualche linea di febbre al mattino, la sera aumentava, poco poco. Si beveva un whisky, diceva di sentir freddo: era d’autunno, mi sembrava una scusa per sorbirselo in pace. Si addormentava sovente sul divano: spegnevo io il televisore non era venuto a coricarsi. Lo toccavo sul braccio, si lasciava guidare, nel sonno, appena poco gemendo, come sognasse, docile come un bambino, un bambino malato… e lo portavo fino al letto. Galleggiavo in un tempo senza tempo; non volevo, anche in quella situazione, arrendermi a una realtà che sembrava sgradevole, forse grave, certo dolorosa. Avvertivo un pericolo; invece di affrontarlo mi nascondevo cullandomi in attese illusorie.
Avrei dovuto spingerlo, che si facesse al più presto le analisi: tacevo spettando che prendesse lui l’iniziativa, ma non glielo dicevo, mi costava fare quel passo, sarebbe stato come riconoscere che pensavo potesse essere malato.
Grida
Perché siamo così avari dei nostri sentimenti?
Perché questo tirarsi indietro, aspettare che sia l’altro a fare il primo passo per un’intesa, superando gli equivoci? Siamo così; e l’esperienza deve farsela ognuno, le situazioni sono nuove ogni volta e ciascuno le vive per sé. Stava sempre più male, a un certo punto si è deciso. I dottori hanno cominciato di lontano; ogni sorta di esami.
Il cerchio si stringeva sulle ipotesi, alla fine è venuta la diagnosi che lui segretamente si aspettava, la cosa impronunciabile, temuta. E a me l’ha detta dopo un po’, l’ho capito dalla data delle analisi.
Non sapeva come cominciare. Quella rivelazione, pensava, avrebbe scatenato la mia ira. Ma io sono rimasta muta: c’era troppo da dire per parlare. Ho respirato forte forte, non volevo svenire. Poi, piano piano, ho cominciato a sussurrare “ Come?”. “Perché?” Schiantata, senza forze. E un lampo, a un certo punto. “Anch’io forse?” , e un bisogno selvaggio di certezze: si o no, ma una cosa sicura. Non potevo restare nel dubbio. E sono corsa a gettarmi sopra il letto, perché mi pareva di morire. Lui mi è venuto dietro: mi carezzava leggero sulle spalle, come se avesse paura di toccarmi: restavo immobile, nel cuore la voglia selvaggia di picchiarlo. Come, perché, tutto quello che riuscivo a dire. Poi la rabbia, violenta, disumana. Dove se l’era presa? Avevo il diritto di saperlo! Negava: “Una cosa di tanto tempo prima, non ci eravamo ancora conosciuti…”. Gli ho riso in faccia, l’ho schiaffeggiato. “Non mi prendere in giro, i bambini sono già grandi!” e lo provocavo con ogni sorta di domande finché finalmente tirasse fuori la verità! Alla fine è scoppiato.
Era andato con qualche prostituta, nessun amore ma uno sfogo da bestia, non reggeva lo stress della banca e a casa si sentiva uno straniero.
“C’è chi si droga – ripeteva - , stavo quasi per farlo anch’io; ma pensavo ai bambini, e a te: i soldi spariscono in un attimo, non volevo trascinarvi alla rovina; così invece, la vergogna nascosta di un momento, si paga non ci si pensa più”.
Ma nella fretta l’agguato del contagio. Ora si tormentava, temendo anche per me. Le analisi pochi giorni dopo mi diedero sollievo: non avevo niente!; si sarebbe dovuto riprovare lasciando passare qualche mese, ma da tempo non c’era più fra noi nessun rapporto. La gioia di sapermi sana! E il rimorso, quasi, per il mio egoismo, nei confronti di lui che era malato. In banca intanto l’avevano mandato a una filiale di periferia: non sapevano della disgrazia, ma la gente intuisce quel qualcosa che porti in te, ti costruisce intorno un muro di silenzio: tu avverti un senso di disagio che si crea appena ti avvicini a dei colleghi che prima discutevano: cessato ogni discorso, ti sorridono con troppa premura, poi se ne vanno in fretta come richiamati da qualcuno. Lui mi raccontava, finalmente liberandosi, e i pensavo: “ Com’è vero! Quante volte ho fatto anch’io così” . I risultati che ho saputo glieli ho letti senza osare di guardarlo: poi nel silenzio, ho alzato gli occhi: sul suo volto è apparso un lampo vero di felicità. Da tempo non provavo amore per quell’uomo; ero colpevole anch’io nei suoi confronti, ma quanto lui era stato punito!, potevo consolarlo solamente abbracciandolo, facendogli sentire che lo amavo di nuovo. E siamo stati insieme. Volevo riparare all’assenza di dieci anni e farlo entrare dentro di me, come una moglie…
Una risata triste
Vedete, ho ritrovato l’amore quando è arrivata la morte. Da mesi ormai io vado e vengo con queste analisi di lui. Un po’ più…un po’ meno…è una caduta. Medicine flebo analisi…Si risale un poco, ma non proprio come prima: ci si accontenta, è già qualcosa in confronto al momento disperato… Un po’ più…un po’ meno…e una caduta, un’altra. Di nuovo esami, l’attesa per la scelta della cura, un nuovo ritrovato. Si risale un poco, ma non proprio come prima… E così via da tanto tempo…Non si sa quanto dura l’altalena, non si pensa a nient’altro. La vita ogni volta ti riprende, speri ancora. Ci sono giorni belli, ce ne andiamo con il bimbo piccolo - gli altri ormai sono autonomi, troppo impegnati per badare a noi; il figlio piccolo è contento perché ha trovato suo padre, che non gli era stato mai tanto vicino Ce ne andiamo fuori città, dove inizia una pineta e c’è il mare…Camminiamo. Non si parla quasi, stiamo insieme ed è tutto. Ho imparato a vivere ogni giorno cercando di tirarne fuori il meglio; è un gusto, questo, che da temo non provavo più.
Si passa una mano sul viso.
Prima!... Se penso che mi angosciavo perchè non avevano accettato i miei disegni ad una mostra collettiva promossa da un giornale della sera!.. E mi sentivo annientata dal rifiuto, che mi escludeva da una delle infinite esibizioni che si tengono in giro per ben altri motivi che per l’arte… E lo sapevo, io, che chi sceglieva i concorrenti era in giuria per ragioni diverse dalla capacità di valutare un talento: chi perché rappresentava un sindacato, chi messo da un partito, o perché lo imponeva un gallerista che faceva poi affari col giornale… Era giusto che io fossi frustrata se quella gente di cui non aver stima non mi aveva poi scelto? La gloria di cui mi sarei accontentata era solo apparenza, ombra di vento, sospiro di ambizioni prive di forma e di sostanza. Eppure, io mi tormentavo per non essere entrata in quella mostra, dove poi a vedere le opere ci sarebbero andati quasi solo i parenti e gli amici… Questo per dirvi quanto fosse vuota la mia vita dalle pretese artistiche: in quello stesso modo, se ci penso, avevo agito con la mia famiglia. Adesso la scoperta del male che aveva colpito mio marito mi aveva portato bruscamente ad una dimensione ben diversa. Tardi. Ma chi può dire quando è l’ora? Noi non sappiamo niente.
Un sospiro lungo
E poi, quando accetti di lasciarti guidare docilmente dalla voce che non reprimi più dentro di te, scopri cose che prima non vedevi o valutavi in modo differente. Gli atre. Realtà sovente fastidiose. Piccoli sotterfugi. Falsità. Trucchi. Espedienti per avere dei vantaggi. Ingraziarsi un potente. Trascurare i doveri lasciandosi corrompere. Anche tu sei così, come loro, prima non volevi riconoscerlo. Mi è venutala nausea. E la voce ti dice che si deve cambiare.
Si alza e raggiunge gli spettatori. Andrà accanto a questo e a quella mentre racconta.
Ogni volta che vengo in questo posto,vorrei conoscere la storia di tutti; ad uno ad uno li vorrei conoscere, dirgli “Raccontami: sbagli, incomprensione , e poi il male , come ti è successo; e la vita, non perderla”… Se parli con qualcuno, meno dura sarà la tua pena.
Si ferma davanti a quello fra gli spettatori che la indurrà a raccontare, e gli parlerà in modo confidenziale: questo non impedirà agli altri di seguire il racconto.
Ogni volta che mi trovo davanti una persona… come adesso te, che non ho mai visto prima… All’inizio, silenzio …Poi, cominciano gli occhi ad incontrarsi; delle volte ti sfuggono, non ne vogliono sapere di parlarti. Ma uno sguardo si ruba e non infrange il pudore; si dice e non si dice… E dopo, verranno anche le parole…
Con i gesti si aiuta per descrivere le situazioni che andrà raccontando.
Una volta mi trovo accanto due ragazzi. Sembravano ancora molto giovani, ma dovevano avere già un po’ d’anni… di quelli che rimangono sempre ragazzini; raffinati, vestiti con cura; uno era biondo, i capelli un po’ lunghi e a voce bassa parlottavano fra loro . Era difficile incontrarne gli sguardi; intorno a loro c’era come un muro, isolati in un mondo esclusivo e lontano. Arrivano un mattino, come sempre; il brunetto riscappa fuori un’altra volta, a posteggiare l’auto: aveva fatto entrare il compagno perchè non si stancasse a camminare: a questo, dentro, gli è presa la tosse: si scuoteva e gemeva trattenendosi, non volva disturbare la gente. Io allora l’ho preso per le spalle perché non rischiasse di cadere e con dei klinex gli asciugavo la fronte: era sudato: scottava; poi si è calmato , con gli occhi mi ringraziava e con la mano faceva segno che aspettava a parlare che la tosse gli fosse passata. Poi è tornato l’altro; si affannava geloso temendosi estromesso dalle cure al compagno; ma il biondino mi indicava sorridendo, io l’avevo aiutato!e il bruno allora a ringraziarmi!, non la finiva più. Poi, piano piano, mi hanno raccontato- qualche accenno si capisce: amici amici fin dalla scuola, in una cittadina di provincia; insieme via di casa, la grande decisione; non ce la facevano a sopportare l’atmosfera soffocante di una classe rigida borghese; un ménage insieme, nella capitale: gli era mancata una famiglia vera, nell’infanzia, non erano maturi per farsene una da adulti, e s’erano alleati fra di loro. Sempre insieme, dopo il lavoro, a casa e fuori; tanti viaggi, alla scoperta di mondi conosciuti, dove ragazzi come loro vivevano senza pregiudizi nella diversità: curiosi e ingenui, ingordi di esperienze, incapaci di distinguere una crescita da un gioco perverso che poteva anche uccidere … S’erano gettati in ogni cosa nuova, sforzandosi ad esserne partecipi per non venir giudicati da meno, dei piccoli italiani provinciali…Bene e male mescolati senza valutazioni, alla rinfusa… Avevano poi deciso di tornare; pesti, finiti, rinchiudendosi alla fine nello spazio familiare della casa comune, contenti di avvertire in quell’unione riallacciata la dimensione che fuori era mancata, dell’affetto e della tenerezza.. Ma li aveva toccati quel male non si sa come, non si sa perché; colpiti tutti e due, più violento nel ragazzo biondo, e l’altro lo curava dimenticandosi di sé. A un certo punto non li ho più incontrati. Ne ho chiesto allora all’infermiera: stavano all’ospedale, e io ci sono andata.
Camminavo per i corridoi, lanciando occhiate dentro gli stanzoni, cercandoli e intanto mi domandavo se quella visita non fosse solo per curiosità. Poi mi son detta ”Anche se fosse?non ho diritto di sapere che mi succederà, magari fra non molto?”. Li ho visti lontano. Il bruno stava chino sul letto dell’amico, medicava le piaghe,macchie scure sulle gambe e sulle braccia; io aspettavo, fuori dalla porta, che avesse termine. E l’infermiera che mi conosceva raccontava intanto come il ragazzo bruno lo accudisse, quell’altro, forse una madre non faceva altrettanto; gli portava la colazione al mattino, e un mazzetto di fiori sempre freschi insieme al suo giornale preferito; ogni attenzione lui metteva per alleviare la pena dell’amico.
Poi sono entrata mi hanno fatto festa; avevo portato delle paste e le abbiamo mangiate tutti e tre come dei vecchi amici, non esisteva più la malattia, per un momento, né la differenza delle nostre esistenze, e stavamo sospesi in un piccolo spazio di allegria.
Si dirige verso un’altra zona di pubblico.
Quando mi trovo davanti a chi soffre mi cadono tutti i pregiudizi che certe volte mi accompagnano. Una battuta sugli omosessuali ad esempio può essermi sfuggita; mi pareva che non avrei mai avuto niente a che spartire con gente di quel tipo…quando ho conosciuto quei ragazzi, il loro amore invece mi ha incantato; più uniti tra loro per aiutarsi, più affettuosi di tante coppie uomo e donna. Mentre me ne andavo facevo una specie di confronto tra quei due e mio marito insieme a me, e mi trovavo a perdere… Per un’unione così profonda dovevo ripensare ai miei nonni, che stavano in compagna e lavoravano la terra, poi le bestie, dargli da mangiare; e mungere le vacche, la stalla pulirla, e le galline, i conigli, zappare l’orto, bagnare le piante, da potare e tutto il resto; e alla fine quel poco di raccolto….
Eppure quando avevano finito e la sera d’inverno sedevano davanti al cammino, o fuori dalla porta d’estate, in quei volti c’era una pace e una fiducia l’uno per l’altra, senza incrinature; non l’ho incontrata dopo mai più. Non è buffo, perfino? I due ragazzi, i nonni….
Si sposta cercando tra gli spettatori chi può ascoltare con più partecipazione quello che racconterà.
Sono tante le forme dell’amore. Ognuno sceglie quella adatta a sé, la fa sua…
Un giorno ho incontrato una razza che piangeva disperata fuori dall’ufficio dove danno i risultati delle analisi. Carina, tanto giovane, potevo essere sua madre. L’ho presa sottobraccio e l’ho portata al bar, in faccia al cancello dell’entrata. Non le ho chiesto il perché di quel pianto, i fogli che teneva in mano parlavano da soli. Seduta al tavolino, con me accanto, si è bevuta il suo caffè macchiato, è stato allora che ha voluto raccontarmi; io non le avevo chiesto niente, ma certe volte è proprio con qualcuno che non conosci che ti viene da sfogarti.
Si dirige verso una ragazzina seduta fra gli spettatori.
Poteva avere più o meno l’età tua. E graziosa come te: s’era bucata un po’. Ribellione alla famiglia ricca, che voleva destinarla a un matrimonio conveniente e l’educava per questo, scuola delle suore, circoli con il tennis e il golf, vacanze all’estero per la conoscenza delle lingue…Bucarsi era stata una difesa, un volersi affermare contro la volontà dei parenti: tutto sbagliato, si capisce, le sue ragioni le aveva difese in modo sventato, e se n’era pentita, in pochi mesi si era liberata della droga, in un programma di comunità. Impara a tenere cura della vita, si assume degli impegni, lavora, è amata dai compagni, si innamora di un ragazzo più o meno come lei; e dopo qualche mese passato insieme per conoscersi, si sposano e mettono su casa. Stanno proprio bene, loro due, così decidono: “Vogliamo un figlio”; sono diventati giudiziosi e decidono di farsi le analisi: è allora che da un momento all’altro scoprono di essere malati; non ci vogliono credere e rifanno gli esami; la ragazzetta in lacrime quando la incontro ha appena letto le cartelle che confermano le diagnosi. E’ per questo che la trovo disperata, con quei pezzi di carta che dicono, al di là delle cifre e dei termini, che non potranno avere quel bambino tanto desiderato, ma godere ancora, forse, un pezzetto, breve, incerto, di futuro. “Lui prima? Lei da lui? Prima lei poi lui? Tutti e due insieme dal tempo dello sbando? E come quando e perché proprio loro?” L’urlo agghiacciante delle domande cade nel vuoto di un unico pensiero, che dice solo morte…. Non ha ancora reagito a quel colpo tremendo.
Non è riuscita la mente, che tutto ricuce, a riportare una speranza nel cuore devastato…. Consolo questa ragazza sconosciuta, mentre tira su dal naso e si pulisce la bocca dallo zucchero del cornetto che malgrado le lacrime continua a masticare, meravigliosa fame della giovinezza! La consolo carezzandole una spalla e ripeto “Anch’io sai…anche a me”, e racconto. Come trovo il coraggio? E’ la prima volta. Le cose che hanno distrutto la mia vita, che mi avevano fatto imprecare, ora le ho dette per consolazione a una ragazza sconosciuta…. Usciamo dal bar, ognuna se ne va per la sua strada. Non so come si chiama. Forse non la vedrò più. Mi sento in pace. Quel conforto regalato alla ragazza è servito soprattutto a me. E via, a casa. Lui depresso, col pensiero della fine. Figli, a cui mostrarti allegra perché continuino a ignorare. La tivvù fra le tante notizie di guerra, attentati e dipartite annuncia con dovizia di particolari che dopo lunga e coraggiosa battaglia l’attore celebre colpito dal male si è arreso: funerali di Stato compunti, politici e artisti ne parlano con naturalezza, mentre io….Io!!!...
Urla tornando di colpo alla situazione dolorosa, come selvaggiamente la sente in tutta la sua durezza, scomparsa la mediazione della riflessione.
Io non posso neppure uscire di casa certe volte! La signora del piano di sotto apre la porta di scatto mentre scendo, per chiedermi come sta mio marito: e mi accompagna fino al portone con una scusa - la posta, l’immondizia…- dicendomi “Non la vedo bene” oppure “Ma com’è dimagrito!”, e io allora a sorridere, con un’espressione di stupore a quei giudizi protesi a scoprire il mio segreto: “Ma che cosa dice! Dorme poco; questo senz’altro, è il troppo lavoro…Ma sta benissimo, andremo presto al mare; riprenderà le sue forze vedrà…” Invento ogni bugia facilmente e intanto penso: “Per quanto tempo ancora, mio Dio, potrà reggere il mio povero inganno? Dovrò cedere? Ci sarà un momento in cui diventerà inutile nasconderlo, sarà così evidente che sta male….Tutti quanti parleranno di noi nel chiuso della camera da pranzo, mentre mangiando seguono dal telegiornale, con pietoso rincrescimento, la notizia che il ballerino famoso, così giovane e bello, l’ha stroncato quel male…
Ora si protende verso questo e quello.
Il successo giustifica ogni comportamento. La celebrità cancella i pregiudizi, ma per motivi vacui e presuntuosi. A chi è baciato dalla gloria si consente quello che ad altri è imputato come colpa, qualunque sia stata la sua storia. E fino a quando non siamo messi alla prova, ragioniamo tutti quanti così.
Sapeste quanto male si fa! Aperti tutti a visioni umanitarie in situazioni che non ci toccano, carcere, terzo mondo, infanzia maltrattata, di fronte a questo male ci tiriamo indietro. Io ho taciuto con i miei, non oso! raccontare di lui. Mi direbbero subito”Lascialo!”, mi farebbero mille domande! E “Stai attenta!, non ti devi fidare neppure del preservativo! “ E “Lui ti ha ingannata, ora ha quel che si merita, ma tu che c’entri?, vattene coi figli, potresti non essere più in tempo!”.
Vorrei sfogarmi con qualcuno; l’ansia mi spacca, l’angoscia è intollerabile. Poi ritorna la calma, come in convalescenza. Si affaccia insperata la speranza, di che cosa non so… Spero e nient’altro: che un mattino lui si senta bene e il male sia sparito… Che inventino una nuova medicina e per prodigio scompaia il dolore… Vengo qui e aspetto che il dottore esamini l’ennesima cartella con le analisi e dica “ Andiamo meglio, ancora un po’ di pazienza e vedremo se questa nuova cura darà dei risultati…” Intanto guardo gli altri; sui volti il nostro destino, uguale: dico “Se vanno avanti loro, anche noi, lo dobbiamo…”Tutto riprende come fosse normale. Torno a vivere, senza farmi illusioni, ma mi allontano dalla disperazione, il desiderio di farla finita…
Si ferma di colpo, sorpresa dalle parole che le sono sfuggite.
No! Non fateci caso, mi è sfuggito. Non l’ho pensato veramente… O forse si…. Sto facendovi in fondo quasi una confessione. Si l’ho pensato, di andarmene senza dire niente, un mattino, lasciando il pranzo preparato, i letti ben fatti, come sempre. Andarmene fino alla riva del fiume, vestita bene, serena. Che bisogno c’è di scrivere qualcosa? …Immagino la gente che mi osserva appena mi sporgo dal muretto sul ponte… Nausea….Avidità curiosa… Mi ritraggo da quel fantasticare, rafforzata a lottare, senza sapere come, per istinto. Non ci ho pensato seriamente mai, a farmi fuori. Che cosa penserebbe il mio bambino, da grande, che la mamma ha deciso di andarsene così? A mio marito gliel’ho letta negli occhi, certe volte, la voglia di ammazzarsi. Ne parlava, come in delirio, prima, quando stava bene. Da quando si è scoperta la malattia, più niente; ma finché si dice, è lontano quel gesto. Questa è una paura che mi prende, devo stargli vicino.
Si avvicina ad un ragazzo, tra gli spettatori, dall’aria svelta. Gli va accanto e si rivolge a lui.
Ho visto ragazzi come te arrivare sopra il cellulare con le catene ai polsi. C’erano a farli scendere aspettandoli sotto la porta con il mitra spianato come fossero belve, dei poliziotti, ragazzi come loro. Venivano al mattino dalle carceri: li facevano uscire per la cura: ci sono terapie che tu puoi fare soltanto in ospedale. Stavano da una parte: noi cercavamo di non metterli a disagio guardando quelle mani incatenate. Ne fissavo qualcuno negli occhi, sorridevo per dirgli “Coraggio!”. Bei ragazzi, delle volte, pallidi, invecchiati, chissà come arrivati a quel punto. Quando era il loro turno li scioglievano dalle catene. Una volta entrati nell’infermeria, restava fuori soltanto un poliziotto: gliel’ho chiesto a quel ragazzo come loro, perchè li portavano così. “ Il regolamento” mi ha risposto, ma si vedeva che provava imbarazzo. E quando sono usciti, lui non gli ha messo le catene. Andando via mi ha fatto un cenno, appena appena, come per dire “Si fa quel che si può”.
Cammina lentamente per un tratto guardando tutti.
Io sto qui, ogni giorno, e il mondo mi passa davanti.
Ciò che succede agli altri, è sempre un po’ quello che succede a te. Una volta mi siede vicino una donna, né giovane né vecchia, vestita così così, poco truccata, i capelli con un po’ di permanente: opaca, zitta, e teneva i suoi fogli tra le mani. Penso “Sarà venuta per qualcuno. E’ una madre, una moglie, chissà”. Apriva e chiudeva quelle pagine senza dir niente, eppure ne avvertivo l’ansia di capirne qualcosa di più. All’improvviso poi mi si rivolge: “ Che me poi legge tu? Nun ce capisco…”. “Fammi vedere”. le rispondo e lei mette la cartella davanti agli occhi. “So io” mi fa, e col dito indicava il suo nome. Era la donna ad essere malata: capisco, per quel poco che capivo, che era già molto grave. “Nun lo sapevo fino a pochi ggiorni fa”, mi dice allora, è sfinita chiude gli occhi: “Ciò un fijo ch’è ancora ‘n bambino… E chi ce penza adesso?”
E mi racconta che fa la prostituta, ha tentato altri mestieri, non ce l’hanno voluta ed è andata a finire così. “Ma adesso come faccio? – si dispera – Da pochi giorni so quello che ho. Chissà quanti clienti ho contagiato…. E io che ne sapevo? Chi me l’ha data, a me, la malattia? A chi devo dì grazzie? Peggio per loro, chi viene assieme a noi s’aspettasse de tutto, come a noiartre, quando col cliente pe’ ddu’ sordi rischiamo la vita e la salute….”Ammiccava tra il pianto e una risata che per forza voleva farsi uscire, e mentre l’ascoltavo mi pareva di vedere mio marito, trovarsi in faccia quella disgraziata – lei o un’altra non diversa da quella – e prendersi la morte così.
Sono tante le storie…. E a certi il male si tramuta in odio, e vorrebbero gettarlo sopra a tutti….
Torna alla sua sedia in mezzo al palcoscenico e siede.
Questa è la vita qui.
Guarda l’orologio che tiene al polso. Mentre comincia a parlare tira la borsa su da terra.
Se vado subito, posso ancora entrare al reparto dei bambini. Tanto qui il dottore rimane almeno un’altra ora.
Tira fuori dalla borsa una bambola.
C’era una bambina che è rimasta sola…. Le ho presa una bambola, quando gioca dimentica dove si trova. Sua madre, quando veniva qui, la portava con sé. Parlavano e ridevano tra loro, aspettando la visita. La mamma prendeva la bambina sulle ginocchia e in un orecchio le sussurrava delle cose buffe; rideva beata la piccolina, dopo lei faceva lo stesso con la madre e tutte e due tornavano a ridere, tenendosi abbracciate. La donna poi è entrata in ospedale, e la piccola stava sempre con lei, seduta sopra il letto come prima sulle ginocchia della mamma. Sono andata a trovarle: una storia come tante, avrei potuto esserci io al posto loro, solo che il male ce l’aveva lei, e anche la bambina era nata così. Poi questa donna è morta. Sua figlia l’han mandata in un posto , “casa – famiglia” si chiama. Persone brave si son prese cura di lei… All’ospedale ci viene ogni tanto, quando deve riprendere una cura.
Dalla borsa tira fuori un cappello grande di paglia, con dei fiori.
Vuole che lo metta quando vado a trovarla…
Si mette il cappello.
Me l’aveva regalato la madre, verso la fine. Prima in ospedale delle volte, lo indossava. A sua figlia piaceva vederla con quel cappello allegro, di nuovo fresco pareva il viso stanco, smagrito. Era il ricordo dell’ultima estate, quando andavano in giro passeggiando la sera in riva al mare e si compravano il gelato e ridendo parlavano piano piano abbracciate…
A me sembrava crudele ricordarle quel passato felice, ma è sempre lei che insiste e parla della madre come se dovesse ritornare e fosse andata via solamente per poco. Le cure in ospedale sono lunghe, dolorose, lei accetta docilmente, purché le infermiere le spieghino, prima, come e perché deve fare la brava. Non ha paura. Non piange. Non cerca di farsi compatire. Quando penso a lei, mi vergogno di me che mi commisero e fatico a trovare il coraggio per continuare a vivere.
Si alza e si avvia tornando verso il pubblico, arriva al fondo della sala, e si allontana fino a scomparire.