(...) Non si tratta di una figura classica, ma moderna: un’eroina dei nostri giorni che tenta una specie di bilancio (piccole puntate nel carisma del grande personaggio drammatico rifiltrate attraverso una serie di memoria personali. Un’occasione per rivedere i propri rapporti con Giasone ( che sarebbe l’uomo, l’altro polo, quello del destino), nei cui confronti è critica, poiché non sopporta più la totale disponibilità e l’assoluta sottomissione.
“Così – riflette Medea – mi ero tagliata fuori da ogni possibilità di esperimenti. Solo l’affetto che avevo per lui mi ha permesso di non impazzire”.
La “follia” di quest’ultima Medea – strutturata sotto forma di monologo – consiste nell’analisi del suo ruolo di madre, al punto di sentirsi soffocata : “La moglie che voleva Giasone era quella madre che lo nutriva nel corpo e nel sesso, non la compagna che all’inizio ogni donna pensa di poter essere per il suo uomo. Era dunque un rapporto tra carnefice e vittima, tra schiavo e padrone”.
Tuttavia, quando lui si rifugia in un’altra, medea dice che non se l’aspettava e subito venne afferrata da un desiderio di vendetta. Su di lei, su di lui, come deve essere accaduto alle donne del mito. Prede usate come bestie. Anche le regine, anche le maghe. Come medea greca.
Il segno di Maricla Boggio - che ha dimestichezza nel reinterpretare, in chiave femminista, le eroine della grecità – ha fatto una Fedra, e ha allestito “Le troiane” – è di una Medea che parla il nostro linguaggio di ogni giorno, simile a tutte le medee odierne, fusa con la Medea ( o le Medee) del ricordo, come in un flash-back psicoanalitico di suoni, di echi verbali, di riflessioni che scaturiscono nella banalità della sua vita di donna, simile ad una “tragedia da camera” che puntualmente si ripete per milioni di esseri.
(...) L’allestimento, a cura di Lorenzo Salveti, ha il pregio di aver cercato nella forma monologante una dimensione che riempie il monologo stesso di un linguaggio più pieno e completo, cercando dietro le parole tutti i suoi richiami. Da ciò l’uso appropriato del nastro magnetico, consistente in un montaggio di memorie, e l’uso della musica atonale, elaborata da Paolo, Terni, che moltiplica i pensieri e li sonorizza.
(...) Nella messinscena di Lorenzo Salveti, al Teatro Flaiano, l’autocoscienza della moderna Medea ha subìto un processo di astrazione ulteriore, trasformandosi in un lungo percorso mentale della protagonista, dalla passione barbarica e cruenta delle origini alla riflessione e alla presa di coscienza della donna di oggi. Il mito di Medea affiora così evocato da una serie di risonanze, come dichiara il nuovo titolo “Risonanze dal mito di Medea”, di memorie ataviche affidate a una voce registrata su nastro magnetico, elaborato da Paolo Terni e dallo stesso Salveti, in cui sovrappongono citazioni letterarie e musicali.
Il palcoscenico nudo, soltanto una sedia moderna e il gioco sapiente delle luci, coincide con la mente della protagonista, lo spazio dove si scatenato i suoi conflitti interiori, lo scontro fra realtà contemporanea e irrazionalità, la voce viva dell’attrice, Michela Caruso, dialoga con la sua voce registrata, scomponendo il monologo in un continuo flusso di dialogo interiore.
E’ la lunga lotta di Medea, donna di oggi, per conquistare una propria consapevolezza attraverso il lavoro, prima, e l’esperienza autonoma di donna, poi. La scoperta dell’infedeltà del marito la fa avvicinare all’altra, una giovane militante femminista, e scoprire così la solidarietà fra donne: l’invio della veste avvelenata alla rivale si trasforma nel dono di un abitino comprato su una bancarella del mercato.
Anche la conclusione non sarà più cruente. “Addio ricordi ingombranti. Il mito me lo porto dentro. Non è facile. Ma chissà. Quello che vale è continuare ad amare”.
E’ una Medea anni ’80 a spasimare sulla scena del teatro Flaiano, una donna che dell’antica Regina ha perso la ferocia e lo spirito di vendetta. Se il Giasone di turno l’ha tradita, questa Medea sa ragionare assai bene e controllarsi, sa disporre saggiamente delle sue risorse: secoli di sofferenza e di esperienze disumane l’hanno modificata e maturata, un itinerario di civiltà le impedisce di abbandonarsi alle ossessioni. Medea anni ’80 non uccide i figli, si porta appresso il Mito e conclude che “quel che vale è continuare ad amare”. Il tragico in quanto tale sembra bandito dalla scena contemporanea.
La rilettura in chiave quotidiana delle vicende di medea, che Maricla Boggio propone in uno spettacolo messo in scena da Lorenzo Salveti, sconta la frantumazione dell’Io nella società dei consumi di massa e la costruzione del personaggio drammatico è resa su piani sfalsati. parole e suoni si scontrano, ricordi, proiezioni e immagini oniriche cercano senza posa un punto di fusione, una utopica piattaforma da consegnare a figlie e nipoti.
(...) Lo stile del testo è conciso e piano, l’intonazione realistica, la progressione drammatica lieve e indiretta: emergono la realtà di rapporti tesi e ipocriti, uno sfilacciamento di prospettiva, un’insicurezza di affetti che, a parere dell’autrice, sembrano contagiare ben più l’uomo della donna. “Tu non ti sei cercato, con pazienza e disagio, come io mi sono cercata dentro di me, nelle mie stesse contraddizioni, come ogni donna oggi si cerca scrutandosi senza pudori... fino ad accettare il dialogo con quel suo uomo che l’ha distrutta come persona...”.
Il recente testo di Maricla Boggio, Risonanze dal mito di Medea”
accolto da lusinghieri consensi al teatro Flaiano di Roma, può riassumersi così: una ancor giovane “moglie e madre” dei giorni, nostri, di condizione piccolo borghese e legata al marito da una esemplare consuetudine che sempre di più logora il rapporto coniugale salvandone solo gli abitudinari sprazzi del sesso, scopre che nella vita del suo uomo è entrata una ragazza. La nostra protagonista, senza rivelare la propria identità, riuscirà a conoscere la “nemica”, ma non riuscirà a odiarla, come certo si era proposta: non ci riuscirà perchè l’incontro con la ragazza avviene nel contesto di una riunione femminista in cui si contesta proprio quella filosofia matrimoniale ( il servaggio di “lei”, i privilegi di “lui”) della quale ha fatto amaramente le spese Medea. Tale è infatti l’emblematico nome del personaggio che – nel monologo della Boggio – riflette a voce alta sulla sua situazione.
(...) Lo spettacolo, diretto con bella sicurezza da Lorenzo Salveti che, con Paolo Terni, ha curato anche la suggestiva colonna sonora – viaggia su due piani che vigorosamente si intersecano, si amalgamano e si respingono: i cruenti suggerimenti del mito che invitano a risoluzioni estreme e la presa di coscienza di una “tradita” di oggi che incomincia a farsi le sue opinioni politiche sul matrimonio “così com’è”.
Ne viene fuori un’affascinante scena didattica , per dirla con Brecht, capace di evitare pedanterie dimostrative e di rivolgersi, calorosamente, all’intelligenza critica dello spettatore. E anche ai toni dolcemente persuasivi, ironicamente smarriti dell’attrice Michela Caruso va il merito di questo molto applaudito spettacolo.
Maricla Boggio è ormai un nome di rilievo nel panorama – attualmente assai ristretto – degli autori italiani di teatro: il suo interesse è concentrato soprattutto sui problemi della donna, magari nella rivisitazione dei personaggi classici. In “Risonanze” torna in scena Medea, in bilico tra l’antica dimensione mitica e i giorni nostri: ma una Medea in ogni caso più umana, più aperta al dubbio e al perdono. Abbandonata dal marito che le preferisce una donna più giovane, affiorano nella sua memoria, nell’immagine di dieci anni di vita coniugale, non solo i segni dell’egoismo di Giasone, ma anche tanti errori e debolezze che a quel fallimento hanno certo contribuito. In ogni caso a questa medea non solo si rifiuta di uccidere i figli, ma respinge anche l’odio nei confronti della rivale e persino nei confronti di Giasone: si propone di trovare in se stessa e non nel gesto sanguinoso e liberatorio una sua dignità ed una diversa ragione di vita.
(...) un esempio asciutto e spoglio di “teatro del quotidiano” – se si vuol usare una formula in voga oltr’Alpe – in cui i gesti più comuni tendono a fissarsi in un’antica sacralità; o viceversa.
Quanto alla componente “femminista”, essa si esprime in un linguaggio adulto e serio, con argomenti incontestabili.
(...) Si coglie nell’atto unico la lezione di Bertolt Brecht, sia per il senso dell’ammaestramento sia per il senso dello spettacolo. Inoltre la ricca colonna sonora di Paolo Terni e la scarna regìa di Lorenzo Salveti, giocata su bianchi-neri e luci-ombre, non sono mai occasionali.