Entra dal fondo Ina. E’ molto agitata. Viene avanti correndo. In mano tiene il bocchettone di un aspirapolvere. Il grembiule grigio da inserviente le svolazza mezzo sbottonato sulla gonna.
INA – Rosa!...Rosetta!...
Ecco c’è mamma tua…so’ qua non avere paura sto arrivando!...Rosetta dove sei?!...
Dove l’avete portata a Rosa mia? L’avete vista?
Eh signò: qualcuno l’ha veduta? Una bella figliola alta bionda tutta riccia…No… non l’ha vista nessuno…Eppure è qua che l’hanno portata! La telefonata diceva San Camillo!
Fatemi entrare è là! E’ dietro quella porta me lo sento!
Ma perchè non volete farmi entrare ?!...
Rosa mia ha bisogno di me…Io le devo parlare, io sola la conosco, e così non possiamo andare avanti …No dite…adesso no…non è possibile …non può parlare…
Ed è sempre così…
Si, fate presto a dire “Parlateci dopo a vostra figlia”…
Dopo non si può più…
Non c’è più l’occasione…
C’è di nuovo l’attesa che succeda qualcosa di terribile…
Ina tace, chiusa nel suo mistero. Si rende conto, guardandosi intorno, di essere in mezzo a della gente che la sta osservando.
Si aggiusta il vestito. Si accorge di stringere in mano il bocchettone dell’aspirapolvere.
INA - Eh sì. Stavo a fa’ le pulizie quando m’han telefonato di venire…
Ina appoggia il bocchettone, si sfila il grembiule , lo ripiega con cura e lo appoggia allo schienale di una sedia, dove si siede.
INA – Ma non le pulizie di casa mia , quelle le lascio quando resta tempo. Le pulizie con l’impresa!
All’ora che prendono servizio gli impiegati, già siamo passate noi: tutto pulito!
E’ un impresa importante la mia, pagano pure bene.
Però il lavoro è duro, gli orari sono brutti, quando mai mangio a casa con i miei figli?
Come dice signora? Certo che io il caffè me lo piglio al bar, dopo che sto a combattere tre ore con le cicche schifose degli uffici… Ma lei signora mia, il caffè se lo prepara con le mani sue, se lo beve nella sua poltrona comoda, e magari si guarda la televisione!...Ah! E no che non lo sapevo che sta a casa perché l’azienda ha chiuso… Cassa integrazione…Le donne so’ le prime, manca il lavoro…
Io per me, ringraziando Dio, per ora di lavoro ce n’ho perfino troppo. Però mi piacerebbe, delle volte, restare a casa, e sistemare, mettere tutto in ordine, fare da mangiare…
Per quanto poi, se vai a fare la spesa, ti tocca di comprare tutto già pronto, sennò che te lo dà il tempo? Noi una volta avevamo il podere, la roba la trovavi tutta lì.
E ogni giorno era mamma a fare da mangiare, che sembrava da ricchi, per come lei sapeva cucinare!...
Aveva imparato da ragazza, lei era stata cuoca nella villa dei signori del paese, che avevano un’azienda lì vicino.
Così le era rimasta questa voglia di far tutto perfetto, perfino nel servire, come li presentava i piatti!
La sapete la ricetta dei ravioli di patate come li faceva mamma mia? Avete ragione, non potete saperla, non ve l’ho detta ancora...Ma guarda, vi dò del voi!, come si usava dalla parti nostre quand’ero una bambina…sarà perché parlavo di mia madre…
Insomma lei lessava le patate e poi le schiacciava al passatutto.
Poi le immischiava con noce moscata e un sugo di salsiccia arrotolata, e questo sugo, poi lei lo metteva insieme a del formaggio, con le erbette e gli odori, e alla fine ci metteva il pomodoro.
Questo è il ripieno dei ravioli di patate. Dopo si fa la sfoglia e si formano i ravioli.
La pasta era fatta con le uova delle galline nostre; la farina era del grano del campo.
Poi lei faceva un sugo speciale.
Ci metteva manzo, ci metteva maiale, ci metteva del pollo. Tritava tutto e poi condiva quei ravioli quand’erano ben cotti e ben scolati.
Spargeva sopra del formaggio grattugiato, ed era pronto! Un piatto gustosissimo, non mangiavamo altro, ci serviva da primo e da secondo….
Lei signora le patate ce le mette, ma insieme alla carne triturata …Noi la carne la mettiamo nel sugo… Lei il sugo lo fa col pomodoro, il basilico e basta…E’ gustoso senz’altro, certo però non meno sostanzioso!...Vorrei rifarli, i ravioli di patate…E il pomodoro in bottiglia per il sugo. Ma a casa mia non ho spazio davvero…Non c’è manco un balcone. E non mi va di fare sporco in terra, che già in cucina non ci si rigira, e il pupo passa e porta le pedate per tutta casa. Sì, ho anche un ragazzino, ha sei anni soltanto, c’è una bella distanza dalla Rosa, ma è arrivato e me lo sono tenuto…
Ma io me stavo a ricordà come mamma faceva le bottiglie…
Dunque lei spezzava i pomodori, li metteva dentro alle bottiglie, chiudeva le bottiglie con la ceralacca e le bolliva nella conca del bucato. Una foglia di basilico per ogni bottiglia, ogni bottiglia la involtava in uno straccio e poi le sistemava tutte in piedi nella caldaia. Faceva tre o quattro bolliture di queste bottiglie, e poi le metteva in cantina, una accanto all’altra, sopra degli scaffali che aveva tirato su mio padre.
Erano bottiglie con il collo duro in cima, perché nel pigiare il tappo, il vetro non saltasse: quelle, anche a bollirle, non ti si rompevano…
Sibilo lacerante di sirena da autoambulanza. Ina sobbalza e si rialza di scatto dalla sedia.
INA- Oh Dio Rosa mia! Voglio vedere! Fatemi passare!
Ina di slancio fa alcuni passi. Poi torna alla sedia e vi si accascia.
INA – Ma no che faccio? Quando sento la sirena dell’ambulanza mi viene subito il pensiero della Rosa, che le sia capitato qualche cosa di brutto…Ogni volta che sento la sirena, ogni volta, è più forte di me. Perché signora? Non lo so…Come un presentimento…Ma adesso è qua, la figlia mia, ce l’hanno già portata, altro non può succedere… Perché sta qua, chiedete? Eh… che volete? E’ la vita…
Parole incomprensibili amplificate e distorte da un altoparlante. Ina si guarda intorno.
INA- Ah!, è il nome vostro questo che sta a gracchià l’altoparlante? Oddio vostro padre ve l’hanno trasferito al san Filippo e manco ve l’han detto! Adesso lo sapete!, dopo tutta una mattinata, che aspettate sperando di vederlo! Ah! Questa è verità, al San Filippo son più attrezzati per il cuore … La cardiochirurgia…ma almeno dirlo al figlio!
Quanto ce vuole ad andarce de qua? Che mezzi? E’ un viaggio!
Un viaggio proprio, caro mio!Un viaggio perlomeno di due ore.
Ce l’avete la macchina? E allora ci vogliono tre auti.
Ma si che ve li insegno, è capitato pure a me di andarci, quando una mia perente del paese s’era fatta mandare per le analisi.
Dunque, il primo auto passa da qua sotto, è comodissimo, il ventotto, lo sapete.
Col ventotto vi fate un pezzo della via Portuense, poi tutto il viale Trastevere, poi il corso Vittorio Emanuele, da lì almeno una volta ci passava…Come che sia ‘sto giro, a un certo punto vi trovate sulla piazza Cavour, lì non sbagliate proprio, perchè dovete scendere , è capolinea. Sulla piazza c’è il quarantanove , è un altr’ auto, che dovrebbe essere? Questo si fa piazza Risorgimento, poi quella via coi muri alti e spessi …”mura del Vaticano”proprio quella !...poi un tratto dell’Aurelia, che sarebbe una bellezza a passarci con quegli alberi grandi che ci stanno, ma pare un finimondo per il traffico.
L’auto però scappa via veloce perché è grosso e passa avanti a tutti e alla fine si fa la via Boccea.
Piazza Capecelatro:lì scendete. Ma non siete arrivato.
Sulla piazza vi prendete il duecentoquarantasette: questo poi è disgraziato perché parte a orario, - si fa per dire- parte ogni mezz’ora pressappoco. ‘Sto duecentoquarantasette infila per un tratto Torrevecchia, poi una strada che non mi ricordo com’è il nome, e sbuca sulla piazza Millesimo: lì scendete, vi trovate di fronte due strade, voi prendete la strada sulla destra, perché dritto dopo un po’ ci sta Casal del Marmo, dove mettono chiusi i ragazzi per correggerli.
Voi invece andate a destra e dopo poco finalmente arrivate all’ospedale…
Andate subito e sperate di trovare gli aiuti, sennò è un macello, non vi fanno più entrare perché è passata l’ora.
Ma che mi ringraziate!, pensate a fare presto!...
Ina si abbandona sulla sedia.
INA - Ah fatemi riposare un poco, anch’io sto sempre a correre…
E di autobus ne ho già presi più d’uno stamattina…
Ina si rassetta i capelli, si sprimaccia l’abito.
INA- A me piacerebbe invece, qualche volta, che so...andà dal parrucchiere, farmi ‘na bella piega…o cucirmi un vestito a casa mia.
Lei signora ci ha una maglietta che è un amore, una lana!, un disegno!...Se l’è fatta da lei?
Ah! “Benetton!”E’ una marca di gran moda, l’ho sentita pure io…E’ fortunata, che può comprarsela una cosa bella, se le piace.
Io sapevo fare tate cose, in famiglia si usava…
Si adoperava addirittura il fuso, a casa mia, s’era ripreso negli anni della guerra…
Noi prendevamo la lana dai guanciali… quella dei materassi, era tutta a fiocconi, l’avevamo comprata dalla montagna, dove c’erano le pecore, che poi si tosavano…
Come le facevano correre giù fino al fiume, a lavare, prima che si tosassero!
Loro belavano e si davano spintoni, sembravano delle persone che vanno a prender l’auto!...
Nell’acqua lo sporco più pesante se ne veniva via… Poi, fiocco per fiocco, passavano la lana per far uscire i bruscolini che ci stanno impigliati…
E non era la lana solamente che filavamo da noi.
Si ricamava, si cucinava. Passavamo tanto di quel tempo in questo modo! E quante cose si raccontavano, mentre lavoravamo! Gli incontri … le storie con i giovanotti…le speranze!...
Ina rivive intensamente il passato, tuffandosi in una parentesi che le cancella per poco l’angoscia del presente.
INA- Quando mi sono sposata, mia sorella mi ha preparato lei tutto il corredo…La sottoveste bianca, le mutandine che mettevano le ragazze quando andavano a sposarsi, con il gambaletto e il pizzo intorno, che faceva ricchezza, come un fiore…
Poi la camicia da notte, lunga fino ai piedi, di seta ricamata e bianca, e la vestaglia uguale: tutto lei, mia sorella, è stato il suo regalo…
E mi sono tenuta addosso tutto, quella notte, perché con mio marito ce ne eravamo andati fuori, per il viaggio di nozze. A Fiuggi, che mi ricordavo d’esserci stata quand’ero bambina, con tutti quei giardini colorati, e le fontane con lo zampillo in mezzo…
E mi piaceva ritornarci sposata.
Così, in quella pensione, in un giardino a Fiuggi, è stata la prima volta che ho dormito con mio marito.
Dormito proprio, sì, perché eravamo così stanchi, di tutto il trambusto di quei giorni…
E ho dormito vestita, perché lui diceva “ Non è come a casa da noi, può essere sporco”.
Quella doveva essere la nostra prima notte, ma io mi sono addormentata beatamente fra le sue braccia…
Eravamo anche tanto ingenui, e timidi, è stato bellissimo così.
Poi di tempo ce n’è stato per l’amore, e ne sono venuti i figli, e tutto il resto…
Ina si prende la testa fra le mani. Il ricordo dei figli le ha riproposto la realtà preoccupante de presente.
E’ la constatazione della durezza della situazione attuale che la fa ribellare, riportandola ancora al passato.
INA- E pensare che, fino a quando mi sono sposata, il mondo per me era tutto tra la casa e il paese.
Giusto la mamma se ne andava più lontano: una volta la settimana arrivava in città.
Lavava, sì.
Per le signore, che venivano a far la passeggiata di domenica.
Dove stavamo noi c’era tutto un ruscello, delle cascate fresche, insomma un’acqua così bella !...
E i nostri panni stesi sopra il prato…
Queste signore avevano chiesto a mamma se gli poteva lavare anche per loro, almeno le lenzuola e i capi grandi
Ina chiude gli occhi, quasi sorridente.
INA- Come faceva il bucato mia madre, me lo ricordo bene.
Tornava con i panni sporchi e li metteva in una vasca grande.
Li insaponava nell’acqua fredda , aveva un conca di coccio, grandissima, e ci metteva dentro, ben distesi, questi panni.
Poi a ogni strato ci buttava la liscivia. In cima alla conca stendeva un panno spesso e ci versava dentro quattro o cinque mestoli di questa cenere, che levava dal forno quando faceva il pane, e insieme ci metteva delle foglie di alloro.
Ah! Quel profumo! Mi par di risentirlo tanto era intenso!...
L’acqua lei la bolliva in una caldaia enorme, che metteva sopra un fuoco a legna.
Quando l’acqua era calda, la versava dentro a un catino – aveva un recipiente apposta, con il manico lungo- ; quest’acqua la prendeva volta a volta, quando sentiva che era alla temperatura al punto giusto…
Ina è come se risentisse le sensazioni di quel tempo.
INA – La cenere era asciutta, fine come una cipria…Certe volte ne prendevo un pugno, poi, piano piano, me lo facevo scorrere sul viso…era una sensazione fresca, molto bella…
Io seguivo ogni movimento che faceva mamma, mi piaceva guardarla, faceva un gesto e io già sapevo che cosa avrebbe fatto dopo.
Quando lei buttava l’acqua sulla cenere, quella cenere faceva da filtro…
Di sotto, questa conca aveva un buco, aprivi e ci scorreva quell’acqua che tu avevi versato dal di sopra.
Mamma continuava a prendere l’acqua di sotto e a buttarla di sopra, finché l’acqua non veniva calda dappertutto, perché i panni alla fine dovevano restare tutti nell’acqua a bollore. Lei poi lasciava ogni cosa così, e il giorno dopo sciacquava i panni nell’acqua corrente.
Tutto il risciacquo si faceva a mani nude, anche d’ inverno. Delle volte c’era il ghiaccio, delle volte la neve, mia madre stava sempre lì, a questo lavatoio, e lavava. Se pioveva, allora il fuoco lo faceva in cucina. Per stendere poi questo bucato, mamma tirava dei fili per tutta l’aia fino ai campi…
Noi bambini ci giocavamo in mezzo, qui lenzuoloni ci servivano a nasconderci…
Correvamo dentro e fuori da quella roba stesa… Quand’era asciutto, aiutavamo mamma a ripiegare. Ogni pezzo, ben ben ripiegato, lei lo chiudeva dentro i sacchi. Ad ogni pezzo si metteva un filo. Rosa, giallino, un filino celeste, un altro verde che pareva erba, oppure rosso, ogni colore un sacco: di chi erano i panni, la mamma lo sapeva dal colore del filo.
Poi metteva i sacchi sul carro e portava in città.
Delle volte, scherzando con mio padre, diceva “io guadagno più di te!”
Ogni giorno della settimana me lo ricordo con i tempi del bucato.
Martedì mia madre insaponava e metteva nella conca. Mercoledì finiva con i pezzi più piccolini e delicati che restavano sopra. Bolliva il giovedì, e venerdì sciacquava e stendeva ad asciugare. Sabato i panni erano già tutti ripiegati, e la domenica riposavano nei sacchi per fare il viaggio il lunedì sul carro. Mamma lavorava sodo, ma ci teneva d’occhio a tutti quanti. A me magari faceva lavare i fazzoletti, oppure mi dava dei piccoli cenci strappati e diceva “ Stai li”…
Ina torna bruscamente alla realtà.
INA –Certo, mia figlia, finché era una bambina, me la portavo dietro. E anche l’altro, il più piccolo, lo tenevo con me. Dormiva dentro a una cesta , nessuno se ne accorgeva che me lo trascinavo appresso. Ma un bambino che ha bisogno di correre, che vuole giocare, come te lo tieni, mentre tu pulisci i cessi degli uffici? E che ricordo può avere, lui, di sua madre che lavora?
Dei suoi gesti, dei posti, degli odori?...
Ah, la signora fa la commessa. E anche lei, per tutta la giornata, i figli non può averli vicino…Voi due tenete una drogheria… Tutti e due dovete starci, è naturale, la signora al banco, e il marito porta la roba nelle case…Quanti ne avete? Due: la ragazza di sedici… e diciannove il maschio… Un’età brutta. Una volta non avrei detto così, ma adesso ve lo dico, il perché lo so io…Un’età come quel ragazzo laggiù, che si avvicina a tutti e gli chiede qualcosa. Che dice quel ragazzo? Fatemelo sentire…
(Ina si alza dalla sedia, e fa alcuni passi avanti, nello sforzo di percepire le parole appena mormorate di un ragazzo lontano, tra la gente della sconfinata sala d’aspetto di ospedale in cui si trova).
INA – Dice che non ha i soldi per il biglietto del treno…che lui deve tornare dalla famiglia a Napoli… Dice che ha fame… che gli servono soldi per un panino… Dice che ha sua madre malata e non ha denaro per comperare delle medicine… Io lo so che cos’è quel ragazzo…
L’ho capito da com’è pallido e magro…
dagli occhi che sono lucidi… dalle mani che tremano… So che quello che chiede non è quello che vuole…No! Non dategli niente!
Quei soldi lui li vuole per ammazzarsi ancora un poco!
Io lo so! Non dategli quei soldi!
Non dateglieli anche se può sembrarvi crudele!
Non sapete quanto mi costa dire quanto dico.
Non sapete quello che ho patito io per avere il coraggio di parlarvi così!
Lo so io quanto ho patito!... lo so io…lo so io..
Ina torna alla sedia e vi si abbandona tenendosi il capo fra le mani. L’ambiente intorno ne riprende l’attenzione.
INA – Eh? Che volete? Se ho un gettone?
Si forse, ce ne ho sempre nelle tasche… Come farei sennò a chiamar casa dagli uffici, quelli ci mettono i lucchetti nei telefoni loro, non si fidano quando vanno via…E io scendo alla cabina, che m’importa? Io mi organizzo…
Ina si fruga nelle tasche, alla ricerca del gettone.
INA – E si che è proprio tardi… Tardi si, signora mia, e se la donna che v’aiuta se ne va a quest’ora, state tranquilla che non v’aspetta, ci avrà pure lei i figli suoi da andare a prendere… Oddio, e mio figlio? Chi lo va a ritirare dalla scuola?
Ina si alza dalla sedia, e va verso il fondo del palcoscenico.
INA – Chiamo Rosaria, è la bidella, un’amica mia, e le dico di pensarci lei. Ecco il gettone io ve lo regalo, però mi fate fare la chiamata a me per prima sennò passa l’orario, la scuola chiude e io che faccio?
Ina telefona.
INA – Rosaria meno male che t’ho ancora trovato. Si so’ Ina. Eh! Sono all’ospedale. Per Rosa si..
‘Na volta o l’altra doveva capitare, ancora non so niente… Speriamo in Dio… Leandro mio sta lì? Meno male che tu eri di servizio, l’ultima ora non gliel’hanno fatta perché l’insegnante se n’è andata? E quelle povere creature che hanno fatto? Giocavano in cortile? Con ‘sto freddo? Tientelo tu Leandro, per piacere, appena torno me lo vengo a prendere. Mi raccomando, sai che è delicato, preparagli la fettina col vapore, eppoi le vitamine… c’è il tubetto nel cestino della merenda che gli ho dato io…
Fagli fa’ il riposino che poi vengo…
Ti saluto Rosaria, e tante grazie!
Ina torna alla sedia, vi si siede e si guarda intorno.
INA - E mia figlia che fa?
Ma perchè vi dovrei dire proprio tutto!
Vi ho già raccontato tante cose della mia vita, a voi che in fondo non m’avete detto niente.
Questo è vero, che so’ io la prima che me metto a parla’! Ma ci ho una voglia, delle volte, di sfogarmi...
Perché tutte quelle ore, di lavoro a sfregare, non è che uno scambi parola con qualcuno…
Poi a casa chi trovi? Si, Leandro mio, ma è piccolino…E mia figlia? Mia figlia a casa…
Ina ride.
…ci viene a farsi il bagno, quando le conviene… a cambiarsi il vestito quando è zozza…
A mangiare quando non ha soldi…
Un bagno pubblico, ecco che è diventata casa mia. Un ristorante. Un albergo dove c’è una serva. Nient’altro. Si. E’ così. E’ inutile che vi inventi scuse.
Ina urla.
INA – Si. Mia figlia si buca!
Io sono qui per questo.
Un’altra volta si è sentita male, per la strada.
E’ cascata dentro ‘na pozzanghera dietro a un benzinaro, è rimasta lì per ore e ore. Poi della gente l’ha tirata su, me l’han portata a casa in piena notte, era tutta una piaga nelle vene.
Che posso dirgli, a Rosa mia?
Che non deve bucarsi? Son parole, non servono.
E non è certo un gioco, ormai, per lei, bucarsi…
Anche se forse, al principio, è stato un gioco…
Io di tutto ho provato, per farla uscire fuori.
Regali, quello che potevo le compravo.
Ma niente, era peggio di prima.
E i soldi le sparivano. Rubava.
Io lo sapevo, ma non volevo ammetterlo.
Lei negava, io mi sforzavo di crederle.
Mi diceva che s’era perduta il portafogli, e io le credevo…
Poi le avevano scippato l’orologio… Poi le han preso la Vespa, che le serviva per andare a scuola. Perché Rosa studiava, faceva le magistrali, e quella Vespa gliela avevo comperata perché potesse alzarsi un pochino più tardi la mattina…Da quel giorno che la vespa è sparita, Rosa alla scuola non ha voluto andarci più.
Restava a casa, sdraiata sul divano.
Un periodo guardava la televisione, poi c’erano soltanto più le cassette della musica con i cantanti che vanno di moda…
Lei si metteva la cuffia, ascoltava da sola, di fuori non si sentiva niente… Certe volte io non sapevo nemmeno dove stava Rosa mia, perché magari era distesa dietro il tavolo… con quella cuffia nera, zitta zitta… solo ogni tanto, clic, cambiava la cassetta e continuava ad ascoltare quella musica, in silenzio… Poi una sera torno dal lavoro, lei era tutta sottosopra, m’ha raccontato che c’erano stati i ladri in casa, s’erano presi tutta la roba di valore, lo stereo, la macchina fotografica… solo la televisione non se l’erano pigliata, mentre invece s’eran portati via l’unico anello che m’aveva regalato mio marito per il fidanzamento, con un topazio giallo tutto a spicchi tenuto su da quattro graffe d’oro.
I cassetti, li avevan rovesciati… la roba stava a terra…perfino l’armadio di cucina, giù, sul pavimento con tutte le padelle, come a sfregio… un macello davvero… e uno spavento!
E anche quella volta lì, ho creduto.
Ma come potevo immaginare che una figlia volesse dare tanto dolore a sua madre? E perché poi? Perché? Ma il dispiacere forte, l’ho provato un’altra volta. Mi stavo a fare il bagno, una giornata bella di sole, una domenica tranquilla, che mi riposavo finalmente. E mi tolgo la collana di perle vere – son perline, ma autentiche – che era di mamma e la portavo sempre, come ricordo suo. La metto lì, sul tavolo in cucina. E me ne vado al bagno. Il mio primo pensiero, dopo che m’ero asciugata, automatico, è stato di rimettere le perle. Ma non c’erano più! Nun ce stavano! E il posto preciso me lo ricordavo, dove le avevo messe. Rosa era sdraiata dietro il tavolo, con la sua cuffia, non s’era mossa mai. Le ho detto che le perle eran sparite. Lei ha alzato le spalle, m’ha guardato brutto, s’era offesa come se avessi detto che era lei. Poi ha fatto un cenno verso il gatto di casa, poteva essere che se l’era prese lui. A quella bestia poveraccia l’ho perfino ribaltata, ma so’ rimasta come una stupida, non sapevo che pensa’, che fare… La collana mi arrivava dalla mamma mia. Era la dote per i tempi neri, perché in quegli anni le contadine, quando arrivava la carestia, impegnavano gioielli per far fronte alla miseria. E la padrona di mia madre, quando lei era a servizio come cuoca, le aveva fatto la collana. Era una collana a cinque fili. Io e la mia sorella s’e diviso alla sua morte. Due li ho presi io, quelli più lunghi, e i tre più corti li ha tenuti la Lina. Quando le cameriere si sposavano, a quei tempi, i padroni gli facevano anche il corredo della biancheria. La signora l’aveva fatta ricamare alle contadine. C’erano le sue cifre, tutte arzigogolate, sull’asciugamano che poi andava con un fiocco di seta sul lavabo, nella camera della sposa. E le federe uguali… e il lenzuolo… quello buono, che si metteva quando venivano al mondo i figli: nel giorno che una partoriva, le cambiavano il letto e le mettevano questa bella biancheria ricamata, perché il vicinato andava a farle visita.
Io quelle lenzuola le avevo avute da mia madre, e le tenevo in una cassapanca, piegate e chiuse. E’ un’usanza, da noi, di passarsi di madre in figlia queste lenzuola ricamate, da usare solo nelle grandi ricorrenze della famiglia. Io le avevo messe nel mio letto quand’era nata Rosa, e dopo un’altra volta, quand’era stato il turno di Leandro… Da anni poi eran rimaste lì. Ogni tanto io le tiravo fuori… mi piaceva guardarle, le lavavo qualche volta perché non rimanesse quel segno giallo che viene nella piega quando la tela è buona e per troppo tempo rimane chiusa non adoperata. Ma un giorno che volevo riguardarmele, le lenzuola non le ho trovate più, eran sparite assieme alle federe, non c’era neppur più l’asciugamano ricamato. Era rimasto il fiocco di seta rosa, tra la carta strappata, sul fondo della cassa…
Ina si lascia andare sullo schienale della sedia, sfinita.
INA – Da quel giorno ho cominciato a pensare che mia figlia doveva entrarci, quando spariva la roba dalla casa. Ma lei, niente. Rideva. Oppure si arrabbiava. Mi insultava, diceva che la offendevo a pensare che la ladra poteva essere lei. Addosso, lei portava sempre gli stessi jeans, e due o tre magliette colorate, non spendeva quasi niente per vestire, mangiare mangiava a casa: e allora, che poteva farci, con tutti quei soldi? No, non era lei, pensavo, non poteva esser lei. E poi, perché?
Ma un giorno, ho dovuto accettare. Una mattina, faceva ancora scuro, io esco presto, per l’orario mio, la sera non l’avevo vista entrare, e volevo aspettarla, ma era stata più forte la stanchezza, e m’ero addormentata sul divano. Appena ha fatto luce, sono andata a vedere nella stanzina sua, se lei dormiva, ma non c’era… Stava lì, tra i lenzuoli, soltanto l’orsacchiotto che di notte lei tien stretto, fin da quando era bambina. E Rosa mia dov’era? Me so’ sentita male. Vado al bagno e me la trovo a terra pallida, una morta. E sangue dappertutto. Nel lavabo. Sulle piastrelle. E a terra intorno a lei. La scuoto. Grido “Rosa che è stato? Che ti senti figlia mia?” Lei gemeva, ma gli occhi erano chiusi, pareva che dormisse e non reagiva. Quella mattina al lavoro non ci sono andata. Rosa è rimasta in quello stato per ore ed ore. Poi ha preso un po’ di vita, ma non voleva che chiamavo nessuno, piangeva e si arrabbiava se insistevo che volevo chiamare il medico, qualcuno… Sono uscita poi tardi, per andare a comprare qualche cosa per darle da mangiare anche se lei in quel suo dormiveglia diceva che non voleva niente. Appena una corsa giù al mercato, che ai banchi mi conoscono che ho sempre fretta, e son tornata su. Ma lei era sparita. E lì per terra, al posto suo, una siringa da iniezione, e altra roba che non capivo perché stava dentro al bagno, una striscia di gomma,il cucchiaino della colazione e dei vetri di fiala tutti in briciole… Era così evidente. Ma mia figlia drogata io non volevo ammetterlo, era più forte di me, e mi imbrogliavo da me stessa, inventavo le scuse più incredibili, mi vergognavo, questo era il punto. Mi vergognavo, sì, che mia figlia si bucava. E non sapevo da che parte prendere. Quella volta Rosetta non l’ho vista per tre giorni. Io il lavoro l’avevo poi ripreso, ma con che cuore potete figurarvelo. E’ tornata, una sera. Sporca, strappata. S’è buttata al letto. Me la son presa tra le braccia, come quando era piccola piccola. Lei non mi voleva. Ma s’era attaccata a me e singhiozzava. Gridava che non voleva vivere, che non ce la faceva più a resistere. Io non capivo quello che diceva, ero soltanto disperata e basta. Poi son venuti a prenderla. Era la Polizia. Aveva scippato - dice - una signora, le avevano trovato la borsetta. Quella volta sono andata al carcere. L’ho guardata negli occhi, poi le ho detto: “A questo punto, figlia?”. Lei stava zitta, poi s’è messa a gridare. Bestemmiava. Si scuoteva tutta dai singhiozzi. Tremava. Era verde. “Che fate? – io dicevo alle guardie che mi stavano intorno – La lasciate così? Sta male. Vi scongiuro aiutatemi. E’ figlia mia, chiedetemi qualunque cosa, ma sta male, aiutatela!”. Quelli ridevano, si strizzavano l’occhio tra di loro. Rosa gridava “Muoio”. La voce tutt’a un tratto le si era fatta fine, appena appena la potevo sentire… Mi chiedeva qualcosa io non capivo. “Una dose…” diceva. E io, il mattino appresso, gliel’ho portata, chè sennò moriva.
Ina chiude gli occhi per la sofferenza del ricordo rievocato.
INA – Lo so signora l’ho capito dopo, che gli davo la morte anch’io, in quel modo. Ma l’affetto a noi madri porta a fare cose pazze alle volte, se non ci si ragiona… E io pensavo solamente a darle quello che lei chiedeva, anche la dose, per compensarla che non stavo con lei… E’ stata quella volta sola, ve lo giuro, poi ma più, e mai più lo rifarei. Perché, credetemi, con quella polverina, non c’è più la persona che ragiona. Tu ti ritrovi una creatura che tu non la conosci. Non c’è niente in quella faccia, di tua figlia. Ha fatto pochi giorni, la mia Rosa. Poi è uscita. Perché la signora della borsa – che la Polizia l’aveva ritrovata, per via dei documenti -, è stata proprio na’ signora buona. Quando ha visto la Rosa, ha avuto pena, la borsa ha detto che l’aveva perduta, che Dio la benedica. Rosetta mia è tornata ch’era peggio di prima. Perché in prigione ‘sti ragazzi cadono disperati, e si bucano anche più che fuori. Come fanno? No, non son sempre le madri, a portare la droga ai loro figli, non mi guardate a me per accusarmi, io ve l’ho voluto di’ il peccato mio, ma non è quello il punto!... E’ in prigione che ci stanno i peggio spacciatori, perché il ragazzo in prigione è isolato, è più solo che fuori, e allora fa di tutto, pur di avere la “roba”.
Ina grida, in preda ad una disperazione atroce.
INA - Non mi fate ricordare! Non voglio raccontarti quello che ho poi saputo, dalla bocca della figlia mia. Me l’ha gridato in faccia, per rabbia, per vendetta, non lo sapeva nemmeno lei perché, le cose che ha accettato pur di avere la roba… Certe volte me prende ‘na sfiducia, di questo mondo nostro che io speravo più bello della campagna, e invece come vorrei tornare indietro, con mia madre che canta mentre stende il bucato… Anche allora, e prima ancora, di cose brutte ce ne stavano eccome. In campagna, ai tempi di mia nonna, se nascevano storpi, i ragazzini si facevano morire. Lo sapevate? No? Eran le donne a decidere queste cose, agli uomini dicevano poi che il bambino
era nato già morto. Uno che nasceva sciancato, come campava poi se manco poteva lavorare il campo? Ecco, in questo il nostro mondo è meglio, perché quante cure, quante, a quelli che sono – come si dice? – indicappati, e le scuole per loro, e la pensione, e le maestre specialiste… Ho visto un bel film alla tivvù, saran state le undici passate e tutti stavano già a dormire, ma era proprio bello quel servizio, c’era ‘na ragazza a intervistare che sapeva ‘ste cose, pareva che se volevano così bene, andava tutto liscio…Ah! lei, signora, un figlio indicappato ce l’ha ma se lo tiene a casa, a scuola i compagni lo disprezzano, e la maestra che doveva starci appresso, ancora dal ministero non ce l’hanno mandata… Ma com’è, non c’è una scuola apposita? Ah c’era, e adesso non c’è più perchè hanno detto che era meglio metterli tutti assieme, i normali e quelli coi problemi. Certo è un’idea giusta, questo è vero. Ma dal dire al fare, ce ne passa, signora mia, si, purtroppo è così… Così è stato per la figlia mia. Ho smesso di aspettare che qualcuno da fuori mi aiutasse. Mi son presa un mese di permesso. Certo non mi pagavano, ma il padrone ha accettato, gli ho detto che mia figlia stava male e dovevo curarla. L’ho portata in campagna, c’era rimasta mia sorella nella casa di quando ero bambina. E lì stavamo un po’ cominciando a venirne a capo di ‘sta storia. Si, in compagnia ci siamo parlate, finalmente, con mia figlia. Gli ero mancata io! Le avevo dato da mangiare e vestiti, giochi, dischi, ma non avevo capito quanto bisogno aveva che l’ascoltassi, e parlassi con lei. Soltanto allora mi rendevo conto di quanto eravamo state lontane tra noi, anche se abitavamo nello stesso tetto!...
Eh! Quei giorni in campagna sono stati già un momento bello.
Ina si perde in quel ricordo, nuovamente lontano rispetto alla angoscia del presente. Poi avverte di
nuovo le persone intorno a lei.
INA – Anche lei ,signora, ha una nipote che si buca?... E le ha provate tutte, ci ricasca ogni volta… Anche mia figlia aveva preso il metadone, ma non è servito a niente….. Rosa mia se lo beveva per tenersi un po’ su, altro che smettere, così trovava la forza di andare a cercasi la “roba” buona… Una volta l’avevo anche messa in una clinica. E mi costava, ma speravo nel miracolo. Lì le facevano fare la cura del sonno. Lei sembrava rifiorita in quel periodo, mangiava, e dormiva solamente, la tenevano sempre in una stanza, ma quando l’hanno fatta uscire, quella sera ch’era tornata a casa è andata a bucarsi un’altra volta, non era cambiato niente, e restava il problema. Anche voi la stessa cosa? La clinica… La cura del sonno… Ah! Lei ha provato lo psicanalista… perché c’è una sorella che si buca… quante storie mio Dio, son tutte uguali… Quanti dolori…. quanti….Io mi sentivo in colpa perché mia figlia si drogava… Ma poi ho riflettuto… Che colpa era la mia? Era che non capivo, questo si…
Ina si abbandona sullo schienale della sedia, gli occhi perduti lontano.
INA – Ah! Potessi tornare indietro! Per starti vicino… Per farti capire tutto quello che avevo sempre avuto dentro, per te!... Io, nei miei limiti, nel mio possibile, ti ero vicino… Però hai ragione tu… Perché anch’io, forse, avrei sentito così, se mia madre fosse stata con me come son stata io con te. Un momento in campagna ci era stato in cui cominciavamo a capirci. Ma poi tutto è tornato come prima. Troppo poco quel tempo, per darti l’affetto, per darti l’attenzione che non ti avevo dato in tanti anni. Anche voi… come me… Anche voi… per un figlio…il fidanzato… una cugina… un amico… la sorella… vostra figlia, signora, come me…
Ina si guarda intorno, scoprendo quante persone stanno vivendo nella sua stessa situazione.
Rumore di altoparlante che amplifica parole distorte.
INA – Oh! Ma cosè? Hanno detto il mio nome?! Zitti per piacere! Reparto animazione? Forse ha ripreso conoscenza… O sta peggio e non c’è più niente da fare… Oddio no…Rosetta aspettami!
Ina si alza dalla sedia, corre tornando verso la direzione da cui era venuta all’inizio.
INA – Aspettami Rosetta! Io lo so! Ce la fai! Rosetta aspettami! Forza Rosetta!
La voce si affievolisce nella lontananza
FINE