Titolo: "Arnaldo Ninchi - La passione teatrale"
Autore: Maricla Boggio,
Editore: Metauro, 2016
Copertina
Intervento di Anna Ossani alla presentazione del Libro al Festival di Pesaro
Favola di un uomo che ha abitato una nuvola di Matteo Giardini
Recensione di Enrico Bernard
Leggendo l'appassionante racconto biografico di
Maricla Boggio dedicato all'indimenticabile
interprete Arnaldo Ninchi scomparso nel 2013 mi è
venuta in mente una frase del Wilhelm Meister di
Goethe: posso perdonare all'attore gli errori dell'uomo, ma
non si possono perdonare all'uomo gli errori dell'attore.
Non si tratta di una semplice citazione letteraria. Il
romanzo di Goethe è la cartina di tornasole della "condizione
umana e teatrale" del giovane di ogni tempo
combattuto tra il dover essere, come lo si vuol far
socialmente diventare e l'essere come lui vorrebbe essere:
si tratta insomma dell'eterna lotta tra l'aspirazione
alla libertà e alla realizzazione individuale e l'inquadramento
in un rigido ordine sociale regolato e codificato.
Non intendo ovviamente proporre paragoni fuori
luogo tra la snella e godibile opera biografica e letteraria
di Maricla Boggio - insisto su questo aspetto
del libro che si dipana come una vera e propria narrazione
teatrale - e il capolavoro del Genio di Weimar.
Tuttavia non si può non constatare la capacità di
trarre da una storia di vita artistica, senz'altro notevole
ma non universale, un ricamo psicologico e narrativo
molto efficace. Un ritratto che si discosta dunque
dall'elencazione biografica, ancor di più dalla tentazione
agiografica sempre in agguato in questo tipo di
opere, per assumere una valenza letteraria di spessore:
una qualità non di poco conto quella di far rivivere
una figura reale come se fosse un personaggio quasi
romanzesco così da attribuirgli una potenza di
suggestione e di carisma non indifferente. A partire
dall'incipit, molto efficace, dedicato alla vocazione
teatrale del giovane attore che comincia a percepire il
richiamo, il "vizio assurdo" del palcoscenico.
Corpo e voce facevano di Arnaldo Ninchi ragazzo un
esemplare classico al di fuori del tempo, e perciò libero dalle
mode. Per il volto, che ricordava le statue greche, per la fisicità
che senza faticose esercitazioni suggeriva la pratica delle arti da
stadio. Nel paesino marchigiano della sua fanciullezza – Pennabilli
– si respirava dappertutto la passione per lo sport; lui
se ne nutriva come di un carattere che apparteneva alla sua
natura. Ma in casa e quasi segretamente, come una sostanza
avvelenante e preziosa, tentatrice come tutto quanto è proibito,
aleggiava il teatro, e il ragazzino ne avvertiva il fascino.
Ecco dunque emergere l'elemento comune che -
al di là del valore di due opere distanti nel tempo e
nello spessore - accomuna questo delicato ritratto di
Ninchi al maestoso Werk (opera complessiva) goethiano:
il tema del fascino del teatro. Si delinea così la figura
di un giovane Ninchi che, spiazzando i familiari, si
tuffa nel vortice della passione artistica come Guglielmo
Meister, il ragazzo ancora in formazione che sfida
il padre che lo vuole piuttosto commerciante borghese. Senonché, a differenza del personaggio goethiano, qui sta la differenza, Ninchi riesce a trasformare davvero, non senza rinunce e sacrifici che lo fortificano e lo nobilitano, la passione per l’arte drammatica in mestiere perfettamente compiuto.
Va da sè che i due destini, quello di Ninchi e quello di Meister, si dividano inesorabilmente. Del resto l’intento di Goethe è quello di dimostrare che dalla passione si può guarire, che la vita insegna a suon di legnate e che gli anni di noviziato teatrale sono in definitiva anni di formazione della personalità del giovane, il quale ha bisogno di questo sfogo dell’anima per non fare la fine del perdente suicida Werther che non sa rassegnarsi al proprio destino sociale.
Ebbene la Boggio ci narra una storia con finale diverso, con un diverso destino: non il suicidio o il ritorno all’ovile della tranquillità borghese, come Werther o Meister, bensì la completa realizzazione artistica di un giovane “comico” che vince la scommessa e si afferma realizzando le proprie aspirazioni. E’ una questione che suscita anche qualche curiosità poiché Ninchi non nasce in un ambiente ristretto e dedito alla quotidinità e al benessere, ma in una famiglia di attori, con l’esistenza professionale sempre un po’a rischio come svela la Boggio:
Annibale, suo padre, era un interprete autorevole nel fisico, nella voce e nel carattere imperioso. Le sue interpretazioni in teatro variavano con incredibile capacità di immedesimazione nei personaggi più differenti.
Perché allora la diffidenza iniziale verso la maturazione in Arnaldo di una vocazione divergente dagli interessi degli altri coetanei, lo sport e nella fattispecie il basket praticato fino alla convocazione in nazionale, e sempre più indirizzata al campo artistico? Dal racconto della Boggio si capisce che in famiglia si temesse una sorta di spirito emulativo e che alla base delle aspirazioni del ragazzo non sussistessero le condizioni psicologiche - lo vedevano come un allegro ragazzone tutto muscoli e vitamine - per sopportare la routine degli studi teatrali, l’impegno necessario ad una dedizione verso la tecnica e l’apprendimento, la necessaria disponibilità alla macerazione dell’identità per lo sviluppo del personaggio.
E qui torna utile tornare a parlare di Guglielmo Meister, il padre del quale è perfettamente cosciente del fatto che l’ambizione teatrale del figlio prima o poi scemerà di fronte alle difficoltà, alle miserie, alle delusioni e alle mille insidie del mestiere teatrale. Mentre Meister lentamente si riavvicina alla vita borghese, una volta dato sfogo alla passione (e a qualche amorino da carrozzone dei comici girovaghi), Arnaldo procederà invece imperterrito e vincente nel suo intento artistico con la foga e “cocciutaggine”, è un termine che rubo al libro della Boggio, non del giovane che subisce il “fascino” di una dimensione creativa e libertaria, come può apparire il teatro, ma di chi ha operato una definitiva scelta di vita e la persegue con disciplina e dedizione, costi quel che costi.
Gli aneddoti biografici si legano poi nel libro della Boggio ai numerosi brani di repertorio e ai testi della stessa autrice interpretati da Ninchi. La personalità dell’attore risulta così vivificata dai personaggi che lo hanno reso memorabile come documentato con cura dall’archivio fotografico in splendido bianco e nero che testimonia la vita artistica di un indimenticabile protagonista della scena italiana. La storia di questa famiglia d’arte drammatica del resto non s’interrompe alla fine della rappresentazione: il filo della famiglia Ninchi, la catena del sangue per usare un termine tratto dalla terminologia cara ai tragici, infatti prosegue il suo dipanarsi sul palcoscenico con... Arianna, figlia di Arnaldo Ninchi, attrice anche lei, come il padre e la madre.
Va da sé che il proposito della Boggio sia “di vivere qualche momento della vita di Arnaldo seguendo la traccia della parola che cerca di evocarlo”. Ma il quadro che ne esce alla fine è ben più ampio, si proietta nel futuro sull’esempio di un protagonista come stimolo a nuove generazioni teatrali.
Tornando alla frase iniziale di Goethe penso che questo libro, al di là dei rapporti di amicizia e collaborazione, risolva la questione apparentemente contraddittoria tra l’uomo e l’attore, l’essere e il suo doppio, indicando che la possibilità di errore da parte dell’uomo può essere annullata, esorcizzata dalla forza drammatica dell’attore che si carica sulle spalle - e catarticamente li redime - tutti gli errori dei suoi personaggi umani.