Ci furono un tempo grandi rivoluzioni senza le quali oggi non potremmo parlare di Danton e Robespierre, né di “ottobri” e “primavere”. Sono quelle insurrezioni del pensiero le quali, avendo intralciato il cammino del Cattolicesimo, conosciamo col nome spinoso di eresie.
Questo termine dal sapore antico, racconta di un interminabile e sanguinoso elenco (Catari, Albigesi, Valdesi...) di individui e comunità di uomini che persero la libertà e la vita per affermare le proprie credenze religiose e l’autonomia delle loro convinzioni.
Non si può apprezzare appieno il sobrio allestimento di “Abelardo Eloisa Eloim - storia d’amore e teologia”, messo in scena nella piazza del Carmine, senza volgere lo sguardo agli abusi del “potere spirituale”, per i quali recentemente lo stesso Pontefice, Karol Wojtyla, ha recitato un sentito “mea culpa” in nome della Chiesa.
Lo spettacolo scritto da Maricla Boggio e diretto da Massimiliano Farau, ripercorre poeticamente le traversie dell’autore di “Scito te ipsum”, riuscendo a trarsi fuori dalle secche di un temibile “teatro filosofico”. Il fascino intramontabile di Abelardo quale “primo intellettuale moderno” e paladino della ragione umana, va di pari passo con la sua vicenda sentimentale, tramandataci dallo scambio epistolare con la dolce Eloisa.
Una coppia straordinaria i cui patimenti da sempre appassionano scrittori e poeti (Pope, Moore, Paêr, Litolff, etc.) e, neanche a dirlo, la stessa Boggio, la quale già nel 1980 scelse una lettera d’amore da inserire nel prezioso volumetto “La monaca portoghese”.
Facendo tesoro della suggestiva piazzetta taorminese, da cui ricava una giusta atmosfera claustrale ( ad esempio, i gradini sopravvissuti fra i ruderi della villa divengono un inginocchiatoio), la regia asseconda le intenzioni del testo, in cui le vere azioni, come in una tragedia di Euripide, sono proiettate sul pubblico dalla limpida narrazione.
Abelardo ( per l’intensa interpretazione di Gabriele Parrillo) maestro di logica e teologia a Parigi, si abbandona alla passione per la brillante allieva sedicenne Eloisa ( un’ottima Laura Mazzi). Nato dalla loro segreta unione un figlio, Astrolabio, il potente zio della fanciulla, il canonico Fulberto, si oppone a tal punto alla loro relazione da fare evirare Abelardo assoldando dei sicari ( un “particolare” cui stranamente in questa rappresentazione non viene dato il necessario risalto).
Di lì a poco, entrambi gli amanti intraprenderanno la via del convento, ma la loro esistenza riserverà ancora infinite tribolazioni. Lei, per sempre “schiava” del compagno perduto, lo inseguirà con le sue lettere in cui confessa di aver preso il velo più per amore dell’uomo che di Dio ( Eloim, appunto). Lui, trovata come unico conforto la dedizione mistica, avvia quella speculazione dialettica che, mettendo in discussione i dogmi dei padri della Chiesa, gli procurerà processi infamanti: i suoi scritti più d’una volta saranno destinati al rogo.
In scena i suoi accaniti avversari sono rappresentati dal più battagliero, quel San Bernardo ( Domenico Galasso è perfetto anche nell’aspetto) che trascinerà il “blasfemo” sul banco degli imputati nel Concilio di Soissons (1121) e di Sens (1141). Ma c’è anche Pietro il Venerabile ( un convincente Luigi Saravo) il quale accogliendo a Cluny l’artefice della “quaestio”, diviene il testimone dei suoi ultimi mesi di vita, trascorsi nel silenzio e nell’isolamento a cui il papa lo aveva condannato.
I quattro giovani e bravissimi attori, grazie anche alle musiche suggestive di Marco Schiavoni (ritagliate tra le note appropriate dei canti gregoriani), riescono a suscitare l’attenzione degli spettatori, i quali, dopo un inizio alquanto chiassoso, hanno seguito in silenzio... religioso, tributando calorosi e lunghi applausi.