PERSONAGGI in ordine di apparizione
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Arin, una ragazza del Popolo uno
Il Giudice, un uomo del Popolo due
La Divinità, una creatura fluttuante di veli
Issam, un giovane del Popolo uno
Messaggero Lacero del Popolo uno
Messaggero Militare del Popolo due
Un Padre del Popolo uno
Un Figlio del Popolo uno
Ragazzo Fantasma del Popolo uno
Ragazza Salvata del Popolo uno
Punkabestia
Il Generale Is del Popolo due
Madre del Popolo uno
Fidanzato del Popolo uno
Soldato Ab del Popolo due
Nonno del Popolo uno
Uomo Luminoso del Popolo due
Cieco del Popolo due
Donna con Fazzoletto, del Popolo uno
Donna con Cappello, del Popolo due
L'Oggetto, di non si sa di quale Popolo

del POPOLO UNO
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Arin, una ragazza; Issam, un giovane; Messaggero Lacero; Un Padre; Un Figlio; Ragazzo Fantasma; Ragazza Salvata; Madre; Fidanzato; Nonno; Donna con Fazzoletto: 4 donne, 6 uomini.

del POPOLO DUE
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Il Giudice, Messaggero Militare; il Generale Is; Soldato Ab; Uomo Luminoso; Cieco; Donna con Cappello: 1 donna, 6 uomini.

FUORI DAI POPOLI
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La Divinità, Punkabestia, l'Oggetto.

La scena
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Uno spazio bianco, ristretto a cella, con una porta e in alto una finestra; una sedia.
Lo spazio si dilata quando - dopo un buio - viene usato fuori dalla cella: è allora lo spazio al di là di essa che si mostra, con la porta che viene sentita come all'esterno della cella.
Lo spazio si dilata ancora quando appare la Divinità: una sorta di sala-tempio, in cui accoglie i personaggi che via via le si presentano a raccontare o a raccontarsi.

La contiguità degli spazi consente l'alonatura dei suoni, e talvolta la ripetizione alonata delle ultime frasi della battuta pronunciata da un personaggio a conclusione di una scena, dopo la quale se ne presenta un'altra nell'ambiente contiguo.

Il tempo
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E' un attuale scontornato da connotazioni e riferimenti riconducibili ad episodi precisi.
Tutto è già avvenuto e tutto ritorna ad avvenire.

I costumi
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Appartengono ad un'epoca immersa nell'arcaicità e nel contempo ultramoderna.

I personaggi e lo sviluppo drammaturgico
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Non si fanno nomi, non si parteggia; centro del lavoro, la problematicità, non l'impossibilità di scelta, ma la constatazione che una scelta all'interno del dramma non viene fatta da nessun personaggio, di questa e di quella fazione e tuttavia occorre che essa si verifichi, prima o poi, se non si vuole arrivare all'annientamento.
La Divinità ha assunto questa connotazione perché lo esige il suo carattere di personaggio; sta a chi ha il compito della rappresentazione di specchiarvi il proprio referente.
Libertà e responsabilità emergono come assunto finale.

I - L' INTERROGATORIO
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La cella dalle pareti bianche, con una porta, e una finestra in alto.
Seduta su di una sedia, una ragazza molto giovane. Tiene gli occhi chiusi e il volto verso l'alto, le mani fluttuanti sopra il capo a percepire l'aria che viene da fuori.
La porta si apre ed entra un uomo di mezza età, aria pensosa, movimenti cauti.
L'uomo fa un segno deciso verso la porta - non vuole che entri nessuno - e la porta si richiude con uno scatto; al rumore la ragazza ferma il suo lento gestire e apre gli occhi.
I due rimangono in silenzio a guardarsi.

GIUDICE - Perché volevi commettere un attentato suicida contro di noi? Per odio?

ARIN - No.

GIUDICE - Allora perché?
Chi si fa saltare in aria lo decide
convinto di adempiere a quella che chiamate la vostra causa.

ARIN - Era... una questione personale.

GIUDICE - Una questione personale!?
Tu stavi per uccidere gente che non conoscevi.

ARIN - Io non ho fatto niente.

GIUDICE - Abbiamo saputo delle tue intenzioni.

ARIN - Tanti miei compagni si sono fatti saltare in aria.
E prima non lo avete saputo.

GIUDICE - Non sfidarmi. Tuoi compagni? Allora ammetti. Sei come loro.

ARIN - No. Ma sono miei compagni.

GIUDICE - I tuoi compagni sono furiosi contro di te.

ARIN - Quando ho voluto tornare indietro
mi hanno riaccompagnata con l'auto.
Rimangono i miei compagni. Anche se sono furiosi contro di me.

GIUDICE - Insomma, tu volevi farti saltare in aria.
Per qualcosa di tanto importante da perderci la vita.

ARIN - Il mio ragazzo. Un carro armato l'ha fatto a pezzi.

GIUDICE - C'è differenza dalle vostre azioni terroristiche. E' la guerra.
Dei soldati vanno contro degli altri soldati.

ARIN - I soldati di un carro armato non saltano in aria.
Se ne stanno dentro ben protetti.
E uccidono anche gente civile.

GIUDICE - I soldati conoscono l'obbiettivo che vanno a colpire.
Il terrorismo invece uccide senza sapere chi.

ARIN- Formule. Definizioni. Varianti linguistiche per la morte.

GIUDICE - Tu ti permetti di sentenziare?!
Tu che sei venuta in piena città a uccidere gente indifesa?!

ARIN - Io non l'ho fatto.

GIUDICE - Ma volevi!
Volevi uccidere degli innocenti per vendicare la morte del tuo ragazzo.

ARIN - Cosa volevo non lo so.
Mi sono sentita morta quando mi hanno detto che l'avevate ucciso.

GIUDICE - I soldati muoiono. Soldati contro soldati.

ARIN - Lui era uno studente. Stava camminando per la strada.
Aveva i libri sotto il braccio.
Li teneva ancora stretti quando l'hanno raccolto.
I compagni hanno giurato di vendicarlo.
Mi sono offerta io.

GIUDICE - E sei entrata nel terrorismo.

ARIN- E' stata una reazione immediata.
Non riuscivo a pensare di poter vivere senza di lui.

GIUDICE - Così hai deciso la fine di gente
che non aveva niente a che fare con te e con il tuo ragazzo.

ARIN - Poi non l'ho fatto.

GIUDICE - Sei arrivata alla decisione di uccidere.
La morte del tuo ragazzo: non hai pensato
che altre ragazze sarebbero rimaste sole come te?

ARIN - Non si pensa in quei momenti. Ho sentito soltanto il dolore.

GIUDICE - Poi però hai fatto la tua scelta.

ARIN - Ho agito d'impulso. Mi sono offerta. Un'ipotesi lontana, credevo. Ci vuole preparazione. Verifiche. Ti valutano. Se ce la puoi fare.
Tempi lunghi.

GIUDICE - Invece ti hanno chiamato subito. Perché?

ARIN - Non lo so. Altre rappresaglie. Forse.
Mi hanno dato poche indicazioni, ho fatto una prova.
Non potevo rifiutarmi.

GIUDICE - I tuoi compagni ti hanno portato fino al centro della città.
E ti hanno scaricata in mezzo alla gente. Dovevi farti saltare.

ARIN - Dovevo farlo.

GIUDICE - Ma non l'hai fatto. Perché?

ARIN - Non l'ho fatto! Non ti basta? Vuoi sapere perché.

GIUDICE - Voglio capire.

ARIN - Tu sei un popolo. Io un altro popolo.

Di nuovo i due si fissano in silenzio.
In Arin una sfida, nel Giudice la volontà di superare la barriera delle appartenenze.

GIUDICE - Da un momento all'altro hai cancellato il tuo progetto.
Ti guardo in faccia e sono certo che non ti sei tirata indietro
per salvarti la vita. Voglio sapere il perché.

ARIN - Dei bambini.

GIUDICE - Dei bambini?...

ARIN - Sull'orlo della strada. In uno spiazzo.
Alberi, un po' d'erba. Si tiravano una palla.

GIUDICE - Potevi non cambiare idea.

ARIN - Voi mi tenete prigioniera per quello che non ho fatto, i miei compagni sono furiosi contro di me, se mi avessero mi ucciderebbero!...

GIUDICE - Ho una figlia della tua età. Le somigli in qualcosa.
Forse è per quest'aria sfrontata che avete voi giovani.
Di sfidarci con lo sguardo in silenzio.
Lei potrebbe saltare in aria
per uno dei tuoi compagni che non ha cambiato idea.
Eppure tu le somigli.

ARIN - Io assomigliare a una ragazza che mangia cinque volte al giorno, ha un bagno personale e va oltreoceano a trovare i parenti?!

GIUDICE - Le somigli nella giovinezza.
Nell'amore che provate per qualcuno. Assoluto. Irragionevole.
Come genitori amiamo i nostri figli. Ma c'è un muro, tra noi e loro.

ARIN - I miei non sapevano. Della mia decisione.
Avevo lasciato un biglietto prima di andar via.

GIUDICE . Un biglietto?

ARIN - Di addio.

GIUDICE - Di solito quelli come te fanno feste di commiato
prima di partire per la loro impresa.
Le madri si fanno filmare accanto al figlio sorridenti per l'orgoglio
con il fucile tra le braccia.

ARIN - I miei non sapevano.

GIUDICE - Perché?

ARIN - Non sono certa che avrebbero approvato.
Ma adesso non so come mi giudicano.

GIUDICE - Non credi che avrebbero provato dolore se ti fossi uccisa?

ARIN - Quando si è in mezzo alla gente che soffre
non si pensa che a trovare un modo per porre fine alla sofferenza.
L'esasperazione porta a gesti che non hanno a che fare con la ragione.

GIUDICE - Ma questi gesti fanno aumentare l'esasperazione.
Si crea una catena che non ha fine. Lo capisci?

ARIN - Io non ho fatto tante riflessioni.
Mentre andavo avanti, a un certo punto ho visto dei bambini.
Li ho ancora davanti agli occhi.
Non ricordo il volto di mia madre così nitidamente quanto i loro volti. Come se una luce abbagliante li avesse impressi nella mia mente.

Arin reclina il capo, si rannicchia sulla sedia circondandosi con le braccia in atteggiamento di chiusura e difesa.
Il Giudice la guarda, indeciso se insistere con le domande. Poi se ne va facendo scattare con un rumore secco la porta dietro di sé.

BUIO.

Il rumore ingigantito della porta che si chiude invade il buio e svanisce all'alzarsi della luce nella Scena II.
II - MONOLOGO DEL GIUDICE
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Il Giudice è passato al di là della porta che ha richiuso dietro di sé.
Tiene le mani sul volto. Lentamente lo libera dalle mani, lo sguardo dentro di sé.

GIUDICE - Sdoppiato. Contraddizione insolubile.

Torna a coprirsi il volto con le mani.
Si libera con un moto di ribellione.

Anni di studio. Una missione
la giustizia, farla nascere dalle mie mani.
Articoli, commi...La legge. Tutto il sapere ben articolato,
cosa dire, che pena impartire...
Punizioni...aggravanti, attenuanti...
Nessuna responsabilità personale, ma l'orgoglio
del libro sapiente, applicarlo!
E adesso, questo solido libro del sapere
è un ammasso di fogli, impotente
a trovare soluzioni al "caso".
Bisogno di trovare risposta. Bisogno in me.
Voglio parlarmi, sentire che cosa dice
questa mia persona, senza la stampella della legge dello Stato.
E' una ragazza a sconvolgere l'ordine costituito,
muro dall'apparenza indistruttibile, argilla secca
crollata in un istante, di fronte alle sue parole
che rivelano verità che tolgono il respiro
tanto sono semplici e incontrastabili.
Voleva farsi saltare in aria per uccidere gente
del nostro popolo, a vendicare gente uccisa dal nostro popolo.
Ha visto dei bambini. Non si è fatta saltare in aria. I bambini vivono.
Ma noi l'abbiamo presa. Per l'intenzione.
L'altro arrivato con lei ha portato a termine il suo impegno.
Non vive più, e non vive gente del nostro popolo.
Quello non possiamo processarlo, non possiamo condannarlo,
non possiamo giustiziarlo. E i nostri sono morti.
La ragazza, è viva... e sono vivi i nostri figli.
Ma lei, l'abbiamo messa in prigione, e forse morirà, odiata
dal nostro popolo e dai suoi, che la disprezzano come una vigliacca.

Si chiude la testa fra le mani.
Con sforzo riprende a parlare.

Dimmi tu, uomo adulto, giudice sereno,
sapiente conoscitore del diritto,
difensore del tuo popolo, padre tenero e severo verso i tuoi figli,
dimmi se la tua giustizia vale ancora, se i tuoi libri
ti offrono appiglio a una risposta che ti dia pace,
Oppure...
Oppure la risposta tu la devi trovare in altri spazi,
che ti creeranno inimicizia e denigrazione.
Sarai messo in crisi,
darai scandalo al tuo stesso popolo e non sarai capito dall'altro popolo che continuerà a valutarti con diffidenza.
Né salverai la ragazza con questa posizione
che la coscienza sta dettandoti malgrado te stesso.
Sarai infelice e solo, in lotta con tutti. E nemmeno lei,
la ragazza, ti sarà riconoscente, perché avrà sospetto
che tu voglia raggirarla.
L'eccezione è accolta con timore
da chi è abituato all'agire comune...

 

III - LA DIVINITA'
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La scena si amplifica, dietro la porta della cella, dove già il Giudice si è interrogato. E' come se il Giudice vi fosse appena entrato uscendo dalla cella di Arin, e avesse chiuso la porta dietro di sè: è il gesto ripetuto che abbiamo visto nel suo inizio e di cui abbiamo sentito il rumore secco della chiusura della porta. Come dire che la scena II è un pensiero, e che l'azione riprende adesso, dalla scena I alla scena III.

Davanti al Giudice si erge una figura ammantata in una tunica,
la Divinità.
E' lo spirito divino che permane anche se inascoltato nell' anima umana.

Il Giudice avverte la presenza della Divinità. Solleva il volto, guardandola, mentre la Divinità comincia a parlare.

LA DIVINITA'- Sì, è come pensi.
"Sarai solo e infelice, in lotta con tutti.
E nemmeno lei, la ragazza, ti sarà riconoscente,
perché ha il sospetto che tu voglia raggirarla.
L'eccezione è accolta con timore da chi è abituato alll'agire comune...".
Ma tu non puoi fare diversamente. Hai provato, a adeguarti.
Non ci sei riuscito. Per fortuna.
Sono molti a seppellire questo impulso sotto l'egoismo,
e vivono soddisfatti, con la coscienza in pace.
Tu dalla tua coscienza sei condannato a giorni di tormento
perché nel mondo degli uomini dove ti trovi ad agire
si è smarrito il tema centrale della vita. Trattato come oggetto,
merce deprezzata e vile, l'uomo non suscita pietà al suo simile,
non ne riceve e non offre condivisione, talvolta ha a che fare con l'amore,
ma in forme possessive e mercificate.
Come una valanga ingigantita dalla corsa,
la morte prende forza trascinando con sé
germogli teneri, rami nodosi, tronchi di quercia.
Un uomo ucciso ne genera dieci per vendetta, e quei dieci altri cento.
E i cento mille in un moltiplicarsi inarrestabile.
Popolano la terra sotterranea in crescita trionfante
infiniti cadaveri straziati, cancellati i volti
dei tratti che li distinguevano dalla informe prospettiva della materia.
Per sopravvivere ogni uomo agisce usando i mezzi che possiede,
carri armati, fucili, pietre, missili, coltelli... se non ha niente
proprio niente da contrapporre alla vita, la sua vita stessa,
arma anche quella gettata in sacrificio,
peccato, martirio, pietoso compianto,
distrutta dagli aerei che in cielo terrorizzano gli uccelli
o spenta da uno scoppio che riunisce nella morte fazioni opposte.

E tu, piccolo uomo di giustizia, tradito
dai tuoi stessi strumenti di lavoro
devi pur prendere una strada... pesante e difficile che sia...

Il Giudice si avvicina alla Divinità. Cerca di toccarla, ma quella è impalpabile. Più volte il Giudice tenta di sfiorare la Divinità, e ogni volta questa sfugge impercettibilmente, nel fluttuare dei veli, pur rimanendogli davanti.

GIUDICE - Tu mi sfuggi come se io rincorressi la mia ombra.
Se potessi toccarti, troverei la risposta.

DIVINITA' - Toccarmi! Se fossi umano, come te...
Deve bastarti che ti venga accanto
ogni volta che mi invocherai...

La Divinità si allontana fino a sparire.
Il Giudice si abbandona a terra sfinito.

GIUDICE - Oh! Come chiamarti?
Non conosco neppure il tuo nome!...

IV - MONOLOGO DI ARIN
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La cella.
Arin rialza il capo e si accorge di essere rimasta sola.
Si scioglie dalla posizione rannicchiata, muovendosi con movimenti concentrici di uccello prigioniero, tendendo verso l'alto le braccia in un vorticoso fluttuare di ali.
Infine si butta in ginocchio a terra, il capo sul piano della sedia, le braccia a circondarla, in dialogo.

ARIN - Ho cercato nella mia coscienza
che cosa fosse bene che cosa male.
Issam ucciso.
Urlavo, il mio corpo
supplicava di congiungersi a lui.
La voce mi usciva con il timbro così caro,
che era il suo.
Le mie mani stringevano il mio petto mi accarezzavano il capo
erano le sue braccia.
Non potevo salvarlo morendo al posto suo.
Ma morire per lui, sì.
Così mi sono offerta.
Non capivo! che quelli che l'avevano ammazzato
non erano gli stessi che avrei ucciso io!
Accecata dal dolore immaginavo tutto un popolo
come un informe ammasso senza volto in cui un morto vale l'altro.
Era così consolante il pensiero di non dover più soffrire
che ignoravo la sofferenza degli altri,
non calcolavo l'ingiustizia che per far giustizia
io stessa praticavo, propagando come un fuoco senza scampo
delitto a delitto pena a pena e vendetta a vendetta.
Sono partita per la mia missione sentendomi una sposa
nel suo giorno di festa. E mi esaltavo risentendo i baci
degli incontri felici. Altri pensieri accorrevano allora
evocati da quei dolci ricordi... e fremiti e tremori
ed un'immensa voglia di vendetta.
Discesa dall'auto dei compagni che mi avevano portato in città,
trasportavo il mio carico di morte con passo lesto di studentessa.
Fino a quel momento
mi vedevo davanti solamente il volto amoroso del mio Issam,
come l'avevo contemplato quell'ultima sera,
ne sentivo la voce sussurrarmi le sue amate parole.
Tutto in me era chiuso al mondo esterno,
ero tutta soltanto in quel richiamo.
D'improvviso un intrecciarsi acuto di suoni leggeri
mi porta di colpo alla realtà.
Nugolo di passeri rotondi, dei bambini disordinatamente
gridando si inseguivano sul prato.
Più lontano le madri strillavano ma placide
per far sentire ai figli che vegliavano sopra i loro giochi spensierati.
E quelli mi correvano davanti, avanzando sempre più vicini
Ansanti scarmigliati le guance rosse.
La mia bomba sta per affossarli in una voragine di sangue.
Basterebbe schiacciare il congegno.
A stormo con grida di rondini curvando risalgono il prato,
e l'ultimo si volta e mi sorride.

Arin è tutta un sudore. Si abbatte stremata sulla sedia.

V - DIALOGO NOTTURNO
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E' notte. Un raggio di luna penetra dalla finestra.
Arin è sdraiata sul pavimento.
Insonne, si rialza con il busto e scruta la semioscurità.

ARIN -Issam. Issam, dove sei?
Voglio averti ancora vivo, accanto a me.
Io sento la tua voce, avverto il tuo respiro...
Ti rivivo negli istanti felici
in cui ci siamo scambiati sogni e vita...
Dimmi se esisti se mi ascolti!...
Mostrati in qualcosa che prima insieme non abbiamo vissuto,
dimmi parole che non hai mai detto, mi darai la certezza che tu viva,
così anch'io dopo la morte potrò riunirmi a te...

Issam si materializza davanti ad Arin.

ISSAM - Io vivo.

ARIN - Issam! Eri tutto insanguinato, quando i carri armati
ti hanno ucciso. Adesso sei luminoso, puro... non c'è traccia di morte in te.

ISSAM - Questo è un mistero. Devi accettarlo.

ARIN - Ho tante cose da chiederti!

ISSAM - Ti risponderò. Soltanto, non chiedere perché mi vedi qui.

ARIN - Come hai fatto a entrare? Le guardie sorvegliano la porta.

ISSAM - Non sono venuto io da te, tu sei venuta da me.

ARIN - Sono morta anch'io?

ISSAM - Sei viva, non temere. Viva in modo umano.

ARIN - Non siamo nella prigione?

ISSAM - Guardati intorno. Che cosa vedi?

ARIN - Te. Nient'altro che te. Ogni spazio intorno a te è luce.

ISSAM - Questo è l'amore che posso darti.

ARIN - Ma io non trovo pace. E mi tormento a pensare
se ho agito bene o sono andata contro il mio dovere.

ISSAM - Altri hanno agito diversamente da come hai fatto tu,
spontaneamente, secondo il tuo modo di sentire.

ARIN - Non ho compiuto la missione.

ISSAM - Sono i nostri compagni a parlare di missione.
Ma dentro di te tu sapevi che era delitto.

ARIN - Anche tu sei stato ucciso.

ISSAM - Delitto. Sempre delitto.
Ci sono dei principi che non si possono negare.
Uccidere, non si può.

ARIN - Loro uccidono i nostri fratelli e non perdono la vita.
Loro per uccidere possono usare dei mezzi che li mettono al sicuro.
Noi usiamo la nostra vita. Non abbiamo altro.
La facciamo scoppiare contro chi uccide senza doversi uccidere.

ISSAM - Il dolore ti fa parlare così, ma la tua coscienza agisce altrimenti. Quel giorno tu hai visto dei bambini.

ARIN - Vederli è stato... esorbitante.

ISSAM - Ma se davanti a te vedevi le madri, i padri...i fratelli...
che cosa avresti fatto?
Se li uccidevi, che ne sarebbe stato dei bambini?...

ARIN - Comincio a pensarci adesso.

ISSAM - Le ragioni profonde del nostro agire d'impulso
si ritrovano dopo, ragioni non casuali.

ARIN - Sacrificare quei bambini, non ho potuto.
Non è stata la paura di morire.

ISSAM - Questo di te lo sanno anche i compagni.
Ma preferirebbero saperti vigliacca.

ARIN - Quei bambini...erano troppo piccoli per considerarli dei nemici. Mi sono sentita come loro.

ISSAM - Ti sei sentita l'altro. L'altro da te, che per ragioni misteriose
ti impone un agire diverso dalle leggi dello Stato,
ma anche dalla pubblica opinione, dal "costume",
che è il comune modo di comportarsi.
Al di là di tutto questo hai sentito un richiamo
a cui non hai potuto disobbedire.

ARIN - Ma tu sei stato ucciso! Eri uno studente.
Con i tuoi libri te ne andavi a casa dopo una lezione!...

ISSAM - Tanti hanno perso la vita come me.
Agli occhi del mondo la povertà del nostro popolo fa apparire
le sue morti meno gravi delle morti che i nostri compagni
infliggono sacrificando la loro vita.
Tu hai dato il via a una svolta rivoluzionaria.
Tutto deve cambiare, d'ora in poi. Ci vorrà tempo.
E ancora sangue, dolore e tante lacrime...

ARIN - Tu non mi parli più di noi, dei nostri momenti felici.
Sei diventato un giudice buono che mi assolve
mentre gli altri mi negano perfino la pietà.

ISSAM - Il popolo di quelli che hai risparmiato
non crede a una tua conversione di fronte ai bambini,
pensa invece a qualche astuta manovra.
E i nostri provano odio per te,
perché non hai compiuto l'impresa che ti aveva consacrato ai loro occhi...

ARIN - Avevo deciso di compiere quella missione per vendicarti.

ISSAM - E non l'hai compiuta.
Mi rattrista che tanti siano ancora condizionati
da falsi ragionamenti il cui fine è soltanto la morte.
Nel fondo del tuo cuore hai sentito la mia voce e l'hai seguita.

ARIN - A che serve? Sono sola.

ISSAM - E' in questa dimensione nuova che posso sostenerti.
Agisci controcorrente. Criticata, odiata, non importa.
Sei un seme che si apre un varco in mezzo a radici vecchie e rugose, pronte a stritolarti. La tua linfa ti rende flessibile,
ti permette di insinuarti nelle asperità fino a renderle sensibili.

Issam abbraccia Arin, che si scuote in un brivido come se avesse ricevuto una fresca pioggia, poi se ne stacca e si allontana.

Addio. Ricordami...

ARIN - Proprio adesso che mi hai ridato vita, proprio adesso te ne vai...

ISSAM, (mentre si allontana fino a scomparire) - Dialoga con te stessa, e sarà come avermi con te...

ARIN - Issam...Issam...Oh! sarò forte abbastanza?
VI - I MESSAGGERI
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Con una corsa affannosa entra il Messaggero Lacero e si ferma davanti alla Divinità. Il suo vestito è a brandelli ed è coperto di sangue.
Si abbatte a terra e comincia a raccontare con impeto disperato.
Gradualmente crescente, sotto il racconto, una canzone cantate da bambini.

MESSAGGERO LACERO - Nella scuola cantavano.
Stavano facendo merenda in giardino.
Le maestre avevano intonato una canzone e la insegnavano ai bambini.
E loro con le piccole bocche stonate, senza qualche dente
per l'età del ricambio, provavano le note nuove
e ridendo si davano piccole spinte prendendosi in giro
l'un l'altro nel tentativo del canto comune. Un carro armato intanto
avanzava silenziosamente per la strada d'improvviso deserta,
la gente barricata nelle case nei negozi sotto i portoni
tratteneva il respiro per non rivelarsi.
E il carro bloccatosi al centro della piazza
oscillava guardandosi intorno, incerto su dove colpire.
Battevano i cucchiai al di là del muro ritmando la canzone
i selvaggi cantori, stridule le voci nell'euforia del gioco.
Amplificato dal ferro all'interno del carro il suono
sembrò di armi in assetto di guerra e subito allora
la torretta semovente si rivolse compiaciuta verso quella direzione,
decisa sputò un getto di fiamme contro il muro infingardo,
ghignando lo mandò in frantumi al riparo delle sue pareti blindate.
E suono e grida cessarono di colpo.

Il Messaggero Lacero esce di scena.
La Divinità ha un respiro profondo che fa fluttuare i veli nei quali è avvolta.
Il respiro si fa intenso sospiro, riempiendo di sé la scena.

Il Messaggero Militare corre davanti alla Divinità. E' insanguinato e indossa una divisa lacerata da schegge.
Una canzone cantata da bambini, crescente sotto il racconto.

MESSAGGERO MILITARE - Andavano in gita sul piccolo bus della scuola,
lasciandosi dietro le strade affollate del centro, andavano
verso la campagna di olivi e di aranci,
per fare merenda sul prato e poi raggiungere il mare.
Ed erano risa ed erano canti ed un accalcarsi festoso
sudato e senza pensieri ed erano risa... ed erano canti... ed un accalcarsi festoso... sudato... e senza pensieri....ed erano... risa... ed erano...
canti...ed un... accalcarsi...festoso...sudato... e senza... pensieri...

Il Messaggero Militare è sempre più in difficoltà a raccontare.
Gli manca la forza di proseguire; tenta di recuperare un discorso a cui si rifiuta, fino all'afasia. Poi a fatica riprende a parlare.

C'era un ragazzo che camminava in mezzo alla strada.
Stava arrivando un tram ma lui non si decideva a scansarsi.
E dalla parte opposta, carico di voci festose arrivava il bus della scuola.
Si sono fermati il tram e il bus per non investirlo, il ragazzo.
E gente intanto attraversava la strada approfittando della sosta,
biciclette automobili carrozzine guidate dalle madri
a spasso nella fresca mattina di sole.
Il ragazzo si è guardato attorno compiaciuto,
poi ha fatto un piccolo gesto ed è scomparso in una nuvola di fuoco
che si dilatava...si dilatava ...fino a raggiungere tutti quanti...
per caso...
si trovavano insieme...
su quella strada...

Il Messaggero Militare si inginocchia davanti alla Divinità.
Quella sospira facendo fluttuare i suoi veli.
Il Messaggero si rialza ed esce di scena.
VII - SECONDO MONOLOGO DI ARIN
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La cella.
Echeggiano e ultime frasi del Messaggero Militare pronunciate di fronte alla Divinità.
Arin è in ascolto.

MESSAGGERO MILITARE ( con voce alonata ) - ......
poi ha fatto un piccolo gesto ed è scomparso in una nuvola di fuoco
che si dilatava...si dilatava... fino a raggiungere tutti quanti...
per caso...
si trovavano insieme....
su quella strada...

ARIN - Lui l'ha fatto. Eravamo tutti e due sull'automobile,
portati dai compagni.
Quando sono tornata indietro non ho potuto dirglielo,
che io non ci stavo più.
Lo avrei convinto, ma. Non potevo parlare.
Loro mi sorvegliavano, il timore di farsi scoprire
gli impediva che mi costringessero.
Lui era tutto concentrato; stava per andare e io tornavo indietro,
no! non posso farlo!,
si è inoltrato fra la gente indaffarata...
Hai sterminato dei bambini
che in autobus andavano a una gita.
Ti ammiro e mi fai paura...
Tu mi vendichi del lutto
per Issam e mi getti nel dolore di altri lutti,
non miei di carne ma strazianti come il mio ed evitabili,
sì, evitabili. Per tutta la mia vita ho tenuto alla cura di me.
Ho avuto fame e ho mangiato ho avuto sete e ho bevuto...
Ho provato soddisfazione facendo a cascata la pipì...
Ho gustato dei baci, li ho ricambiati e ne ho rubati...
Mi sono punta con spine di rosa, ho sanguinato... ho raccolto la rosa...
Ero io sempre io sempre al centro del mondo
che esisteva soltanto per me.
Poi, qualcosa è cambiato.
Ho visto in strada un nano che si trascinava
portando un peso enorme e mi ha sorriso,
viveva! possedeva una sua felicità.
E una vecchia ho visto quasi cieca, cercava il sole
alzando il volto verso il cielo e le usciva dalla bocca senza denti
un piccolo sorriso di piacere...
Ho visto un colombo che beccava delle briciole
cadute sbattendo fuori una tovaglia...
Ho visto un cane zoppo che correva tutto sbilenco verso il suo padrone
il muso spalancato l'occhio lucido...
Ho sentito ridere piangere imprecare, ho sentito benedire...
Ho visto gli altri. Li ho scoperti! Il mio sguardo ne è stato catturato.
Esistono, io non ho il diritto di decidere della loro vita.
L' ho capito senza che nessuno mi spiegasse.
Tutt'a un tratto, e ho provato una terribile paura.

Rimane in ascolto.

Tu sei passato. Io rimango.
Di me che cosa ne sarà?
VIII - IL SOGNO
______________

Arin dorme. Sogna.
Due gruppi di bambini irrompono sulla scena gridando.
I gruppi presentano delle differenze negli abiti, ma nell'aspetto sono del tutto simili, non presentano differenze vistose nei tratti.
Un gruppo di bambini- con un berrettuccio rotondo in cima al capo -
entra e si slancia in un girotondo sempre più veloce; cantano la stessa canzone che cantavano quando sono stati annientati dallo scoppio del Ragazzo la cui descrizione è stata fatta dal Messaggero Militare.

Un secondo gruppo di bambini - con dei fazzoletti anndati sul capo - cantano anch'essi facendo un girotondo; la canzone è la stessa che cantavano quando sono stati colpiti dal carro armato, come ha raccontato il Messaggero Lacero.

I due gruppi, dopo un po' di girotondi, si fermano e si osservano, tenendosi reciprocamente d'occhio.

Poi un bambino fa rotolare una pallina dalla sua parte a quella di fronte, dell'altro gruppo. Un bambino dell'altro gruppo fa rotolare una pallina verso il gruppo di fronte.
I tiri e le risposte si moltiplicano.

Ogni bambino che ha ricevuto la pallina da un altro bambino del gruppo di fronte rimanda quella pallina di nuovo a chi gliel'ha mandata.
E' tutto un rotolare di palline che vanno e vengono da una parte all'altra.
Per qualche momento i due gruppi rimangono divisi, ciascuno dalla sua parte. Poi, con grida di giubilo, i componenti di ciascun gruppo passano dall'una all'altra parte mescolandosi allegramente nel continuo tirarsi palline, in un gioco festoso e incurante di divisioni.

BAMBINI (con voci sovrapposte) - Biglia! Biglia!
Biglia! A te!
Biglia!
Biglia!
Biglia ! A me! Biglia! Biglia!
Biglia a te!...
........

Mentre sullo sfondo della scena i due gruppi si impegnano nel gioco, avanza la Divinità nel cui volto si intravvede Arin.

DIVINITA' - Giocano.
Non è chiaro quando diventano nemici.
Quale momento misterioso della crescita.
E' un adulto a insinuare il veleno ricevuto da chi l'ha avuto
che l'ha preso da chi glielo ha passato che lo ha avuto da chi...
La catena dell'odio si propaga
come robusta gramigna in un campo di fragile grano.
Oscilla implacabile, indecisa fra colpe e fra vendette la bilancia
senza mai concludere il suo moto.
Il pareggio è illusione.
Ripartire dal nulla. Lavarsi dal sangue
di se stessi e dell'altro... dimenticare la storia...

Un bambino fa rotolare la sua pallina fino alla Divinità.
La Divinità la raccoglie.

... diventare capaci di giocare...

Le immagini del sogno svaniscono.
IX - LA PALLINA
_______________

Arin è distesa, ancora nel sonno.

ARIN - La pallina....la pallina....

Si tira su, ormai sveglia.

I bambini... Correvano gridavano... ridevano...
Sono dell'altro popolo, li riconosco dai vestiti.
Sono morti. Li hanno uccisi i miei compagni.
Lo so e li vedo fra le nuvole.

Altri bambini venivano di corsa
ridendo anche loro e gridando...
Li riconosco, sono bambini nostri,
i lineamenti simili a quelli
delle madri e dei padri del mio popolo...
Anche questi bambini sono morti.
Li hanno uccisi i carri armati.
Lo so e li vedo fra le nuvole.

Sono due gruppi di bambini, molto simili
se non fosse per le piccole vesti
diverse nella fattura e nei colori...
trascurabili cose rispetto a volti...voci... allegria
che possiedono uguali. Indecisi si fronteggiano.
E da un gruppo comincia a partire una pallina

subito dal gruppo opposto ne arriva un'altra
e a raffica le palline grandinano da tutte e due le parti.

Poi il più ardito dei bambini si getta in mezzo agli avversari
e subito tutti si scalmanano senza più mantenere le fazioni
allegramente affaccendandosi...
Sono contenta di questa confusione, mi pare di essere una Dea
che con la sua presenza ha consentito questo gioco incruento.
Mi faccio avanti, sperando che mi accolgano.
E subito mi arriva una pallina, è un invito a entrare nella festa...
La pallina...la pallina... La raccolgo...
E' stato un sogno, e il sogno è finito.

Si rannicchia a terra, mentre scende il buio.

X - SFILATA
___________

La scena è al di là della porta.
La Divinità sta in atteggiamento pensoso e il volto, come sempre, velato.
Davanti alla Divinità avanza un uomo maturo.

PADRE - Gli ho spaccato le gambe.
Io, proprio io che quelle gambe gliele avevo sostenute
quando non sapeva ancora camminare...
Non potevo fare nient'altro.

Fa un cenno fuori scena, ed entra un giovane che si regge con delle stampelle. Ha le gambe fasciate. Il Padre gli si rivolge con tono severo.

Dì' quello che provi. E' giusto che tu parli.

FIGLIO - Non ho avuto il martirio che volevo
scegliendo di morire per la causa.
Ho avuto invece le gambe sfracellate da uno scoppio.
E rimanere vivo. Sì, questa condizione mi ha imposto
di riflettere sul dolore che io stavo provando
e che avrei inflitto ad altri.
Se fossi andato. Se avessi compiuto.
Se mio padre non mi avesse sparato.
Non so se lo ha fatto per salvarmi
oppure perché non voleva che altri fossero uccisi?...

PADRE - Non domandare. La Divinità ha voluto così.
E poi, le cose non sono mai tutte in un modo,
non esiste soltanto una risposta ma tante che magari contrastandosi
vanno a comporre la realtà del mondo.

I due si inchinano alla Divinità e si mettono di lato.
Avanza un ragazzo vestito di bianco.

RAGAZZO FANTASMA - Io sono andato. Io ho compiuto. Io sì!
Dov'è il paradiso che mi avevano promesso?
Mi perseguita la disperazione di quelli che ho ucciso insieme a me.
Ero convinto di agire con giustizia.
Ma quei morti non mi lasciano tregua.
Solo quando ripenso alla ragazza provo per un attimo sollievo...

Fa un segno verso l'esterno ed entra una ragazza.
Si batte freneticamente i pugni in testa, ha il volto bagnato di lacrime e di sangue.

RAGAZZA SALVATA - Ero su quell'autobus! Lo prendevo di rado.
La mia gente non ha soldi, va a piedi; e poi quando ci sali,
quegli altri ti guardano sempre con sospetto.
Ma la scuola è lontana da casa e volevo tornare prima che fosse scuro.
Salgo sull'autobus, gremito. Io sola zitta, gli altri a chiacchierare
allegramente fra di loro. Mi nascondevo, paura di essere schernita.
Poi un sussurro... La mia lingua!...Parole soffocate...
Che dicesse, non riuscivo a capire. Scendere!?...
Mi spingeva premendomi alla vita. Ma io non lo vedevo!
Alla fermata mi ha gettato fuori. Ma lui non mi ha seguito.
E' allora che l'ho visto. Dalla strada, mentre la porta si chiudeva
e l'autobus di colpo ripartiva. Tutto in un attimo, io giù,
la porta chiusa, il balzo in avanti del vagone...ma troppo forte
per essere la solita partenza. E' allora che il ragazzo mi ha sorriso.
E sull'autobus è stato tutto fuoco e tutto fumo.

Si percuote il volto con le mani, in una crisi di disperazione.

Adesso sono tenuta prigioniera.
Mi accusano, dicono che dovevo dare l'allarme.
Che potevo evitare quella strage.
Non è stato per salvarmi che ho taciuto. Io non sapevo!
E se avessi capito, se avessi gridato,
il ragazzo avrebbe fatto saltare in aria tutti quanti.
Io mi sono salvata. Ma non avevo chiesto niente!
Non avevo mai visto quel ragazzo.
Perché sono gravata da una colpa
se quanto è accaduto non è stato per mia volontà?

La ragazza ha rivolto la domanda alla Divinità, che tace.
Il Ragazzo Fantasma le fa un segno leggero, ma la Ragazza Salvata non lo vede e si pone accanto ai due che stanno di lato, continuando a percuotersi il volto ma con gesti appena accennati.
Il Ragazzo Fantasma si fa da parte dal lato opposto della scena.

Entra d'impeto una ragazza Punkabestia nell'abbigliamento, tipico della categoria, ma bianco e luminoso.
La Punkabestia si rivolge un po' alla Divinità un po' alle persone ai lati, come se conoscesse tutti quanti.

PUNKABESTIA - Ho sniffato trielina. Non avevo altro.
Nel mio sacco a pelo. Da sola.
Oh! un momento! da sola quanto a gente!
Ma i miei cani, quelli erano tutti intorno a me.
Dormivano, gli basta il sonno e mangiare. E stare con me.
Io a vivere come i cani ci ho provato. Ma poi ti viene
che cosa non capisco, hai bisogno non lo so di che cosa...
Ho sniffato trielina. Lì c'è tutto. Amore allegria calore...
e la morte, un sollievo!
Ci sono popoli che lottano, si uccidono ragazzi...
Io non so perché ho vissuto... I cani, quelli sì,
mi dispiace di averli lasciati, qualcuno spero
gli dia da mangiare e da dormire...

La Punkabestia si mette dalla parte dove sono già andati gli altri morti.

Irrompe in scena il Generale Is tutto preso da un suo rovello inarrestabile. Parla camminando su e giù come se si trovasse nella sua stanza.

GENERALE IS- i libri sacri dicono tante belle cose.
Perdono, pace, fratellanza...
Vorrei vedere la Divinità....

lancia uno sguardo timoroso verso la Divinità che rimane imperturbabile.

...alle prese con un nugolo di gente che ti impedisce la sopravvivenza.
E' vero, abbiamo distrutto villaggi, bombardato città, sventrato ponti...
E la gente che ci abitava...inevitabile conseguenza.
Erano cose nostre, terreni...case che appartenevano al mio popolo. Rubate!
Anche dopo più di mille anni, come dicono i libri sacri, è la nostra terra.

La Divinità fa un gesto brusco, a mostrare la sua contrarietà.

No, la gente non era cosa nostra. Ma usurpava, se l'è voluta!

Si ferma dubbioso.

I libri sacri dicono che la terra è nostra,
i libri sacri dicono perdono pace fratellanza...
Io non so... non so che cosa fare...
La necessità mi induce a uccidere...
la coscienza mi rimprovera di uccidere...

Se ne va.

Entra una Madre. Tiene fra le mani un abito bianco da ragazza.

MADRE - Glielo avevo cucito io. Lei,
sempre in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica,
lei, per i suoi diciotto anni, voleva un vestito di chiffon!
come le amiche lasciate a Vienna, che preparavano
il loro debutto in società. Ma dove vuoi debuttare qui,
figlia mia? - diceva suo padre - Dobbiamo sempre tenere il mitra
fra le mani, tu sei sul campo a esercitarti alla guerra...
Ma lei, il vestito di chiffon! E della guerra non voleva
sentir parlare. Sperava di non doverci andare mai; che quando
era il suo turno, per l'età, nel paese ci fosse già la pace.
Perché mia figlia aveva scelto il fidanzato fra quegli altri,
e non riusciva a sentirli nemici,
e doversi addestrare a colpirli,
quando arrivava il suo turno di combattere.
L'aveva conosciuto in Italia, il suo ragazzo,
in uno di quegli incontri ad Assisi...
e da allora erano stati sempre insieme.
Piangevano gli amici che morivano, uccisi
i compagni di lui da parte nostra,
dal loro esercito quelli di mia figlia.
Discutevano le possibilità di soluzione
che i capi dovevano trovare, e non davano mai torto
del tutto a noi, né interamente accusavano gli altri.
Cresceva in loro la disperazione
ogni volta che veniva annunciato un nuovo lutto,
e sempre più sentivano la volontà di unirsi.
Mia figlia me ne parlava, di notte,
quando ritornava a casa e suo padre dormiva;
non aveva segreti con me; ma io restavo muta,
perché non potevo condividere il suo sogno,
mio marito me lo avrebbe impedito.
E un giorno ha dovuto andare in guerra.
Prima dell'anniversario tanto atteso.
Ancora una volta ha provato il vestito, era così bella
avvolta nella seta!, ha detto lo metterò al ritorno ed è partita.

Un Ragazzo avanza fino alla Madre.
Tiene in mano una camicetta insanguinata.

FIDANZATO - Ho visto tutto.
E non ho potuto cambiare il corso degli eventi.
Lei era nel gruppo con gli altri soldati. Stavano sopra il camion.
Noi davanti a loro, fuori dalle case, aspettando.
Era chiaro, puntavano. E noi pure, chi aveva un'arma,
ma cose misere, pietre, bastoni, fucili sgangherati.
Tutto è avvenuto in pochi secondi.
Lei è scesa dal camion. Gridava non sparate!
Ai suoi, agli altri, io la vedevo con terrore
dove non avrebbe mai dovuto essere. Lei grida non sparate!
mentre di corsa viene avanti e quelli puntano
e gli altri puntano e tutti quanti sparano.
E lei si ferma in mezzo a quegli spari ed è tutta coperta di sangue.

Si protende verso la Madre con la camicetta arrossata.

Ti porto questo di tua figlia.
Tu dammi i suoi diciotto anni
dammi il vestito, io lo devo avere...

La Madre porge il vestito bianco al Fidanzato che gli dà la camicetta arrossata, poi si avvolge nel vestito ed esce di scena.
La Madre tiene la camicetta fra le braccia.

MADRE - Tuo padre crederà che tu sia morta per combattere.
Lui come tanti non riesce a capire...

Il Soldato Ab si profila da un lato della scena.
La Divinità fa cenno al Soldato Ab di avvicinarsi e lui le si avvicina incerto.
La Divinità e il Soldato Ab , uno di fronte all'altro, si guardano.
Il Soldato distoglie lo sguardo dalla Divinità, poi torna a guardare se la Divinità lo guarda e constata che il suo sguardo non lo ha lasciato.
Il soldato sbotta a parlare.

SOLDATO AB - Oh insomma! Io ho eseguito gli ordini.
Nient'altro che gli ordini.
Sono nato qui.
I miei nonni li avevano bruciati, nel vecchio continente.
Un paese dall'altra sponda ha ospitato i miei genitori,
altrimenti anche loro facevano la stessa fine e io non nascevo!
Finita la guerra quel paese ci ha aiutato ancora,
fornendoci i mezzi per venire qui.
Quelli che ci abitavano lasciavano i campi incolti e senza frutti.
Mentre noi eravamo perseguitati
loro si erano insediati nella nostra terra,
l'avevano occupata in lungo e in largo.
Gliela abbiamo ricomprata, il denaro non ci mancava.
Loro erano poveri e hanno accettato ma poi, che pretesa!
la rivolevano indietro!
Pensavamo che si trovassero un'altra terra,
niente! Non volevano andarsene!
E così... i carri armati.

Il Soldato AB aspetta che la Divinità intervenga a dire qualcosa.
La Divinità tace.

Sì, i carri armati. Mi hanno richiamato.
Noi ci teniamo sempre pronti, per quando c'è un pericolo.
Eravamo una squadra. Un bel gruppo.
La gente, mentre andavamo avanti,
scappava dentro le case: non capiva, no!
che non doveva andare proprio là! Gli lasciavamo la vita,
via soltanto le case, perché finalmente se ne andassero!
Ma loro andavano nelle case illudendosi di stare al riparo.
Noi non volevamo ammazzarli, gli gridavamo andatevene!
Qualcuno capiva il pericolo e scappava,
ma altri restarono e noi, la consegna era distruggere le case.
No, non era nostra intenzione ucciderli.

Silenzio.
Il Soldato AB guarda la Divinità aspettando che dica qualcosa.
La Divinità fa un gesto interrogativo.

Nessuno ha revocato l'ordine. Noi eravamo alla guida dei carri armati,
eravamo i carri armati. Noi
avevamo un ordine.

Tace, in difficoltà. Si ritira ripetendo la sua frase, fino ad uscire di scena.

Noi
avevamo
un ordine...

La Divinità fa un cenno dalla parte opposta a quella da cui è uscito il Soldato Ab.
Vengono avanti due uomini, ciascuno di uno dei due popoli.
La Divinità fa un cenno e uno dei due fa un passo avanti.
L'uomo tiene fra le braccia un orsetto di peluche senza testa.

NONNO - La casa, nostra unica ricchezza.
Con me Alì, il figlio di mio figlio ucciso in guerra.
Nel quartiere dove abitavamo c'era la scuola, e il luogo di preghiera,
e i negozi del pane e dei datteri...e il giardinetto delle palme...
sovente il bambino ci giocava.
Paiono grandi le case a guardarne le facciate,
ma dentro, le stanze sono d'aria...
e quando un carro armato le colpisce
spariscono in una nuvola di polvere.
Alì era a scuola, corro a prenderlo,
i carri andavano da quella parte,
i bambini si gettavano fuori,
le maestre inginocchiate a supplicare...
E Alì?, non l'avevano veduto: forse era rimasto in casa,
preso dal gioco di nascondersi come a volte faceva,
aspettando che io lo ritrovassi
per poi insieme andarcene alla scuola.
Torno a casa, un cumulo di cenere!...
Ho scavato nel fumo rifacendo il percorso delle stanze.
Da una voragine è spuntato l'orsetto
che mio nipote amava tenere fra le braccia...

Solleva in aria l'orsetto acefalo.

Quel muso affettuoso del suo preferito Alì se l'è portato via con sé.

Abbracciato all'orsetto acefalo, il Nonno se ne va.

La Divinità fa un cenno ed entra un Uomo del popolo dei carri armati.
Irradia luce come un fantasma.

UOMO LUMINOSO- Andavo a prendere mio figlio a scuola.
Passa un autobus pieno zeppo di gente.
Non volevo salirci. Era troppo stipato. Ma era tardi.
Così mi sono fatto strada nella calca.
Dentro dei ragazzi cantavano.
Una bella canzone. Dei miei tempi.
L'avevo imparata quando andavo a lavorare
alternando allo studio la campagna.
Anch'io mi son messo a cantare. I ragazzi sorridevano
a vedere un uomo dell'età di un padre
unirsi a loro con l'entusiasmo dei vent'anni.
Ma d'improvviso spunta fra quei volti
tanto simili a quelli dei miei figli una faccia diversa,
un ragazzo del popolo che si era insinuato fra di noi.
Anche gli altri lo vedono e di colpo interrompono il canto:
solamente la durata di un respiro, poi lo scoppio.
Non vedrò mio figlio farsi uomo...
non vedrò crescere mio nipote...

Avanza un Cieco con gli occhi bendati, appoggiandosi ad un bastone.
Si ferma davanti alla Divinità.
Quella emette un sospiro, si muove appena in un lieve agitarsi dei veli.

CIECO - Ho seguito i libri sacri.
Tu lo sai, cosa dicono?
Io non sono un uomo di cultura,
ma ricordo che più o meno dicono...

Cerca di riportare le parole dei sacri testi.

... dicono di aiutare il prossimo, se lo vedi in difficoltà.
Ho sempre cercato di farlo, senza aspettarmi riconoscenza,
per il puro amore di Dio, che vive negli altri...

Si assesta le bende sugli occhi, con un gemito represso.

...Riconoscenza, no, non me l'aspetto;
ma aiutarli e in cambio averne odio...è una beffa.

In una folata di suoni si affollano le voci degli altri personaggi, che chiedono al Cieco di raccontare.

**** _ Una beffa?!
_ Odio?!
_ Anche a me è capitato...
_ ...a me..... a me... a me...

Il Cieco si volta intorno consapevole che intorno ci sono delle persone, fa un cenno di assenso, poi inizia a parlare.

CIECO - Guidavo il mio autobus.
Ho imparato quando facevo il soldato.
Ero povero, io, non come quelli arrivati da laggiù,
pieni di soldi, laureati, con amici e parenti che continuano
a mandargli denaro, e loro qui, con la casa confortevole, i libri,
e l'automobile.
Io guidavo gli autobus, da tre anni;
ho passato l'esame, ho avuto il posto.
Quando mi sono sposato ci ho messo dei fiori, davanti, al mio autobus. Mia moglie mi stava accanto e rideva orgogliosa di me.
Era una bellezza correre per le strade e poi alle fermate
la gente saliva e scendeva, allegra, indaffarata...
Ci facevano festa, qualcuno lasciava un regalo,
dei frutti, un nastro, un ombrello...
quello che avevano offrivano, per fare gli auguri agli sposi.
Succede più volte che uno non riesca a salire.
E' alto il gradino, per gente adulta, ragazzi sportivi...
E quando un vecchio si arresta,
quando una donna tiene in braccio un bambino... li aiuto,
e loro mi dicono grazie, li vedo sorridere e sono contento.
L'altro giorno salivano studenti a decine e decine!
A terra era rimasto un ragazzo dal corpo sgraziato, pesante,
e cercava un appiglio per salire.
Lascio di guidare mi sporgo gli stendo il braccio e noto allora
che in niente è simile agli altri.
E sotto la giacca di tela che avevo afferrato
per sollevarlo da sotto avverto un oggetto metallico,
un pacco inerte e gelato... Urlo! urlo
come punto da un serpe e lo respingo lontano
ma non abbastanza perchè sorpreso nel suo tranello
quello si fa scoppiare ma fuori! dal mio autobus.
Col corpo io copro la fiamma mortale,
rimangono salvi i ragazzi.
Ma i miei occhi si spengono credo per sempre.

Il Cieco tace.
La Divinità fa fluttuare un velo fino al volto del Cieco.
Il Cieco si porta le mani al viso trasalendo, poi si allontana.

XI - LA FIONDA
______________

Entra correndo il Messaggero Lacero.

MESSAGGERO LACERO - Vi porto un'altra notizia.
Un altro dolore si è aggiunto.
Un altro lutto,
e più questi eventi si accumulano,
più la gente ci fa l'abitudine.
Era una giornata di sole. I bambini uscivano dalla scuola.
Finita la mattinata, era ancora presto per andare a casa,
dalle madri, a mangiare il misero pasto. Così
si attardarono raccogliendo pietre sulla strada,
e ne facevano piccoli mucchi colore del piombo.
Ridevano, pregustando la provocazione del lancio,
inadeguato alle armi, beffardo nell'esporli indifesi
per umiliare il nemico.
Tenevano fra le dita elastici colorati
e strisce sottili di pelle e rami induriti di salice
che dai tronchetti si bipartivano come una vu di vittoria.
E andavano scegliendo le pietre aguzzate dalle mine,
contro i giganti in agguato.
Cominciarono giocando tra loro. Tiravano basso, attenti a non ferirsi, come i cuccioli del leone alle prime battaglie
trattengono indietro le unghie. D'improvviso
un tuono rimbombò nella piazza su cui sfociava la strada.
Le case di fango tremarono, e i bambini drizzandosi
in tutta l'esigua statura avvistarono i carri nemici.
Poi per primo il più piccolo del gruppo si protese
con tutta la forza del braccio gracile e dalla sua fionda
la pietra sibilò rimbalzando con un suono d'argento
sulla corazza di un carro.
Come a un segnale allora tutti i bambini lanciarono la loro pietruzza,
lo sguardo proteso a seguirla fino al muso dei mostri metallici.
E quelli concordi subito sputarono fiotti di fuoco mortale.
Il sangue sgorgava dalle tenere carni dei bimbi
come alla caccia i daini e i cerbiatti sbranati dai cani.
Non soddisfatti del macello, i carri si rivolsero alle case,
le mura di fango allo scontro si afflosciarono.
Andavano fra le macerie i mostri oscillando i testoni di ferro
dal lungo naso cilindrico a spiare un residuo di vita.
E a folate le grida spiravano sempre più flebili
finchè tutt'intorno non fu che il sospiro del vento.

XII - LE MADRI
__________________

Avanza una Donna con un fazzoletto sul capo, che imbraccia un fucile.
La Donna lo protende alla Divinità.

DONNA CON FAZZOLETTO - Me l'ha dato mio figlio...
è tutto quello che mi resta di lui.
Me lo ha dato quando ha deciso di sostituirsi
al suo fucile, inutile di fronte ad armi più potenti.
Non terrò fra le braccia i suoi figli come ho tenuto lui da bambino...

Abbraccia in tutta la lunghezza il fucile come se si trattasse di un corpo umano.

Avanza una Donna con il cappello, che porta fra le braccia un bambino in fasce. Lo protende alla Divinità.

DONNA CON CAPPELLO - Mio nipote.
I genitori sono rimasti uccisi per lo scoppio provocato dal figlio...

Indica la Donna con il fazzoletto.

...di quella donna.
Chi alleverà mio nipote?
Chi si prenderà cura di lui, quando morirò?
Io sono vecchia, speravo che mio figlio si sarebbe occupato di me
quando non sarei più riuscita a bastare a me stessa.
E adesso devo allevare anche suo figlio
e lasciarlo alla mia morte nelle mani di gente nemica.

La Donna con il fazzoletto fronteggia la Donna con il cappello.

DONNA CON FAZZOLETTO - Almeno tu hai un nipote.
Ma noi, siamo annullati.

La Donna con il cappello fa un cenno verso il fucile che la Donna porta fra le braccia.

DONNA CON CAPPELLO - E' questa la tua gloria?
Tu stessa riconosci la tua disperazione.

La Donna con il fazzoletto tace. Poi depone il fucile ai piedi della Divinità e si mette da parte mentre anche la Donna con il cappello fa altrettanto.

XIII - L'OGGETTO
_______________

Dalla porta che si spalanca avanza semovente, portato su di un piedestallo, un Oggetto indecifrabile. Pare un corpo a cui mancano gambe e braccia. I lineamenti sono cancellati, il volto appare come una maschera appiattita dagli occhi vuoti.
Comincia a parlare con una voce metalliao, stentorea e difficoltosa: la voce di un sopravvissuto, con un residuo di vita.
Una luce violenta illumina l'Oggetto. Le sue parole risultano inframmezzate da un respiro affannoso.

OGGETTO - Da quale popolo...
che importa?...
Tutto è uguale...
Ridotto...
da uomo a oggetto...
io... un altro io... tanti io...
da una parte o dall'altra...
chi e da chi....
lo stesso...

Un arresto. Un sospiro. Una ripresa forzata dalla volontà.

Perché prima...
convinto...
che giusto combattere...
e uccidere tanti...
tanti...
Adesso no.

Un arresto. Un sospiro. Una ripresa forzata.

Da quale popolo?...
Non più differenza...
Non più!
Vita...questa...mi resta...
e la amo!...

Il corpo mette ali e vola verso l'alto scomparendo alla vista.

 

XIV - FINALE
_____________

Vengono intorno alla Divinità tutti i personaggi.
Gli attori indossano il costume che è stato per loro il personaggio determinante: per le altre interpretazioni che avranno sostenuto, essi terranno fra le mani l'abito indossato per quel personaggio: il gioco della moltiplicazione delle interpretazioni fa parte del dramma.

Singolarmente e in coro, si rivolgono alla Divinità.

***** - Noi ti abbiamo raccontato
quello che si ripete ogni giorno...
e si moltiplica con infinite variazioni
che lasciano intatta la sostanza
del dolore e del massacro, della violenza e della prevaricazione.
La vendetta ci avvelena.
Siamo impotenti, destinati a un'eterna rappresaglia.
Intervieni!
Ordina, imponi, determina tu!
Noi te lo chiediamo,
noi vogliamo porre fine alla guerra,
ma non ne siamo capaci!

La Divinità tace. Tutti rimangono in attesa.

**** - Illuminaci! Te lo chiediamo tutti quanti.

La Divinità ondeggia, come se stesse per parlare. Ma tace.

**** - Non vuoi?

La Divinità sospira. Poi lentamente alza il velo che tiene sul volto.
Sotto a quel velo se ne rivela un altro. Getta il velo sui componenti del gruppo. Questi lo afferrano da parti contrapposte.

**** - E' un dono?...

La Divinità ha un piccolo riso. Finalmente parla.
La sua voce è un sussurro, ma nitido.

DIVINITA' - I simboli aiutano.
Siete voi stessi ad avere la possibilità.
Non, altri! per voi. E' in voi la grazia
è in voi la dannazione, non posso privarvi
di questa natura, che è un dono.

La Divinità arretra fino a sparire. I componenti del gruppo avanzano per fermarla; poi quando questa è sparita, gettano il velo come ultima risorsa a raggiungerla.
Il velo volteggia nell'aria, infine si posa a terra.
I Personaggi si dividono nei due gruppi ciascuno di un popolo; afferrano da parti opposte il velo, lo strattonano cercando di impadronirsene a rischio di lacerarlo.
Si sente la voce della Divinità alonata, ingigantita.

VOCE DELLA DIVINITA' - E' un dono!!!...

I personaggi lasciano andare il velo, che volteggia e poi si depone sul pavimento.
Rimangono un momento intontiti e perplessi; poi, uno per volta, se ne vanno in silenzio.

BUIO.


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