Di Franca Angelini
SPAX - l'anima tragica di Maricla Boggio L'esse del titolo Spax ha forse valore privativo: sta per "sine" - sine pax, senza pace; ma il suono suggerisce qualche cosa di più, che ha a che vedere con il disvalore assoluto, la negatività dell'informe, in questo caso lo sfacelo dell'idea di "pace". Così si connotano i nostri giorni, segnati da un tipo di guerra assolutamente distruttivo, che si pone nello spazio del negativo e nello sfacelo delle regole elementari della convivenza umana, tra guerra e terrorismo. E' per la Boggio una conferma del suo specifico talento, capace di coniugare realtà e fantasia o meglio di rappresentare sublimando, anche l'orrore. E questa volta capace di creare un fulmineo cortocircuito tra "arcaicità e ultramodernità", come si legge nel testo. Ora la Boggio riesce a rappresentare il conflitto dei nostri giorni e insieme a cantare un poema che rappresenta cielo e terra, con gli uomini, i giudici, gli angeli, dal basso all'alto, ma soprattutto con le donne e i bambini, in assurdo conflitto e in penosa negazione del loro ruolo giusto, di dare la vita e di viverla. Pietre dello scandalo, dunque, la donna che uccide e i bambini destinati al massacro: così si rappresenta la fine della pacificazione, l'oscuramento dell'arcobaleno che dovrebbe sgnalare la pace tra cielo e terra. I Messaggeri, anziché annunciare la pacificazione, annunciano i lutti delle due parti, ognuna delle quali argomenta le sue ragioni, sterili nella conclusione obbligata che l'odio non può che generare odio: " Un uomo ucciso ne genera dieci per vendetta e quei dieci altri cento/ e i cento mille in un moltiplicarsi inarrestabile./ Popolano la terra sotterranea in crescita trionfante/ infiniti cadaveri straziati, cancellati i volti." I personaggi che si interrogano - donne, vecchi, soldati, madri, la kamikaze e lo studente suo innamorato ucciso - sono insieme reali e simbolici, strumenti per disegnare un grande affresco; popolo contro popolo, ognuno con oggetti che li connotano e anche oggetti che sono "non si sa di quale popolo". Il dramma inizia con una ragazza kamikaze che vuole vendicarsi ma non esegue il suo gesto terrorista paralizzata dalla possibilità di uccidere anche dei bambini; alla fine la Divinità lascia un testamento, un velo e le parole " E' in voi la grazia, è in voi la dannazione". Così - da un episodio della cronaca a un testamento divino - il particolare diventa universale, ogni peisodio va letto come " exemplum" e serve a costruire un affresco, come una visione medioevale illustrata però da episodi dei nostri giorni. Non una " divina commedia" ma una commedia umana che ritrova la sua antica forma di tragedia. Così la dilatazione progressiva dello spazio, che finisce con il disegnare un polittico, nelle variazioni virtualmente infinite di un tema unico, la morte e il massacro reciproco. E' questo un teatro " di poesia" nel senso pasoliniano: un teatro di parole che argomentano e costruiscono via via scene esemplari, dette da parole che percuotono il pubblico perché entrano " dentro" le ragioni del conflitto e disegnano un labirinto di argomenti di pensieri e di sentimenti, quei pensieri e sentimenti che rimuoviamo quando leggiamo o vediamo in televisione il rendiconto - l'esterno - della tragedia. Cosa pensa un kamikaze nell'atto di procurare una strage? Dove sta ora il suo cuore, il suo sentimento, il suo rapporto con il mistero della morte? Cosa pensa un giudice, il più vicino a noi nell'obbligo di pronunciare una condanna? ( " Voglio parlarmi, sentire che cosa dice/ questa mia persona, senza la stampella della legge dello Stato"). Con questi irrisolti quesiti il testo sembra raggiungere i motivi dei non-motivi, il cuore del non-cuore. Così il testo propone un nuovo tipo di allegoria, rappresentando quanto i nostri giorni offrono alla nostra indignazione, oltre il terrore e la pietà, come chiede la catarsi aristotelica per la tragedia greca. Ma lo spazio mobile e quasi provocato dalla luce, l'allegoria moderna anzi contemporanea, la statura umana e allegorica dei personaggi, l'intreccio di casi personali e condizione umana fanno pensare - con tutte le differenze - ai Paravents di Genet, un testo mosso come questo da una causa immediata, nel francese la guerra di Algeri, e da una visione generale del mondo: la organizzazione scenica, la simbologia degli oggetti, la capacità di rappresentare un conflitto totale e senza soluzione se non nella volontà degli uomini invitano a rivedere la convinzione del XX secolo che la tragedia sia un genere obsoleto e improponibile se non in forma ironica. Spax sembra dimostrare che la tragedia è proprio oggi un genere, o una forma che ci rappresenta e funziona come uno specchio fedele dei nostri giorni.


“…Contro l’assuefazione all’orrore quotidiano di crudeli “suicidi” che ogni giorno insanguinano comunità incapaci di affermare il valore della vita, si leva ogni tanto la voce di artisti solitari e feriti(…), inquieto monito, cantico doloroso che Mariola Boggio ha scritto per dire di uomini che uccidono altri uomini e di donne che si ribellano a tanta violenza…”.
LA REPUBBLICA - Giulio Baffi

“…Quella sottile linea tra il bene e il male, tra il giusto e l’errato, tra la vita e la morte si evince nel dramma teatrale di Maricla Boggio “Spax”, firmato dalla regia di Fortunato Calvino (..). Il testo di Maricla Boggio è un viaggio in un mondo arcaico e, al tempo stesso è cronaca d’oggi (…). Sul palcoscenico, ad alternarsi, vi sono uomini e donne accomunati dal dolore della guerra…”.
ROMA - Velia De Sanctis

“…Una maledizione incombe sull’esistenza dell’uomo, destinato a guerre fraticide. Queste ultime generano un odio perenne il quale divide in maniera netta i popoli. “Spax” testo di Maricla Boggio in scena nella Sala Assoli del teatro Nuovo per la rassegna “Contemporanei”, per la regia di Fortunato Calvino, è una denuncia in tal senso (…). E allora che senso può avere la parola fratellanza se si è pronti a sopraffare l’altro per un fazzoletto di terra?…”.
NAPOLIPIU’ - Monica Fabaro

“…Giova alla costruzione drammaturgica la struttura sapientemente ricalca quella della tragedia greca: i cori e la presenza di una divinità - con tanto di coturni - rendono gnomica la riflessione, inserendola in una epicità senza tempo (…). Belli i costumi di Annamaria Morelli, la cui cifra stilistica è riconoscibile nella raffinata elaborazione di classicità e contemporaneità…”.
CORRIERE DEL MEZZOGIORNO - Natascia Festa

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