Una filosofia ‘drammatica'
di Gianni Vattimo

Sartre ha scritto lui stesso per il teatro; e ora, forse, ci rendiamo conto che lo ha fatto non solo nei testi propriamente teatrali – da “le mani sporche” a “Il Diavolo e il buon Dio”, a “Le mosche” – ma anche negli scritti filosofici, nella sua intera opera di pensatore. Forse perché la sua filosofia è una filosofia “drammatica”? Certo, l’operazione di presentare la sua vita e il suo pensiero in forma teatrale sembra particolarmente riuscita, e non solo per merito dell’autrice del testo o del regista e degli attori; c’entra anche, in modo determinante, l’intrinseca qualità dei temi che si tratta qui di mettere in scena. Forse quella Filosofia non ridotta a disciplina specialistica, a gioco di linguaggio del tutto separato, ma invece capace di parlare ancora la lingua di tutti, che cerchiamo oggi sotto il nome di ermeneutica o di neopregmatismo, era stata già realizzata, in qualche misura almeno, da Sartre.
Il fatto da cui partire per approfondire questa ipotesi è proprio la particolare vitalità che il pensiero di Sartre – qui presentato da Maricla Boggio attraverso i temi chiave e situazioni esemplari, in una tipizzazione che evita ogni tentazione riduttiva, semplificatoria, volgarizzante – mostra di possedere quando è portato sulla scena. Ci sono stati, dopo Sarte, filosofi suscettibili di diventare in questa misura personaggi e testi teatrali? Come si potrebbe tentare un’operazione simile con Adorno o, prima, con Wittgenstein o Heidegger? Ma se Sarte è stato l’ultimo ( oltre che uno dei pochi) filosofi a potersi “mostrare” in teatro, questo riguarda solo lui come personalità specifica o ha un senso più vasto, che tocca la situazione della filosofia degli ultimi decenni?
Gli strutturalisti – Lévi-Strauss, Foucault – direbbero che il carattere “drammatico” del pensiero di Sartre è anche il suo insuperabile limite; è un pensiero ancora irrimediabilmente umanistico, centrato sulla assolutizzazione di aquel fenomeno “uomo” della cui storicità, contingenza, effimerità siamo ormai divenuti consapevoli.
Ma oggi lo “strutturalismo” è finito,non ha più la posizione egemonica di cui godeva negli anni Settanta; e la fine di questa egemonia, oltre a molteplici spiegazioni di carattere sociologico e politico, rivela forse un ritorno delle preoccupazioni umanistiche che muovevano il Sarte dell’”Essere e il nulla” e della “Ragione dialettica”, il Sartre de “La nausea”, il Sartre teorico dell’”engagement”.La forza con cui ci si impone – almeno, così credo – uno spettacolo come questo “Ritratto di Sartrev da giovane” non sarà anche un segno del rimettersi in moto di tutti questi problemi? Certo, con molte buone ragioni lo strutturalismo – e l’antiumanismo di Heidegger, da cui ha imparato molto: si pensi ancora a Foucault – ci ha messo in guardia contro il cercare aeenze e significati nelle pieghe profonde dell’esperienza, nell’analisi accanita di situazioni elementari, di relazioni interpersonali tipiche come il rapporto d’amore, un “topos” delle riflessioni sartriane. Non c’è nulla di nascosto nel profondo – ci sono solo, o principalmente, griglie strutturali, configurazioni oppositive rappresentabili matematicamente: al loro interno soltanto, e come loro effetto, accade quello che chiamiamo il senso.
Non vogliamo neanche oggi rinunciare a questa presa di distanza dai nostri piccoli drammi di famiglia, non vogliamo ricadere in preda al patetismo di tanto esistenzialismo lamentoso, della retorica cinematografica dell’alienazione quotidiana… Eppure, la popolarità di cui godono oggi, anche nella filosofia più avvertita, pensatori come Emmanuel Lèvinas o Vladimir Jankélévitch, potrebbe essere un segno del fatto che anche Sartre, con le sue analisi dell’esistenza librata tra l’essere e il nulla, i conti non sono ancora chiusi.
Solo a questo patto, del resto, anche il teatro potrebbe non essere ancora definitivamente morto.


Ciò che dura lo fondano i poeti
di Luigi M. Lombardi Satriani”

In fondo, l’intelligenza è una necessità, di non fermarsi e di andare avanti…”: le parole di Sartre ricordate da Simone de Beauvoir illuminano un personaggio il cui itinerario intellettuale ed esistenziale è stato caratterizzato da questa necessità di non fermarsi e di andare avanti, sempre più avanti.
L’oblìo, questo impalpabile velo di morte che spietatamente stendialo su persone, parole e cose, facendole palpitare nel nulla, ha corroso in questi ultimi anni l’immagine di Sartre, ridimensionandone, spesso eccessivamente, la portata e la carica di suggestione. Eppure non può essere negato che egli sia stato un testimone partecipe del nostro tempo tormentato e un lucido interprete di esso e delle sue contraddizioni insanabili.
Questo intelletuale, che non ha fatto della dimensione intellettuale il rifugio della propria esistenza, che si è messo continuamente in discussione e che si è sporcato le mani, viene reso da Maricla Boggio nei molteplici aspetti della sua personalità e nel puntuale dispiegarsi dei suoi sentimenti e dei suoi rapporti. Attraverso la suggestione del teatro ci viene restituita con acuta sensibilità l’umanità di Jean Paul Sartre nella vivezza delle sue giornate e dei suoi colloqui. Maricla Boggio ha ripercorso con fedeltà i testi di Sartre e le sue conversazioni con Simone de Beauvoir, per cui questo testo ci trasmette uhn Sartre autentico, non soltanto verosimile.
Ma attraverso la teatralizzazione e la fascinazione che esso sviluppa, questo Sartre è investito da una uova forza discorsiva, da una nuova vitalità.
“ E’ questo il fondo della gioia d’amore, quando esiste: sentirsi giustificasti di esistere… amare e nella sua essenza, il progetto di farsi amare!... mi piaceva ritemprare la mia intelligenza immergendola in una sensibilità. Quasi che l’uomo dopo essersi dato da fare per eliminare parte della sua sensibilità e sviluppare l’intelligenza, sia stato indotto a rivendicare la sensibilità della donna: a possedere cioè donne sensibili, per fare della propria sensibilità una sensibilità femminile”.
Sarte, Simone, Sylvie, presentificazioni di ricordi, personaggi delle opere narrative e teatrali di Sartre, si intrecciano sviluppando così un proprio discorso, che non è – né poteva essere – la mera giustapposizione di brani sartriani.
E nella “gerarchia” che Sartre s’immagina, tra filosofia e letteratura, la sua speranza di “ottenere l’immortalità attraverso la letteratura” ce ne mostra l’amore assoluto per essa, da parte di un letterato che non ha ritenuto di dichiararla insufficiente.
Gli ultimi momenti di Sartre, la sue parole, i suoi ricordi (“da bambino avevo un po’ paura della notte, e la luna mi rassicurava; quando uscivo in giardino e c’era la luna sulla mia testa, ero felice, non poteva succedermi niente”); la solitudine del morente; il dolore contenuto di Simone e la sua radicale solitudine vengono resi con levit6à di tratti e con intensa suggestione poetica.
Ma non è forse vero che, come ci ha ricordato Hölderlin. Ciò che dura lo fondano i poeti”?

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