Maricla Boggio

RUGGERI

lo sguardo invisibile

L’Uomo entra portando una grossa valigia rigida: incollate, etichette di grandi alberghi di città italiane ed estere.
L’Uomo appoggia la valigia a terra e si stropiccia la mano intorpidita dal peso. Indica la valigia.

UOMO - Me la porto sempre con me. Non posso farne a meno. Dentro c’è tutta la mia vita.

Siede sulla valigia.

E quando lui se n’è andato, la mia vita è finita.
Certo io vivo. Ma sono i ricordi a farmi vivere.

Si alza, apre la valigia. Ne emergono copioni e libri consunti. Estrae una sedia di tela pieghevole e vi si siede assumendo una posizione un po’ curva, con i gomiti appoggiati ai braccioli, la testa protesa in avanti.

UOMO - Era rivestito del suo splendido frack, così come l’aveva indossato in tante commedie. Intorno, i suoi libri. E sulla scrivania, aperto, il volume rilegato delle opere di Shakespeare. Ho guardato la pagina: “Enrico IV”. Mi è bastato leggere le prime parole: “Chiudete i suoi occhi”, e le altre mi sono corse incontro, come in tante serate a teatro: “Abbassate le cortine, e andiamo tutti a meditare”. Era il suo saluto.

Lancia uno sguardo ai copioni.

I suoi copioni. Ora se ne stanno in silenzio.

Li accarezza facendone scorrere le pagine fra le dita.

Ma se scorro le pagine, ecco la sua voce...

Rimane in ascolto, lo sguardo perso.

Quante volte l’ho ascoltata! Nessuno più di me.
La prima volta, Aligi il pastore. Ruggeri pareva un ragazzo. Ma recitava già da quindici anni! Virgilio Talli l’aveva preso in compagnia come primattore. Io suggerivo, Talli non voleva altri che me. E la signora Gramatica, non parliamone! eran tranquilli soltanto quando in buca ci stavo io. Perché a quell’epoca si cambiava spettacolo ogni sera. Un’infinità di lavori da far venire il capogiro. Io li sapevo tutti a memoria e stavo attento a suggerire quando sentivo l’attore in difficoltà. Si seguivano i gusti del pubblico: “Agnese” di Felice Cavallotti, “L’amico delle donne” di Dumas, “Divorziamo!” di Sardou, “Il brutto e le belle” di Sabatino Lopez, “L’avventuriero” di Capus... passioni e tradimenti, scontri di coppia, drammi storici... il più delle volte non avevano un pregio artistico.

Ma “La figlia di Jorio”, a D’Annunzio era riuscita più bella che tante altre sue opere intricate, e Ruggeri... non si può immaginare come la gente andasse in delirio per quel pastore!... Ogni sera, sotto il mio cupolino, ascoltandolo mi incantavo anch’io... Quel fascino, da che cosa dipendeva?: Ruggeri non era un pastore!, ecco perché! Se lo inventava quel pastore, si inventava un pastore che non esisteva! E se l’era già inventato D’Annunzio: i veri pastori d’Abruzzo non erano Aligi!

Quando andava in scena “La figlia di Jorio”, io stavo quasi sempre zitto perché quella parte, Ruggeri, la sapeva! Certe commedie – diceva - non vale la pena impararle a memoria: era lui, con la sua voce, a trasformarle in storie vive. Io, giù a suggerire! e lui, pause, sospiri, meditazioni... e finalmente la battuta.
Ma con Aligi, tacevo: nitida, pura, la sua voce si alzava... a tratti poi si faceva velata... Dava i brividi anche a me che c’ero abituato! Stralunato, vestito di pelli, il volto di una creatura dei boschi... Aligi! un essere soprannaturale. E i giornali, un inno! Lui se li portava in camerino. Delle volte, quando voleva ripassare una scena, io andavo da lui. Allora mi leggeva qualche frase. “L’Aligi di Ruggeri è un prodigio! - lo aveva scritto Silvio D’Amico, un critico che non aveva peli sulla lingua quando uno spettacolo non gli piaceva -. L’Aligi è un prodigio! E quel suo canto, vero e proprio canto... Ruggeri è qualcosa di inaudito”.

Dalla valigia tira fuori dei vecchi fogli di giornale, poi li lascia ricadere.

Ah! Non ho bisogno di rileggerli quei giornali, ce li ho tutti in testa. Ma non erano sempre elogi... Arrivavano anche delle critiche che gli davano addosso. Lui le scorreva appena. E metteva via il foglio. Una volta un giovane, uno che tutti stimavano un genio, fece un’osservazione che lo toccò profondamente. Ruggeri non buttò via il giornale come in altre occasioni, con una smorfia indifferente. Si fermò a pensare. Lasciò il foglio sul tavolinetto, e andò a cambiarsi. Io lo sbirciai.
Parlava del pubblico “scelto” delle prime. Quelle frasi mi colpirono: “Nessuno di costoro sfugge alle seduzioni fisiche della rauca voce, del viso morbidamente sessuale – diceva proprio ‘sessuale’ -, degli occhi velati da fanciullo equivoco, dei gesti conquistatori, delle pose ammalianti....”. E dava un suo giudizio feroce: !Tra questo pubblico e il suo attore corre una specie di intesa sensuale. L’artista si adatta ad assumere una facile maschera di piacevolezza e a fare le parti di mistico decadente”: Era firmato Piero Gobetti.
Mentre indossava il costume di scena, ho sentito che Ruggeri mormorava: “Forse ha ragione”. Il pubblico elegante – era vero! - stravedeva per lui. Ma quel giovane intellettuale intuiva che Ruggeri non cercava soltanto di piacere a quel pubblico. Per gli spettatori del loggione i personaggi emaciati e sensuali lui li interpretava... come se volesse far capire ai poveri il modo in cui vive la gente ricca: insomma, era una dimostrazione che Ruggeri faceva, recitando: Gobetti lo scrisse in un altro articolo; era uno che non si fermava alle apparenze, aveva capito che quell’attore cercava ben altro che di colpire con il fascino del seduttore! : era alla ricerca di sé.

Finito lo spettacolo, lui non andava mai a cena con gli attori della compagnia. Io lo accompagnavo, a volte, per un tratto di strada; ma a un certo punto lui si fermava, e cortese ma fermo mi imponeva di lasciarlo solo. Una sera - eravamo a Genova - continuò a scendere per le stradine dei carrugi, fino al mare. Io lo spiavo di lontano: rimase a lungo a guardare l’acqua scura, il capo chino sotto il cappello calcato in avanti. Quel cappello lo teneva sempre in testa, tranne che durante la recita. Allora metteva parrucchini o chiome fluenti a seconda del personaggio, oppure lasciava scoperta la calvizie, fiero della sua fronte alta e luminosa.

Con me aveva stabilito una sorta di alleanza dove ognuno ricopriva un ruolo. Il mio, senza di me Ruggeri non poteva essere quel grande che era; io senza di lui non ero nessuno. Mai che lavorando insieme si siano creati attriti come con tante primedonne o capocomici: “Si svegli! Mi dia la battuta!” oppure “Stia zitto che la so!”. Con Ruggeri suggerire diventava un’arte. Siamo perfino arrivati a fare dei tagli durante la rappresentazione!...

Dopo il successo della Figlia di Jorio bruciava a D’Annunzio che il suo “Più che l’amore”, con Zacconi protagonista, fosse stato fischiato. Ruggeri ebbe il coraggio di riprendere il dramma con la sua compagnia perché credeva in quel testo, e soprattutto nel protagonista, Corrado Brando. Così lo mise in scena e debuttò a Padova. All’inizio della rappresentazione, gli spettatori seguivano attenti. Lui ci dava dentro reggendo quel ruolo che, per la verità, fin dalle prove, io sentivo piuttosto ampolloso. Le battute non finivano mai, l’azione si sfilacciava e la gente si mise a tossire, scartava caramelle... qualcuno cominciò a mormorare... Il pubblico non badava più al linguaggio ricercato del poeta e neanche alla recitazione di Ruggeri. Lui se ne accorse: nei brevi spazi in cui non aveva battute si avvicinava al mio cupolino e, mentre gli altri andavano avanti, mi diceva dove tagliare: intere scene! pagine buttate via per riprendere là dove l’azione tornava a farsi viva e palpitante! Faceva questi interventi con naturalezza, come se appartenessero al dramma! E io lo seguivo fedelmente: con un gesto della mano indicavo a chi toccava la battuta e ne suggerivo l’inizio. Come per incanto lo spettacolo riprendeva quota, e alla fine ci fu il trionfo. Soltanto Ruggeri poteva riuscire in un’impresa così rischiosa.

Rimane assorto.

Ma era soprattutto alle prove che Ruggeri era speciale. Io lo ammiravo ancora più che in scena. All’inizio della stagione radunava la compagnia: attori e tecnici si mettevano seduti a semicerchio, lui al tavolo davanti a loro, io al suo fianco, un po’ in disparte, dall’altro lato Martini, il direttore di scena. Ruggeri si toglieva il cappello per salutare l’autore quando era presente e lo stesso faceva per le attrici. Poi quel cappello se lo rimetteva in testa, con l’ala abbassata davanti, per tutto il tempo della lettura: era l’unica concessione che si permetteva e non vi rinunciava mai, quasi fosse una pratica necessaria per la riuscita dello spettacolo. Poi cominciava a leggere.
Via via Martini disegnava un abbozzo per la scena e glielo mostrava: lui faceva un cenno di assenso e continuava a leggere. Gli attori, nessuno aveva il copione, spesso non sapevano ancora che ruolo gli era stato assegnato. Lui faceva tutti i personaggi, la voce sempre controllata, anche nelle scene più drammatiche. Anzi, alla voce toglieva sovente un po’ di forza, spezzava una frase, lasciava una parola in sospeso... e raggiungeva una intensità maggiore. Faceva così anche durante la rappresentazione, e soprattutto nelle parti più drammatiche. Certi critici si disperavano: “Perché non dà più sfogo al tragico!? Più voce dovrebbe mettere!”, Simoni, Praga... non si capacitavano di tanta misura. Quando interpretò il Padre nei “Sei personaggi” protestarono in coro: con quello che gli era capitato, quasi un incesto, possibile che risolvesse tutto con quel filo di voce? Lui non cambiava. Ossia, cambiava nel profondo, non nella quantità. Eh! io lo capivo, quel suo modo di limare sempre di più, di “togliere” come fa lo scultore quando lavora alla sua opera!... E quel filo di voce, incantava!
Ma a una parte del pubblico piaceva ancora lo stile dei tromboni, e a lui toccava destreggiarsi fra la sua novità e l’esigenza di riempire il teatro. Quando stava scegliendo i testi per la stagione, “Che cosa farà quest’anno, maestro?”, gli chiedevo. E lui: “E’ un po’ difficile formulare programmi nel momento che stiamo attraversando. Riuscire a vivacchiare è già un risultato apprezzabile”. Io allora insistevo: “Maestro, lei può fare molto. Il pubblico la ama”. Scuoteva il capo, con me poteva confidarsi: “Recitare il meglio possibile ciò che mi si offre”. “Ma qualche bel testo nuovo...”. E lui: “Il nuovo cercarlo un po’ in me stesso... nel mio profondo sempre nuovi accenti, nuove reazioni...”.

Ma finalmente, oltre alle commedie di presa sicura, mise in cartellone “Amleto”; ci pensava da tempo. Gli piacevano di Shakespeare le divisioni per scene, perché non obbligavano a rimanere per ore nella stessa scenografia, e per i cambi non c’erano pause interminabili. Era ben consapevole della differenza fra i tanti autori che era costretto a rappresentare e la parola di Shakespeare: “La parola, sempre la parola, scritta e recitata”. Per lui il teatro era l’autore e l’attore. E li considerava di pari valore. “Perché – diceva - l’attore, nell’interpretare un pensiero in un testo, impiega il cuore, tutto il corpo, la voce, lo spirito, i nervi, il cervello: come può quest’arte essere inferiore a quella di tradurre questo stesso pensiero con delle parole?”. Ragionava così, si accalorava. E delle volte all’autore regalava quell’arte che nello scrivere, a quello, gli era venuta fuori scarsa. Cosa che certi critici gli rimproveravano. Perché confondeva il pubblico propinandogli delle cose mediocri come se fossero belle. Gramsci, sull’Avanti! glielo ha scritto più di una volta: “Recita sempre bene. In ciò consiste il suo talento e la sua deficienza artistica”. Ruggeri meditava su queste note; per lui un giudizio di Antonio Gramsci era più importante che la critica su di un giornale di forte tiratura: dentro a quelle riflessioni ci sentiva una spinta a cambiare repertorio, insomma gli diceva che lui poteva fare di più. Ma in quel tipo di società avrebbe davvero potuto cambiare qualcosa? Certi autori si imponevano per conoscenze importanti... per aver rinunciato all’arte accontentando i gusti più bassi del pubblico... Lui recitava quei ruoli fatti di niente con tale autorità che le povere banalità di cui era cosparsa la commedia prendevano nella sua bocca aspetti di pensieri. Gli altri attori della compagnia non erano certo alla sua altezza. Delle volte non ne poteva più, di loro, anche se li amava perché erano fragili e indifesi, e qualunque garzone di pizzicagnolo che acquistava un biglietto d’ingresso al teatro aveva il diritto di dire che un attore era l’ultimo dei cani, dei guitti, degli idioti, e se voleva poteva fischiarlo: gliel’ho sentito dire più volte. Ma quando i suoi attori non si impegnavano come lui pretendeva, allora li sferzava con quell’ironia che lasciava il segno: “Ah, poter recitare sempre in pochi! Anzi, in due. E magari uno è di troppo”. Poi si rassegnava, degli attori non poteva fare a meno.

E si decise a fare Amleto, aveva sempre rimandato, anche per la difficoltà di trovare attori all’altezza dei ruoli: non bastava lui protagonista, doveva lavorare su tutti i personaggi, sennò la storia si riduceva a un qualunque fatto di cronaca. Lo mise in prova con cura, era convinto che Shakespeare non aveva scritto niente di superfluo. Io suggerivo a più non posso e Ruggeri, cortese ma severo, portava avanti le prove, mai contento perché si rendeva conto che era difficile far alzare gli interpreti al livello che voleva lui. A teatro non si arriva mai alla perfezione: “Bisogna tenere la meta così alta, così lontana – diceva - da non poterla mai raggiungere”. Durante le prove faceva un richiamo continuo alla parola: “Il testo dice...”, “L’autore ha scritto...”. Non tollerava nessun cambiamento, neanche lo spostamento di una parola. “Come dice il testo?”, chiedeva rivolgendosi a me, e io subito: “Così così così così...”. “Ripeta!” diceva allora all’attore o all’attrice – dava del lei a tutti – “Ripeta!”, e dalla platea riprendeva a seguire la prova. Era insofferente dell’eccessiva confidenza. “Non amo la famigliarità, non amo la gente troppo cordiale...”: se qualcuno tentava di entrare in più stretto contatto con lui, glielo diceva in faccia. Agli attori spiegava il significato di ogni frase; preferiva che alle intonazioni ci arrivassero da soli, avrebbe fatto più in fretta a salire in palcoscenico e a recitarla come voleva lui, la battuta, ma non lo faceva quasi mai. “Mi copierebbero, sembrerebbe una caricatura”, scuoteva il capo, riprendeva con pazienza a spiegare. Poi, quando proprio capiva che l’attore non ci sarebbe arrivato, andava su e con garbo indicava il tono, mostrava il gesto, ma già in quel suo insegnare si immedesimava nell’altro, in quello che l’altro poteva raggiungere, di suo. Ah! per me erano i momenti più belli! “Come fa la battuta...?”. La disegnava nell’aria con la mano: “Il gesto precede e prepara la parola”. Delle volte aggiungeva che le parole bisognava dimenticarle per non essere posseduti che dal sentimento. E poi, quasi a se stesso: “Ma, ahimè, l’attore in genere non pensa che alle parole e a non dimenticarle”.

Quell’Amleto lo rappresentò per molto tempo. Aveva già una sessantina d’anni, e continuava a suscitare entusiasmi: “Sfronda la tradizione romantica... Passa dal dramma intellettuale al dramma passionale con rara spontaneità...”. Perché lui non cercava effettacci: ragionava, come se si trattasse di una questione da risolvere dentro di sé. Anche i grandi monologhi dove attori che lo avevano preceduto si erano gettati alla declamazione a tutto campo, lui, niente, erano problemi da affrontare attraverso la riflessione. Durante le prove si stupiva della facilità con cui gli venivano le battute: senza doversi imporre quella puntigliosa volontà di scavare il personaggio che lo contraddistingueva in ogni rappresentazione. E il più delle volte si trattava di ruoli semplici. Amleto, il più complesso, l’uomo moderno, pieno di problemi, per lui si scioglieva nel ragionare lieve. Io ci trovavo un po’ di me stesso, come tutti gli spettatori, credo.

Facevamo delle prove a parte, noi due. Per i grandi monologhi. Voleva trovare da solo, senza i compagni attorno, come interpretarli. E quasi si irritava, di quella facilità con cui gli venivano. Come se si trattasse di un trabocchetto. “Il maggior pericolo che possa correre un artista è quello di raggiungere troppo presto la meta che si era prefissata”: allora, quella facilità era un inganno? Arrivò al debutto preoccupato. Il Teatro Lirico, a Milano, era gremito di gente che lo seguiva da anni. Quanti grandi, grandissimi attori, si erano cimentati in quel personaggio? Novelli, Zacconi, Ernesto Rossi, Salvini, Emanuel... Lui se li sentiva intorno, a giudicarlo. E tremava. Si aprì il sipario. Io stavo pronto, in buca, sotto il mio cupolino. Partimmo senza più pensare a niente. Via via che il dramma andava avanti, piovevano gli applausi, anche a scena aperta. E alla fine degli atti, cinque, sei, anche sette chiamate e grida di “Bravo! Bravo!...”. Lui si fidava del giudizio distaccato con cui seguivo, per mestiere, l’intero spettacolo. In un intervallo, mi chiamò nel suo camerino: “Non mi staranno prendendo in giro?”. Verso la fine si era concesso di aggiungere una scena che Shakespeare non aveva scritto: dopo la sepoltura di Ofelia, Amleto tornava nel cimitero e gettava rose sulla sua tomba. Per un attimo la gente rimase sorpresa, ma poi applaudì: si era commossa. La mattina dopo gli portai i giornali. Di solito Ruggeri non era ansioso di leggere le critiche. Quella volta sì. Facevano a gara a chi esprimeva più ammirazione. “La vittoria non poteva essere più completa”: Renato Simoni. D’Amico avanzò qualche riserva perché si eran fatti dei tagli secondo lui troppo forti. Ma fu entusiasta dell’interpretazione di Ruggeri: non più “come si parla nella vita”, ma attore nuovo, del nostro tempo. Un critico intrigante accusò Ruggeri di aver aggiunto la scena delle rose per fare di Amleto un romantico esasperato. Ruggeri gli rispose per le rime con una lettera che il giornale pubblicò con risalto: la scena delle rose non l’aveva inventata lui, ma un grande attore inglese, e a Londra l’idea era stata molto apprezzata! In realtà quel tale aveva il dente avvelenato perché Ruggeri non aveva scelto la traduzione fatta da lui. Quante polemiche sciocche, quanti fastidi! Ma il teatro è così. Bisogna prendere il bello e il brutto. Come la vita.

Sfoglia qualche pagina dei copioni.
Trova una fotografia che fa scivolare appena fuori dalle pagine, per poi lasciarla dove l’ha trovata.

Sua madre. Teneva sempre una sua foto in camerino. La prima cosa che faceva, arrivando in un teatro, la metteva sulla toletta e se la guardava, come se le chiedesse di stargli vicino per sostenerlo. Quando si fermava a Milano, viveva con lei. Una sorta di venerazione. E forse per la madre non si era mai sposato. Nessuna donna poteva esserle paragonata. Suo padre era morto quando aveva quindici anni, lei se l’era tirato su da sola e l’aveva seguito nella sua vocazione, anche se da buona borghese era lontana da quell’arte da girovaghi, come era considerato il teatro a quei tempi. Veniva ad assistere a qualche rappresentazione, alta, severa, con i capelli bianchi spartiti nel mezzo e un sorriso di fierezza per il figlio acclamato da tutti che lei sola conosceva nei momenti privati. Tutti quelli che gli scrivevano – autori, critici, attori – la nominavano sempre, lasciando i saluti più deferenti, il ricordo più rispettoso... “Mi ossequi, La prego, la Sua Mamma...”: così Luigi Pirandello. E lei, fin dagli esordi, voleva che il figlio se stava in tournée le telefonasse dov’era e che cosa faceva, in ogni momento...
Quand’era con lui, gli preparava la cesta che conteneva il vestiario per la rappresentazione: solo lei doveva toccare gli indumenti che lo avrebbero rivestito. E quando morì – Ruggeri aveva più di cinquant’anni – prima di coricarsi, lui mormorava “Buonanotte, mamma. Tutte le sere finché vivremo”: lo rivelò a Sabatino Lopez, un suo amico carissimo. Ho visto quel biglietto mentre lo scriveva con la sua calligrafia elegante e l’inchiostro di china. La madre era morta da tre anni, ma lui continuava a parlarle.

Dopo la morte della madre, Ruggeri si era chiuso per un lungo periodo nella grande casa milanese, lontano da tutti. Ero andato a trovarlo: “Maestro, non fa compagnia quest’anno?”, io non sapevo se mantenermi libero o accettare qualche contratto. “Fra un anno - mi disse – lavorerai di nuovo con me”. Aveva una gran voglia di rinnovarsi, di vedere spettacoli fuori dall’Italia; qui si sentiva soffocare; voleva “rivedere” anche i ruoli che aveva portato trionfalmente in giro per l’Europa e in America, aprire gli occhi su di una realtà che fuori era già in crescente mutamento, mentre da noi la gente, pur cominciando ad accettare Pirandello, non riusciva a fare a meno di drammoni come “Il figlio del forzato”, “Il piccolo Santo”, “Sly” di Gioachino Forzano... Me ne andai sconsolato. Gli altri attori, anche di nome, mi parevano vecchi e imbalsamati dietro storie inutili e sciocche. Mentre me ne stavo a meditare, mi capitò una doppia fortuna! Pirandello aveva deciso di portare in tournée la sua Compagnia del Teatro d’Arte a Parigi e a Londra. Mi chiamò, aveva bisogno di un suggeritore in gamba per star dietro ai tanti lavori in cartellone. Accettai al volo, e mi trovai con Ruggeri!: Pirandello gli aveva chiesto di andare con lui per delle serate straordinarie. Recitare all’estero e scoprire un teatro vivo,fuori dall’isolamento della cultura italiana, era tutto quello che Ruggeri desiderava.

Con Pirandello il teatro stava facendo passi avanti. In buca a suggerire io mi divertivo, perché le battute nascondevano un significato diverso da quello che sembrava lì per lì. Per Ruggeri è stata una rivelazione. Prima era costretto a inventare quanto mancava al personaggio; doveva lui far brillare di mistero le vicende stupide che gli toccava di rappresentare... Con Pirandello le parole erano già dense di significato, e Ruggeri si adeguava a quanto trovava scritto... Io me ne rendevo conto, mentre suggerivo. Io usavo il tono monotono del mio mestiere, e subito ad ogni frase saltava fuori un risvolto inaspettato! Cominciò alla grande con “Il piacere dell’onestà”: a Baldovino dovevo stargli dietro per i ragionamenti che rasentavano la pignoleria, tutto il contrario delle frasi vuote dei bellimbusti superficiali del vecchio teatro. Ruggeri non sbagliava mai, io stavo attento a seguirlo, ma la logica dei discorsi era così perfetta, che l’attore non aveva bisogno di fare delle pause “per riempire”, fingendo di pensare. La gente accorreva a teatro perché la storia sembrava una delle tante commedie basate sul classico triangolo: pregustava di divertirsi, e gli veniva sbattuta in faccia una realtà ribaltata! Gli spettatori erano disorientati, ma rimanevano incollati alle poltrone e la conclusione arrivava sempre imprevedibile!

Pirandello aveva trovato in Ruggeri il suo interprete ideale, e ormai scriveva per lui. Gli mandava lettere su lettere. All’inizio si davano dell’”illustre amico”, poi sono scesi al “caro”, e alla fine i saluti si son fatti “affettuosi”. Io mi crogiolavo: in quei drammi non c’era quasi mai da tagliare, ogni frase aveva un senso preciso, e alla fine i teoremi dall’apparenza più astrusa quadravano eccome! Nelle lettere Pirandello raccontava a Ruggeri la trama dell’opera e descriveva il protagonista, che era sempre perfettamente adatto all’attore. Dopo un lungo lavorìo gli mandò “Il giuoco delle parti”, era una commedia un pochino cervellotica. Ruggeri sperava di ripetere il successo ottenuto con “Il piacere dell’onestà”, ma all’inizio lo spettacolo non andò tanto bene. Bisognava capire la metafora; se il pubblico prendeva la storia alla lettera, addio, tutto si riduceva a un giochetto mentale. “Il pubblico di oggi non capisce – diceva Pirandello a Ruggeri per consolarlo -, ci vuole tempo, capiranno le generazioni future”. Era amareggiato dal fatto che a lui e agli autori italiani in genere venivano preferiti i francesi, maestri in tradimenti e pochades. “Il popolo italiano... nato cameriere, pronto a prosternarsi davanti a ogni cosa straniera soltanto perché straniera...”: è una frase di Pirandello che non ho dimenticato. Per fortuna la gente andava accorgendosi dei suoi lavori. E lui, a Ruggeri, mandò “Tutto per bene”. Lo stile, borghese: Pirandello l’aveva costruito apposta così per imbrogliare il pubblico: lo divertiva, lo stuzzicava, poi cambiava registro e lanciava la sua frecciata contro l’ipocrisia: il protagonista era un signore che tutti trattano con sufficienza: perché? Perché credono che sappia che quella che crede sua figlia è nata dalla tresca di sua moglie con l’amico di famiglia! Marco Praga ne parla come di una commedia vecchia, dove “non si riconosce neanche Pirandello”. E giudica l’interpretazione di Ruggeri un disastro, perché “non vibrava”!, capite? Voleva che gridasse per il dolore, per la rabbia, quando Martino Lori scopre, dopo vent’anni, il tradimento della sposa adorata, e soprattutto capisce perché la figlia lo ha sempre trattato con freddezza: perché è convinta che lui, che non è suo padre, abbia approfittato della situazione per vivere agiatamente. Praga voleva che Ruggeri “gridasse per l’anima in tumulto”, invece – scrive - gli pare il tono di quando al suo barbiere dice: “Fatemi la barba”. Chi invece esulta è Piero Gobetti, che dopo averlo tanto trascurato, finalmente, gli dedica un intero saggio: “C’è voluto Pirandello per svegliare Ruggeri!”.

Ma era duro far capire a un pubblico di media cultura la novità di Pirandello. Soltanto quando arrivò “Enrico IV” non ci furono più dubbi; neanche il pubblico più disattento o i critici più presuntuosi caddero nell’equivoco. E pensare che la decisione di metterlo in scena era stata contrastata. Questioni di cartellone. Pirandello gliel’aveva raccontata tutta, per filo e per segno, la storia, calcando sul protagonista. Io sbirciavo le lettere: Ruggeri stava recitando lavori collaudati nelle stagioni passate: “Parisina” di D’Annunzio, “Sogno d’amore” di Kossatoroff, esigenze di programmazione inderogabili. La compagnia di Ruggeri si era fusa con quella di Virgilio Talli, il suo antico maestro; speravano, insieme alla Borelli di fare più cassetta. Ma la cosa non partiva: colpa proprio della distribuzione. Eppure! c’è sempre da stupirsi, al mondo. Silvio D’Amico non si immischiava mai nelle decisioni delle compagnie e a per esprimere un giudizio spettava di assistere agli spettacoli. Quella volta scrisse a Ruggeri: come mai non avevano ancora deciso di mettere in scena l’”Enrico IV”? Pirandello glielo aveva letto e ne aveva fatto emergere tutte le sue intenzioni: la parola rivelava verità stupefacenti; attraverso il personaggio si afferrava il tormento dell’uomo in crisi, l’uomo della società moderna... Quando poi D’Amico vide il testo in scena ne scrisse con fierezza: quello spettacolo era anche merito suo!

Dalla valigia trae un libro. Lo mostra, poi lo ripone.

Ma le note che più inorgoglirono Ruggeri sono state quelle di Gobetti, sempre con quel tono polemico, da professorino: faceva un complimento e sembrava che rimproverasse: “l’attore – aveva scritto - era pirandelliano indipendentemente dal maestro”, insomma, metteva Ruggeri sullo stesso piano dell’autore. Per lo spettacolo, io sempre in buca con il copione sottolineato, le pause ben evidenti per evitare di suggerire a sproposito... A Milano il debutto, poi la tournée in tutta Italia e alla fine Roma: un trionfo ininterrotto. Pirandello meditava per Ruggeri un paio di testi nuovi, gliene aveva già dedicato cinque o sei, tutti andati in scena con successo. Ma intanto aveva conosciuto Marta Abba e, folgorato dall’attrice, per una decina d’anni non scrisse che pensando a lei. E’ stato un bene? Più che di nuovi testi, Ruggeri sentiva il bisogno di confrontarsi con il teatro che si faceva fuori dall’Italia. Così accettò la proposta di Pirandello e andò a recitare con lui a Londra e a Parigi a Londra e a Parigi. E a Parigi conobbe Germaine Darcy. Nessuno di noi capì mai fino in fondo se Ruggeri si fosse innamorato davvero di quella donna bella, un po’ mascolina, che si muoveva con facilità nei salotti intellettuali di Parigi. Una donna indipendente, matura ma ancora giovane. Una signora che non sentiva la necessità di sistemarsi, come in genere le donne di quell’epoca, che volevano sposarsi a tutti i costi. Gli mancava la madre, a Ruggeri. Una compagna con cui parlare, una volta finito lo spettacolo. Una che non lo irretisse come avevano tentato parecchie primattrici; che gli desse sicurezza, che avesse cultura e lo seguisse nelle tournées... Così era lei, una compagna; e andò con lui perfino a New York. La traversata sul Giulio Cesare fu forse la vacanza più bella del grande attore. Lo vedevo passeggiare sul ponte, nella vasta sala da pranzo, nello spazio del tennis... Parlava fitto fitto con la moglie dandole il braccio, elegante come se si fosse trovato in un salotto milanese. E finalmente sorrideva. Io stavo con i tecnici, nella classe meno cara... Ma mi riposavo anch’io. E là, a New York, di nuovo successi. Anche con spettacoli più – come dire? – liberi dai sofismi del grande Pirandello. Socrate, i Dialoghi; e poi l’arcivescovo Beckett, dell’Assassinio di Eliot.

Si divertiva, nei momenti di riposo, a inventare anagrammi. Erano una sua mania: gli piaceva trovare in parole dal significato magari austero un ribaltamento buffo, un contrasto che dimostrasse come tutto si può capovolgere rivelando il suo contrario. Per esempio, Angelica diventava Canaglie! Ciclopi, Piccoli. Estasi, Siesta. E poi, Esercito, Cortesie... Pallade, Padella!... La sua soddisfazione cresceva quando riusciva ad anagrammare la parola in altre due: Pietro, Pareti, Aprite! Il massimo lo raggiunse con quattro: Oncia, Acino, Caino, Icona! Era un gioco che lui faceva sul serio. Vi coglieva il ribaltamento di una realtà che per un piccolo mutare di sillabe diventava tutta un’altra cosa. Scardinava le parole con il candore curioso di un bambino. Il suo trionfo più grande, quando scoprì che Attore diventava Teatro: vide in questo misterioso mutamento il segno di una coerenza, di una fedeltà al grande amore della sua vita.

Il rischio faceva parte del suo carattere. Negli ultimi tempi si era rimesso in gioco accettando di recitare in testi nuovi.
Un giovane regista, Vito Pandolfi - aveva venticinque anni e usciva dalla Resistenza - propose a Ruggeri “La luna è tramontata” di Steinbeck. Artisticamente l’opera non valeva un granché, ma nell’aria si avvertiva un bisogno di cose buone, di ottimismo, e Ruggeri accettò perché il testo parlava di pace, di giustizia, vi figurava perfino un’apologia di Socrate che lo riportava ai suoi Dialoghi. Pandolfi era appena uscito dall’Accademia, Ruggeri recitava da settant’anni, eppure avevano trovato il modo di lavorare insieme. Il regista si rivolgeva al grande attore con una sorta di deferenza: che cosa cercava di imparare da lui? La semplicità di comunicare, la verità nel dire! Gli offriva delle idee intelligenti anche se acerbe, e Ruggeri lo assecondava con gentilezza. Come mai si era lasciato convincere ad affrontare un testo in cui prevalevano i contenuti, cosa che aveva sempre avuto in odio? Perché era un teatro che suscitava giudizi, oltre che emozioni: un’esperienza stimolante, e Ruggeri non aveva voluto rinunciarvi!

Dalla valigia estrae una fotografia.

Era unico, Ruggeri. Unico in tutto. Anche in questa fotografia dimostra la sua unicità.
Qui è insieme alla Compagnia, quando recitavano i “Sei personaggi” al Carignano di Torino. Il gruppo è in posa davanti alle statue di una fontana ricoperta di ghiaccio. Le belle attrici avvolte nelle loro pellicce sorridono, ben dritte sui caldi stivaletti imbottiti. Nella fila dietro, gli attori sporgono sopra le compagne fissando l’obbiettivo: i giovani con berretti di lana, i più maturi sotto i cappelli Borsalino. Di lato un giovanotto ride in equilibrio sulla sponda gelata. Ruggeri è fra due attrici, il solito cappello calcato sulla fronte, di profilo, il volto inclinato verso il terreno bianco di neve: dimentico degli altri, osserva con un sorriso appena accennato il cane al guinzaglio della primattrice, imbacuccato in un pellicciotto dal collare a corona.

Si alza, piega la sedia e la ripone nella valigia, che chiude.
Si inchina agli spettatori. Esce.

BIBLIOGRAFIA

Leonardo Bragaglia, Ruggero Ruggeri, Trevi Editore, Milano, 1968.

Vito Pandolfi, Antologia del grande attore, Edizione dell’Espresso.

Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, letteratura e vita nazionale, Le idee, Editori Riuniti, 1971.

Leonardo Bragaglia, Aggiornamento critico dei giudizi sull’arte interpretativa di Ruggero Ruggeri, 1971.

Leonardo Bragaglia, Taccuino segreto di Ruggero Ruggeri, Renzo Mazzone editore, Palermo, 1973.

Piero Gobetti, Scritti di critica teatrale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1974.

A cura di Guido Lopez, La “cesta” di Ruggero Ruggeri, De Carlo Editore, Roma, 1980.

Leonardo Bragaglia, Carteggio Pirandello – Ruggeri, Biblioteca Comunale Federiciana, Fano, 1987.

Leonardo Bragaglia, Ruggero Ruggeri e Gabriele D’Annunzio, ne Il contemporaneo, Roma, 1987.

Associazione Nazionale Critici di Teatro, Un grande attore e il suo repertorio: il caso Ruggeri, Biblioteca Comunale Federiciana, Fano, 1988.

Scritti tratti da riviste, giornali, saggi di
Varaldo Alemanno, Francesco Bernardelli, Alberto Cecchi, Antonio Cervi, Silvio D’Amico, Renato Simoni, Carlo Terron, Vincenzo Tieri, e altri.


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