UN PERCORSO DI RICERCA

Le radici di una scelta

Per tradizione al Liceo D'Azeglio di Torino la Terza C rappresentava la tragedia greca dell'esame di maturità. Il professor Leonardo Ferrero, la allestiva nell'Aula Magna dove confluivano ad assistervi le classi. Si ricordava un anno in cui il bacio fra Oreste/Ennio Caretto e una studentessa/Elettra -i due avevano un filarino- suscitò un tale entusiasmo fra i ragazzi che l'austero preside minacciò di far uscire tutti quanti.
Già dal primo anno noi della C recitavamo. Nella villa del nostro compagno Roberto Herlitzka in Piazza d'armi vecchia nella palestra all'ultimo piano provavamo il "Miles gloriosus" di Plauto, sotto la guida di Piero Nuti, un attore che aveva affidato a Roberto la parte di Palestrio, il servo furbo, mentre il Miles lo faceva Pierluigi Baima e io ero Filocomasio, la signora.
Per il nostro terzo anno Ferrero scelse "Il ciclope" di Euripide, spintovi forse da interessi universitari. Il testo non aveva parti femminili; io mi alzai dal banco e con il volto in fiamme per l’ardire deprecai quella discriminazione; ma le mie compagne erano ben contente di non dover sottostare alle prove, e la mia ribellione rimase ignorata. Per l'astuto Ulisse fu scelto Herlitzka,, il Ciclope se lo prese Baima, che finito il liceo scelse poi medicina e si dedicò a ricerche e studi sulla Santa Sindone. Herlitzka invece andò a Roma all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica, perché voleva fare l'attore. Io mi iscrissi a Legge, ma continuai a pensare al teatro.

Il Centro Universitario Teatrale

All'università di Torino era attivo il CUT - centro universitario teatrale. Lo dirigeva Alberto Ruggero, un genio ventenne divorato dalla frenesia di fare. Eravamo pazzi per il "Woyzeck" di Büchner e per “Morti senza tomba” di Sartre; passione rivoluzionaria ed estenuazione romantica, impegno antifascista e volontà di condivisione si intrecciavano nel clima ancora infiammato dalla Resistenza. A Palazzo Carignano l’Unione Culturale organizzava letture del Dibbuck e di lettere di partigiani condannati a morte; Franco Antonicelli dall’eloquio fluido vi teneva conferenze affollatissime. Al Teatro Stabile appena costituito Gianfranco De Bosio metteva in scena Ruzante e Giacomo Colli "La giustizia" del sardo Giuseppe Dessì. Andavo scoprendo linguaggi forti e contenuti impegnati.
La direzione del CUT mi arrivò da Ruggero; partito per fare regia all'Accademia, quando tornava ci descriveva Tofano, la Capodaglio e Orazio Costa; aveva stabilito un’amicizia connivente con un compagno, Carmelo Bene, con cui poi andò via dalla scuola - secondo un’altra versione, tutti e due ne vennero cacciati -; insieme misero in scena “Caligola” – altro nostro mito – dopo essere stati a Parigi a trovare Camus, che diede gratis i diritti. Il nome di Costa mi rimbalzava nella mente; mi tornò nitida l’immagine di un coro di vecchi in panni blu che si ammantavano di rosso all’entrata di un messo che raccontava la terribile morte di un re: il primo spettacolo della mia vita era stato l’ “Agamennone” di Eschilo a Ostia Antica, regìa di Orazio Costa, scene e costumi di Tullio e Valeria, suoi fratelli.
All’università mi emozionava filosofia del diritto con Norberto Bobbio, che a ognuno di noi faceva tenere una lezione ascoltandoci seduto in mezzo agli studenti; a me assegnò "Diritto naturale e diritto positivo". Giovanni Conso, per procedura civile e procedura penale ci mandava a seguire i processi e ce ne chiedeva una relazione scritta. Luigi Firpo - storia delle dottrine politiche - ci spiegava gli Utopisti del seicento, Tommaso Campanella, Tommaso Moro, Giordano Bruno; con lui feci poi la tesi. Massimo Scaglione con il Teatro delle Dieci – trasgressivo già a partire dall'orario per i torinesi – metteva in scena il teatro dell'assurdo – Jonesco, Tardieu, Adamov - tradotto da Gianrenzo Morteo, e il teatro irlandese di Brendham Behan.

Il Piccolo Teatro di Milano

Scaglione mi aveva insegnato come si lavora a un programma, in RAI era già ben conosciuto e io vi entrai come assistente alla regìa di piccole trasmissioni, il che mi permise di andare alla TV di Milano, dove si facevano le commedie; in realtà volevo penetrare in quel Sancta Sanctorum che era il Piccolo Teatro, avevo visto memorabili regìe di Strehler, da "L'opera da tre soldi" all' "Arlecchino". Al CUT di Milano misi in scena delle farse spagnole del seicento con gli scenografi di Brera; andammo al Teatro Regio di Parma per il Festival del Teatro Universitario, in un clima internazionale ricco di talenti in divenire.

Mi stavo rendendo conto della necessità di scuola, per ricercare le ragioni del fare teatro.
In TV lavorai con Giacomo Colli e poi con Gilberto Tofano, figlio del grande Sergio. Mi capitò un’assistenza con Mario Ferrero per “Il caso di Anna O.”, Freud alle prese con l'isteria della sua prima paziente, protagonista Valeria Moriconi; ma Ferrero era così corrosivo con le sue battute che mi limitai ad ammirarne la bravura. Colli l'avevo ritrovato da Torino; da lui che mi venne l’incoraggiamento a tentare l’Accademia.
Ruggero Jacobbi era un intellettuale di genio; tornato dal Brasile dove aveva fatto teatro e cinema per quattordici anni, era approdato al Piccolo accoltovi dagli amici Grassi e Strehler; gli avevo chiesto di tenere un corso per gli studenti del CUT, e così avevo fatto con Maurizio Scaparro che cominciava ad avvicinarsi al teatro, e con Luigi Ferrante, un valente studioso di Pirandello, purtroppo scomparso poco dopo. Jacobbi mi propose di fargli da assistente per la Prima Rassegna degli Autori Italiani voluta da Paolo Grassi per valorizzare la drammaturgia italiana; mi parve un sogno lavorare in quel mitico teatro. Gli spettacoli erano “Il Re dagli occhi di conchiglia" di Luigi Sarzano, "Una corda per il figlio di Abele" di Anton Gaetano Parodi - entrambi diretti da Jacobbi - e "L'equipaggio della zattera" di Alfredo Balducci, regista Virginio Puecher. Il testo di Parodi avrebbe dovuto dirigerlo Raffaele Orlando, allievo prediletto di Orazio Costa, ma dovette rinunciarvi per il male di cui sarebbe morto poco dopo. La fama del Maestro cominciava a emergere con insistenza. Anche Jacobbi apprezzava quest'uomo pur così distante da lui: religioso, ascetico, senza esibizionismi, e docente di regìa all'Accademia; lo stimavano anche Grassi e Strehler, pur così esclusivi del loro teatro; era l'unico, Orazio Costa, ad avere accesso al Piccolo per almeno uno spettacolo all'anno. Dal fondo del Teatro dell'Arte dove si teneva la Rassegna vidi Orazio Costa provare l' "Anitra selvatica"; dal palcoscenico dialogavano con lui affondato nella platea buia Gabriella Giacobbe, Renato De Carmine, Roberto Herlitzka: Roberto, l’antico compagno del D'Azeglio, mi parlò con entusiasmo del Maestro con cui si era formato. Gilberto Tofano mi aveva raccontato di suo padre insegnante in Accademia; che un attore così moderno e famoso fosse anche lui in quella scuola accrebbe in me la convinzione di doverci andare al più presto.

Il Bando di Concorso per l’Accademia

A Torino dove ritornavo per i fine settimana frequentavo un gruppo di studenti allegri e musicisti. A tarda sera in una delle case fumose in cui ci si riuniva arrivava spesso un ragazzo timido dai capelli rossi che accompagnandosi con la chitarra cantava canzoni inventate da lui; era Gabriele Lavia. A Palazzo Campana sede di Legge lessi un giorno nella bacheca in faccia alla scalinata un bando di concorso per l'Accademia: esservi ammessa mi parve cosa folle, a cui non sarei mai arrivata; poi cominciai a risentirmelo dentro, quel bando, come una punta inesorabile e astuta, che mi provocava a cimentarmi. Anche Lavia l'aveva letto; ne parlammo in una di quelle sere di chitarra. Decidemmo di preparare l'esame, lui come attore, io da regista. Avevamo scelto "Il matrimonio" di Cecov e "Knock o Il Trionfo della medicina", perché se ne potevano ricavare i due dialoghi richiesti, uno comico e l'altro inquietante. Tornò utile per mettere a punto le scene quanto sperimentato al CUT con le lezioni della paziente signorina Eva Franchi, e l'impeto a osare appreso da Ruggero. In uno stato d'animo che oscillava tra l'incoscienza e il panico partimmo per Roma.

L’esame

Al Teatro Studio Eleonora Duse – il “Teatrino di via Vittoria” – dove si tenevano gli esami, passò prima Lavia, nella categoria attori, cercandosi una "spalla" tra le allieve per sostituire me che sarei stata chiamata giorni dopo. Incontrai Mario Bussolino; era stato al CUT di Torino insieme a noi e frequentava il terzo anno di Accademia: andai all'esame con lui. Fra le quinte del Teatrino un piccolo portiere gallonato con baffetti alla Charlot - Guelfi, un’istituzione in Accademia - mi porse un bicchier d'acqua prima che entrassi in palcoscenico; si era certamente accorto che tremavo, non dimenticherò mai quel gesto grazioso che per me rappresentò un augurio. In mezzo alla sala intorno a un tavolino era riunita la Commissione, composta seppi poi - da Giorgio Bassani, Jone Morino, Elena Povoledo, Sergio Tofano e Orazio Costa che riconobbi avendolo visto, sia pure di lontano, alle prove a Milano. Le scene passarono senza intoppi; mi invitarono a sedere e mi porsero un libro per la lettura “all'improvviso”: benissimo. Discussione sui temi assegnati giorni prima, "'L'avaro' nel teatro di tutti i tempi" e l'impostazione registica di "Fuenteovejuna" di Lope de Vega, che avevo scelto fra i testi proposti. Si meravigliarono per la distribuzione degli attori che dimostrava conoscenza del panorama teatrale - qui mi erano serviti il lavoro al Piccolo e la pratica della televisione -; si andava creando un clima che non faceva più sentire il peso dell'esame. Costa a un certo punto esclamò: "Mi parre che potrrebbe bastarre!" – capii allora perché tutti quanti volendo imitarlo insistevano sulla erre - e gli altri si dichiararono d'accordo. Passavano i giorni nel timore di essere stata scartata. Andai a trovare Goffredo Bellonci, conosciuto a Venezia agli incontri di Storia del Teatro all’Isola di San Giorgio. Mi accolse festosamente, infantile nella sua vecchiaia gioiosa; Maria dalla chioma corvina salutò dal fondo del corridoio, intenta ai libri del Premio Strega. Gli raccontai dell'esame; si stupì che non gliene avessi parlato, dal momento che un candidato cerca sempre qualche appoggio; ma io volevo sapere se possedevo le qualità per regìa – replicai -, e non avevo cercato raccomandazioni: mi lanciò un'occhiata commiserevole, evidentemente conosceva la vita. Telefonò a Costa e gli chiese com'ero andata; dall'altro capo del filo le parole si accavallavano in un tripudio di erre doppie, gli unici suoni che riuscivo a percepire; più l'ascolto si faceva lungo, più temevo la giustificazione di un rifiuto. Finalmente Bellonci ringraziò e abbassò il ricevitore. Lo guardavo muta, senza respirare: " 'E' andata anche troppo bene!' mi ha detto Costa", esplose Bellonci.

L’Accademia

Avevo ottenuto il trasferimento da Milano a Roma, con la possibilità di lavorare in TV purché rispettassi le lezioni; il direttore dell’Accademia Renzo Tian aveva ottenuto questo permesso da Sergio Pugliese, il direttore della RAI con cui avevo sostenuto l'esame per entrare in televisione. Facevo orari stressanti, ma ne valeva la pena. Cominciavo quell'avvicinamento al teatro secondo un'ottica non strumentale che, pur mettendo in risalto apprendimento tecnico e disciplina, andava a ricercarne il senso profondo.

Ricordo le prime prove con Costa per una rappresentazione dei Vangeli ad Assisi, dove il Maestro - che voleva lo chiamassimo “dottor Costa” - aveva la consuetudine di andare dopo Natale con un gruppo di allievi. Provò tutte le ragazze, e poi scelse me per la Madonna; mi vennero le vertigini: lavoravo al suo fianco e al tempo stesso recitavo, cosa a cui non avevo mai aspirato ma che capivo pertinente alla regìa. Cominciavo a capire che cosa significa preparare un coro, scegliere le voci articolandole nella gradualità dei toni, alternare gli interventi dei personaggi, in un clima di straordinaria intensità, senza scene né costumi, affidandosi soltanto alla parola.

I tre anni di regìa passarono veloci. Gli appunti sulle lezioni di Orazio Costa potrebbero essere materiale di una pubblicazione, perché offrono spunti di riflessione e aperture all'interpretazione insuperati. “La regìa come coscienza dello spettacolo”, “Il personaggio è la battuta”… Qualche volta a casa del “dottor Costa”, in viale Parioli, per una colazione durante le prove. Il saggio di secondo anno, tre canti dell' "Inferno" da interpretare con un coro di allievi. Il saggio di diploma - "Il feudatario" di Goldoni - con tutta la classe degli attori, le scene di Paolo Bregni e i costumi disegnati da Gabriele Lavia/Arlecchino e realizzati dalla Sartoria Peruzzi. Poi le assistenze a Costa per i congressi internazionali delle scuole di recitazione. Il monologo di Sigismondo dal Calderòn con Italo Dall'Orto, le estenuanti prove mimiche per l’Oreste alfieriano con Lavia. Scrivo il mio primo testo - "Santa Maria dei Battuti" - insieme a Franco Cuomo dopo un soggiorno nell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia “liberato” da Franco Basaglia, e Costa lo legge e me ne ritorna il copione, carico di suggerimenti appuntati in una notte ad Assisi; in scena con la mia regìa suscita scontri, polemiche e condivisioni, dal Teatro Lirico di Milano a cui lo invita Grassi memore dei miei inizi, fino alle palestre di cittadine meridionali; lascio la tournée dello spettacolo e seguo Costa a Bruxelles per il "Songe d'une nuit d'été": la mimica, applicata agli attori del Rideau ne accresce la formazione artistica.

Il film sul metodo mimico

Una decina d'anni di incontri saltuari con Costa. Escono mie recensioni di suoi spettacoli a San Miniato, Roma, Firenze, sull’Avanti! e sull’Ora di Palermo. "Tre sorelle" è un momento di amarezza manifestata nelle note al programma di sala. Pochi anni dopo Costa abbandona l'Accademia per ragioni complesse non ascrivibili solo al clima, certo rovente, determinato dagli studenti; le cause di questo allontanamento volontario riguardano rapporti di relazione, ma soprattutto la necessità del Maestro di lavorare al metodo senza le costrizioni della scuola determinate dagli altri insegnamenti.
Finalmente ci incontriamo. Costa sfoga la delusione per l’impotenza in cui si trova, senza l’appoggio di strutture, senza un teatro come sede; le sue speranze sono ora più che mai incentrate sulla mimica che ha sviluppato attraverso l’apertura di due punti chiave di apprendimento, dalle diverse finalità, Firenze e Bari. Ha scritto delle relazioni per qualche convegno o rivista, ma non si è curato di mettere insieme un trattato organico, forse perché sarebbe impossibile realizzarlo e soprattutto renderlo applicabile, ma questa è l’esperienza da salvare perché prosegua nel tempo: nasce l’idea di fare un film sul metodo. Ne inizio la preparazione seguendo le lezioni che tiene a Firenze, al MIM - centro di avviamento all'espressione, con la collaborazione di ex allievi; le frequenta gente di provenienze disparate, giovani e anziani, senza imposizione di un esame preliminare né conclusivo: è una sollecitazione alla creatività presente in ogni soggetto, in quanto “naturalmente mimico”. La Scuola di Espressione e Interpretazione Scenica di Bari sviluppa il metodo per la formazione dell’attore addestrandolo all’espressività del corpo, portata poi nella voce; questa scuola è un sogno che Costa coltiva da quando si è trovato in armonia con gli ideali di Copeau; per tre anni sembra concretizzarsi, ma poi vengono a mancare le sovvenzioni della Regione e la scuola chiude.
“L’uomo e l’attore – Orazio Costa, lezioni di teatro”, più parti in tutto una decina di ore, prodotto dalla Ricerca e Sperimentazione RAI, viene presentato al Teatro Piccinni di Bari suscitando vivissimo interesse. Costa realizza ancora qualche spettacolo nel quale si intravvede il suo discorso di poesia: a Palazzo Vecchio ", La beffa del grasso legnaiuolo” di Antonio Manetti, protagonista Roberto Herlitzka nel ruolo del Brunelleschi; dopo “Ipazia” di cui era interprete Ilaria Occhini, “Rosales”, ancora di Mario Luzi, con Albertazzi, Edmonda Aldini ed Elisabetta Pozzi.

Nella settimana di Pasqua del 1989 ci incontriamo di nuovo per parlare del metodo, discorso infinito. Andiamo in Corsica, sulle tracce dei luoghi d'origine della madre di Orazio; fra una passeggiata e una visita ad Ajax o a Portovecchio prosegue il discorso sulle potenzialità espressive della mimica; non un'esasperazione maniacale, ma una riflessione sull'esistenza stessa.

Il ritorno di Orazio Costa in Accademia

In Accademia propongo al direttore Luigi M. Musati degli incontri con gli allievi per mostrare i filmati sul metodo. Ho già sperimentato l'interesse che suscitano, in un seminario all’università presso l’Istituto del Teatro diretto da Ferruccio Marotti, con cento studenti. L'entusiasmo degli allievi è tale che l’anno dopo viene chiesto a Costa di tornare in Accademia.
Il Maestro imposta le lezioni sviluppandole in tempi dilatati; dopo un periodo di addestramento al metodo passa al lavoro su "Amleto". Riprendo delle prove mentre Costa va spiegando il lavoro. In agosto questo work in progress viene portato al Festival di Taormina dietro invito di Gabriele Lavia che lo dirige. Da questo lavoro, che Costa proseguirà l'anno dopo con lo stesso gruppo, escono attori di particolare intensità e duttilità espressiva ; fra questi, Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Fabrizio Gifuni.

Le prove di “Abelardo Eloisa Eloim”

Nel 1997 il Maestro volle mettere in prova un mio testo. “Abelardo ad Eloisa – Eloisa ad Abelardo” era andato in scena al Festival di Anagni nel 1994. Stranamente Costa non conosceva in maniera approfondita questi due grandi personaggi medioevali – Come mai Dante non ne parla?, si chiedeva stupito - e scopertili attraverso il mio lavoro se ne era innamorato. Mi spinse a scriverne una versione con maggior spazio alla dimensione filosofico-teologica di Abelardo, che si era scontrato con Bernardo di Chiaravalle sostenitore della fede, portando la ragione per la conoscenza di Dio. Lavorai con passione a un nuovo dramma, che si chiamò “Abelardo Eloisa Eloim”. Costa si stabilì a Roma a sue spese da Firenze, e cominciò le prove al Résidence di Ripetta, concertando con Albertazzi, divenuto direttore del Festival di Taormina, di rappresentarlo in quell’occasione. Fra gli attori c’erano alcuni fra gli allievi più affezionati, tra cui Mirella Bordoni e Pino Manzari; le considerazioni del Maestro durante le prove vennero raccolte da Teodolinda Saturno e pubblicate insieme al testo1. Per la mancanza di una solida organizzazione e nella previsione di un periodo estivo affocato, Costa, già provato dalla salute precaria, interruppe le prove; in agosto lo spettacolo andò poi in scena a Taormina per la regìa di Massimiliano Farau.

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