Le abitudini non sempre chiare e non totalmente accettabili della scena contemporanea rendono quanto mai problematico l’incontro, una volta continuo sebbene non necessariamente ricco di risultati, con l’autore, specialmente con l’autore nuovo. L’inclinazione a privilegiare la scrittura scenica rispetto a quella drammatica e letteraria, la linea teorica almeno comprensibile e perfettamente giustificata, sposta l’attenzione dalla creazione individuale e isolata al momento collettivo e teatrale, dallo scrittore di una volta all’uomo di teatro, intesa l’espressione “uomo di teatro” nel senso più completo e significativo. Proprio perché ritengo rivoluzionaria questa tendenza dello spettacolo drammatico di oggi, considero illuminante il mio incontro con Maricla Boggio e Franco Cuomo, oramai giunto al suo quarto episodio. E mi riesce difficile disgiungere la personalità dell’una da quella dell’altro, in auanto le prove più consistenti della loro ideologia teatrale vengono fuori dall'osmosi della intelligenza dialettico-poetica di Franco con l’intelligenza dialettico-rappresentativa di Maricla.
In linea di principio non dovrebbe essere granché agevole riconoscere in un testo scenico che manca ancora della determinante dimensione dello spettacolo gli elementi da correlare al rapporto fondamentale testo7spettacolo/pubblico, e non vorrei dar l’impressione di soggiacere alla naturale simpatia verso i due giovani autori. –gli è, però, che ho assistito da vicino alla elaborazione di questo lavoro e sono pertanto, loro testimone che esso non è nato ascetticamente in luoghi lontani dal palcoscenico, e perciò astratto, distaccato, ma al contrario con una destinazione immediata e precisa, quasi tenendo un riguardo fisico e spirituale alle persone indicate con probabili o ideali interpreti della “pièce”. E ancora che ho ascoltato, con un gruppo ristrettissimo di amici, la prima lettura non privatissima, che tutti noi presenti avevamo sollecitato con speranza mista a un certo grado di curiosità, stante l’argomento prescelto. Questi due fattori non solo hanno facilitato ma hanno addirittura reso possibile l’accostarsi a “Passione 1514”in un clima che era, nonostante tutto, teatrale.
Conoscendo quali siano stati precedentemente gli interessi di Maricla e di Franco, vien da chiedersi perché essi abbiano ripercorso un cammino così alieno dalle tematiche del teatro odierno. La risposta risulta da una attenta lettura della “pièce”. Dalla quale emergono immediatamente due ordini di considerazioni:Da un lato il fascino del un teatro “fatto”quale si presenta anche qui attraverso la formula del teatro nel teatro, dall’altro la consapevolezza che che un determinato tipico di discorso scenico se vuole essere oggi portatore di significati
Politici ed esistenziali non può seguire la strada e amaramente disintossicata dal didascalismo fine a se stesso, ha bisogno invece di urtare quotidianamente nelle contraddizioni che compongono la matrice spirituale e morale di ognuno di noi, in quelle ancora più dilaceranti che sono il tessuto del nostro “establishment” sociale. La complicità, la necessità di stare insieme unisce gli assassini del progenitore e costituisce la base friabile e continuamente pricolante degli insediamenti sociali. La complicità che unisce ma che può anche dividere, il possesso del più debole da parte del più forte, l’omertà incomprensibile razionalmente ma senz’altro motivata da ragioni psicologiche del vinto nei riguardi del vincitore, i contenuti sadomasochisti in virtù dei quali il torturato mentre odia il torturatore ne ricerca,in effetti, i supplizi. L’ordine sociale, la religione, il concetto di stato si son retti lungamente, e continuano a reggersi tuttora, su queste tormentate ipotesi di amore/odio. La storia, si dirà. Ma quando si scoprono i resti di un essere umano vissuto due milioni e mezzo di anni fa, i nostri cinquanta secoli di documentazione spariscono, una goccia di pioggia nell’infinita vastità degli oceani. Del nostro progenitore lontano che scopriva la possibilità di usare un osso si animale noi portiamo conficcati nella pelle gli ultimi peli e nell’anima e nella coscienza l’aggressività, le paure, il senso di colpa.
Cosa c’entra con tutto questo “Passione 1514”? C’entra, dico io, perché il cuore della vicenda e dei personali comportamenti è fatto ancora di queste aggressività, di queste paure, di questo senso di colpa. Possiamo considerare la recita che i comici bolzanesi stanno tentando di realizzare alla stregua dell’esorcismo con cui l’antico sacerdote delle religioni naturalistiche mediava i terrori e le necessità dell’assemblea dei fedeli, e in questa sorta di grosso rito, di cerimonia che nasce come un’autentica esigenza di base non è difficile ritrovare la condizione primitica, e perciò attuale, dell’”homo” cosidetto “faber”, cioè l’uomo di oggi molto meno “sapiens” di quanto non si creda e speri, dal momento che è prigioniero delle credenze scientifiche (false alquanto più pretendono di avvicinarsi alla verità), della spietata logica produttiva, dell’essere costretto a riconoscersi negli altri prima che in se stesso, di condizionamenti di ogni genere, che lo avvicinano sempre più pericolosamente allo stato del remoto possessore di quel cranio rinvenuto sotto il sole implacabile del Kenya. Conosciamo da vicino i protagonisti di questa “Passione” molto più nostra di quanto non dica la data. C’è la smania operativa, l’ansia di creare a ogni costo che caratterizza Benedikt, il teatrante che non a caso si muove con l’andatura del “meneur du jeu” medievale, che entrava in qualsiasi momento della rappresentazione sacra; c’è il gruppo degli attori, una sottomarca di arrampicatori sociali, con addosso la febbre dell’immedesimazione e il vizio del comportamento sfuggente, e uno di essi, Johannes, rinnegherà Gaia, la vittima predestinata, come Pietro iò Cristo; c’è Vittoria, l’aristocratica che ama snobisticamente scendere in mezzo al proletariato, ne invidia le miserie e le meschinità salvo a nascondersi nuovamente, al momento opportuno, al riparo delle proprie ricchezze e della propria condizione sociale; c’è Vigil, il pittore, capitato quasi per caso in un ambiente non suo e pertanto fisiologico ma prudente contestatore del sistema; c’è l’autorità quasi si manifesta attraverso la Chiesa e i suoi tribunali, una epifania di terrore che gli altri, comunque, giustificano e accettano; c’è Margaretha, la prostituta che identifica nel suo torturatore, l’uomo, l’oggetto del suo odio ma soprattutto del suo amore; c’è infine Gaia, che ha nei riguardi del potere lo stesso atteggiamento di ripulsa e di attrazione che Margaretha ha verso l’altro sesso.
Si può addirittura dire che non si tratti di una associazione di uomini, quanto di tante facce di un uomo solo, perché in ognuno di noi c’è l’esibizione creativa, la volgarità e il pretesto comportamentale, il contestare, la violenza e l’anelito al potere, l’incapacità di liberare i nostri momenti magici dalle ipoteche di una sessualità che non riesce totalmente a sublimarsi nell’atto erotico. Strega o santa, Gaia viene consegnata alla ruota nell’attimo in cui comincia a identificarsi con il personaggio della Vergine, perché allora ella è completamente fuori dalla norma, dà scandalo, esce dai precetti comuni, quali che siano. Ma cosa significa essere fuori dalla norma? Significa tentar di mettersi in rapporto effettivo con qualcuno o qualcosa, rifiutare l ‘isolamento, cercare di conseguire in qualche modo la totalità. E in questo senso è difficile stabilire se sia più “crudele” l’azione dei giudici ecclesiastici su Gaia o quella di Gaia sui giudici, se Strumenti di tortura siano la ruota e la corda o non invecde l’ingenuità con cui Gaia si offre alla vita e alla morte che ne è l’antinomia dialettica. L’azione parallela, allora, della sacra rappresentazione, non la falsa vicenda del falso Cristo e quella della vera tragedia della v era Gaia, con cui la catastrofe si avvicina, sembra indicare come soltanto il riconoscimento delle proprie ragioni profonde da dare alle ragioni degli altri in una altalena di reciproche offerte può determinare la sublimazione della immane tragedia del mondo. Cristo non è risorto perché non ha ancora finito di morire.
Questa gamma di impressioni immediate colte dalla sintesi di vari stadi di possesso di “Passione 1514” trova il conforto di una idea di spettacolo che è ben più precisa della mancanza, al momento, di una verifica concreta. Può apparire, pertanto, pretestuoso e vanamente agiografico insistere su un motivo di cui possediamo per ora alcuni elementi soltanto. Ma anche se non si vuole insistere sull’idea affascinante del duplice piano teatrale, che appartiene alla natura stessa del rito scenico e trova, in questo senso, radicali testimonianze letterarie e drammatiche, c’è in questo testo dei Maricla e Franco, come c’è negli altri precedenti, un elemento sottile ma concreto, linguistico, di un linguaggio teatrale scomposto “vitalisticamente”, dove, come nella vita, il sublime si alterna al quotidiano, e in questa misura, quando dialetticamente precipita, quando brutalmente ed efficacemente irrisolta, si trova la conferma di ciò che altri con maggiore precisione, e puntualità di quanto non sia possibile in poche pagine di presentazione ha documentato con ampiezza: il teatro non può essere, non è l’imitazione della vita, è esso stesso la vita. E non c’è ideologia, non c’è ipotesi esistenziale che non possa attraversarne il dettato formale per giungere alla parte più profonda di noi che assistiamo. In questo senso, noi non siamo più semplici spettatori, rischiamo addirittura di diventare partecipanti totali del rito. E’ un rischio sì, se il teatro, se questo teatro di “Passione 1514” può divenire un segno qualificante, ci mette di fronte ai problemi della realtà vera, in misure che nessun intermediario interessato, la storia o la società che sia, potrà più determinare in maniera definitiva.