“Passione 1514” è stato rappresentato dal Teatro Stabile di Bolzano nella stagione 1972/73. Il testo è stato scritto da Maricla Boggio e Franco Cuomo su invito dello Stabile, che ha inteso così “proseguire le sue iniziative di ricerca e di promozione nell’ambito della nuova drammaturgia italiana, conseguendo – ha detto Maurizio Scaparro, direttore artistico dello Stabile, nell’illustrare i motivi dello spettacolo – un duplice scopo: ricerca di nuovi testo di autori italiani e approfondimento di problematiche che meglio esprimano le ansie, le inquietudini, le tensioni della realtà contemporanea”.
Il dramma nasce da un’accurata ricerca storica, corroborata dallo studio approfondito di testi e canovacci originali del tardo Medioevo e del primo Rinascimento, ma è opera di fantasia. “Passione 1514” in breve è la ricostruzione , tra realtà storica e invenzione, di una sacra rappresentazione realmente effettuata nel 1514 a Bolzano. Il testo, tuttavia, non intende riproporre, sia pure in chiave moderna, la sacra rappresentazione cui si riferisce, ma fornire un quadro storico-sociale – e al tempo stesso poetico – della realtà entro cui questa si svolge. I veri protagonisti, dunque, non sono tanto i personaggi della “passione” recitata quanto coloro che li interpretano. Il racconto si svolge perciò attraverso una sovrapposizione di piani che consente di alternare la realtà di ciascun personaggio-attore alla finzione di quelli che di volta in volta interpreta_ “una sacra rappresentazione, dunque, vista con spirito laico, dove ad emergere sono gli interpreti e non i personaggi del Vangelo” ( Angelo M. Ripellino su L’Espresso).
In questo aquadro la rappresentazione dello “spettacolo nello spettacolo” diventa l’occasione per mostrare una molteplicità di eventi collegati all’epoca di cui si parla, ma chiaramente riferibili alla nostra. Così la parte forse più significativa, certo la più drammatica dello spettacolo, è il processo – con conseguente tortura e rogo finale – di una giovane ritenuta strega, il cui supplizio autentico si sovrappone, in un feroce inseguirsi di immagini parallele, a quello “recitato” del Cristo.
Tutto questo non ha mancato di suscitare, accanto ai consensi della critica e a un gran successo di pubblico, accese polemiche. Né sono mancati pesanti tentativi di censura da parte degli ambienti cattolici locali, che nei riferimenti alla realtà contemporanea hanno voluto ad ogni costo individuare finalità blasfeme. Lo spettacolo, per giunta, ha debuttato nel periodo pasquale, e ciò ha fatto presumere a molti che dovesse trattarsi della piatta trasposizione convenzionale di una delle tante “passioni” medievali. “E’ che nel cattolicissimo Alto Adige – ha scritto in proposito Paese Sera – si era frainteso sui contenuti del lavoro. Numerosi sacerdoti, tuttavia, sono rimasti, seguendo con interesse il discorso degli autori e giudicandone positivamente l’opera dissacratoria non fine a se stessa.


 

Su L’Unità
Arturo Lazzari

ha scritto: “Ardono i roghi di innocenti sullo sfondo della Passione” e si è soffermato sulla tecnica attraverso cui si è voluto identificare il martirio della strega (”questa fanciulla, questa ragazzine diciassettenne tutta poesia e fantasia”) con quello del Cristo: “identificare due metodi repressivi, quelli della Passione vera e propria, e quelli della passione della fanciulla”, mentre “il valore delle immagini e delle similitudini si dilata poi a significazioni contemporanee, richiamanti la vittima della sopraffazione oscurantista, della violenza, della cieca brutalità”.


Sull’Avanti!
Ghigo de Chiara

ha parlato dell’apologo sulla violenza del potere: “la Grande Vittima che invano la finzione teatrale tentava di rievocare è scaturita dalla realtà della storia: viene offerta da un potere feroce che non ha bisogno dei nomi di Caifa o Erode o Pilato, ma si fonda nell’anno di grazia 1514 sull’autorità di uomini rispettatissimi e religiosi. Ed ancora una volta, per viltà o per miseria umana, nessuno dei compagni della vittima oserà rischiare un gesto di solidarietà. Così la giovane “strega” innocente avrà il suo calvario mentre nella scena i commedianti seguiteranno ad annaspare dietro la ricostruzione di avvenimenti lontani che la controriforma, ormai alle porte, incomincerà a svuotare di ogni significato operante”.



Unità, 5 maggio 1973

Arturo Lazzari

Lo Stabile di Bolzano conclude la stagione con un riuscito spettacolo

Ardono i roghi di innocenti sullo sfondo della passione

il testo di Maricla Boggio e Franco Cuomo è stato tagliato sin troppo vigorosamente. Favola tripla e una

Siamo a Bolzano per la “prima” di “Passione 1514” di Maricla Boggio e Franco Cuomo, ultimo spettacolo della stagione del Teatro Stabile locale. Stagione che è in finale di chiusura con un bilancio assai favorevole, quanto a risultati artistici. Essa può infatti annoverare due rilevanti riuscite. “Giorni di lotta con Di Vittorio” e “Amleto”. (...9 ora è la volta di questa “Passione”, testo scritto dalla coppia Franco Cuomo e Maricla Boggio, già collaudata nel passato con testi di vario rilievo, tra cui “Compagno Gramsci” dato dalla compagnia del “Teatro insieme”, resta il migliore. Scrittori di timbro realistico, con “animus” fortemente civile e sociale, il Cuomo e la Boggio hanno fornito allo Stabile, per la regìa di Franco Molè, un testo storico – emblematico, non molto ampio ( sono ottanta cartelle) ma ricco di temi.
Nel testo tre sono i piani dell’azione: al centro, un gruppo di artigiani, di gente del popolo ( ma c’è tra loro un’aristocratica) che vogliono allestire una “passione” medioevale per il Duomo di Bolzano nel 1514; poi, la favola del Cristo e della sua vicenda terrena, dall’annunciazione alla resurrezione, favola ricalcata, di volta in volta, a seconda delle contrastanti ricerche dei comici dilettanti, che si propongono questo o quel testo a seconda delle difficoltà incontrate su testi famosi, dalla “Passione” di Coventry a quella Romana di cui si citano passi. Infine, la storia di stregoneria e di morte di una delle commedianti, Gaia, che viene accusata di pratiche demoniache dall’Inquisitore, sottoposta a torture e condotta al rogo nel 1514, fatto, pare, realmente accaduto nella diocesi di Bolzano proprio negli anni in cui si andava preparando la Riforma.
Scopo, forse un po’ troppo ambizioso del testo, è quello di identificare la figura di questa fanciulla, questa Gaia, ragazzina diciassettenne tutta poesia e fantasia, con la figura del Cristo; di identificare i due metodi repressivi, quelli della Passione vera e propria, e quelli della passione della fanciulla; di mostrare il comportamento dei recitanti, che come Pietro tradiscono la ragazza dichiarando di non conoscerla.
Il valore delle immagini e delle similitudini si dilata poi a significazioni contemporanee, richiamanti la vittima della sopraffazione oscurantista, della violenza, della cieca brutalità.
Messaggio talora generico, ottenuto con questa favola tripla e una. La regìa di Molè, per esigenze di spettacolo, ha ampiamente tagliato il copione, riducendolo ad una durata di un’ora e mezzo circa. Tagli, a nostro avviso, troppo energici e radicali, che hanno tolto, anzitutto, il contorno alla favola: per i primi venti minuti, il pubblico non è messo in grado di capire dove si svolga l’azione, né poco perspicua riesce la faccenda delle “Passioni” che i comici vanno scegliendo per la loro povera recita. Quanto al piano del Cristo, anche qui la sua Passione è ridotta a pochi cenni, a qualche momento. il tutto per introdurre uno spettacolo che si vorrebbe realistico-comico, con la descrizione dell’imbarazzo dei recitanti, delle loro difficoltà. Di contro sta l’alta dimensione tragica della storia di Gaia. Il momento più riuscito della rappresentazione sta nella scena dell’arrivo dell’Inquisitore che viene nel tempio a prendere la ragazza. Sebbene la riduzione del testo gli abbia sottratto le motivazioni di questa feroce caccia alla strega: l’Inquisitore appare come un isterico visionario, non come un agente dei potenti di allora.
Un altro momento di tensione drammatica si ha quando lo spettacolo mostra la ragazza alla tortura, costretta a confessare tutto quello che i suoi aguzzini vogliono. E’ un po’ macchinoso il marchingegno escogitato per far comparire la vittima su di una specie di graticola; ma, tutto sommato, appartiene ad un tipo di spettacolarità vistosa ed immediata.
Questa “Passione” del regista Molè si solleva un po’ nella scena finale, quando si immagina che la torturata venga portata al rogo come strega confessa, e tutti i comici si affaccino a vederne il corteo. Rimangono solo, rivolti al pubblico, il capo della compagnia dei comici dilettanti, il “meneur du jeu”, e il suo compagno che fa Cristo. Solenni, estatici, significativi.
Della folta distribuzione ricorderemo, in particolare, Giancarlo Padoan che interpreta il personaggio di Benedikt, il capo; Vigil suo aiutante è Fernando Pannullo; August di Bono è Pietro e Johannes; il Cristo è Mauro Lorino; l’Inquisitore è Franco Gamba, e Pino Micol – l’applaudito interprete dell’”Amleto” – è qui in brevi apparizioni, Giovanni e l’angelo della Resurrezione. (...). Per quanto riguarda il cast femminile, citiamo Marina Zanchi per i toni delicati della sua Gaia. Scena semplicissima di Roberto Francia, costumi di Iris Cantelli.




Avanti!, 5 maggio 1973

Ghigo de Chiara

In scena a Bolzano “Passione 1514”

LA VIOLENZA DEL POTERE

Rappresentazione teatrale e realtà della storia nel lavoro di Maricla Boggio e Franco Cuomo

Proseguendo nel loro comune impegno di un teatro ancorato dialetticamente alla storia, Maricla Boggio e Franco Cuomo hanno rielaborato per il Teatro Stabile di Bolzano un avvenimento medievale che proprio a Bolzano ebbe luogo. Diciamo “medievale”, data la natura di ciò che accadde, ma per la verità ( e sui tempi e sui luoghi e sui protagonisti si sono rigorosamente documentati) in pieno risveglio rinascimentale, ché imputata di stregoneria, una ragazza atesina venne processata e messa a morte dal Santo Uffizio.
Il dramma parte giocosamente dalle prove di una rappresentazione sacra. Una delle tante “passioni” che soprattutto nelle cattolicissime province di Baviera, dell’Austria e del Tirolo rievocavano ( e rievocano tuttora la settimana di Pasqua) il martirio di cristo. Artigiani, operai, contadini, questi filodrammatici accomunati certamente più dal fervore che dall’arte scenica, provano il loro edificante spettacolo nella cattedrale di Bolzano. Tra di essi una ricca donna che molto ha viaggiato si compiace di ricordare il fasto e la perizia con cui le passioni vengono rappresentate a Roma, o a Firenze; i poveri guitti si sforzano di essere all’altezza della situazione, ma nonostante ogni buona volontà l’angelo annunciatore sembra un misero banditore di paese, la Madonna squittisce come una gallina, san Giuseppe pare il vecchio cornuto della farsa, e Cristo pare un frastornato giovanotto di provincia che fa la spola tra Erode e Pilato.
l’insieme è un po’ ridicolo, ma non c’è dubbio, a giudicare dalla serietà di mastro Benedikt, il “regista” di questa improvvisata compagnia, che, risultato a parte, l’impero dei commedianti è sinceramente cristiano.
All’improvviso la prova viene interrotta dall’arrivo di un inquisitore e dai suoi sbirri: l’attrice più giovane del gruppo viene accusata di stregoneria, ammanettata e trascinata al processo.
La grande vittima che invano la finzione teatrale tentava di rievocare è scaturita dalla realtà della storia: viene offerta da un potere feroce che non ha bisogno dei nomi di Caifa, o Erode, o Pilato, ma che consiste nell’anno di grazie 1514 di uomini rispettatissimi e religiosi. E ancora una volta per viltà e miseria umana, nessuno dei compagni della vittima oserà rischiare un gesto di solidarietà. Così la giovane Gaia, la “strega” innocente, avrà il suo calvario mentre nella scena i commedianti seguiteranno ad annaspare dietro la ricostruzione di avvenimenti lontani che la controriforma, ormai alle porte, incomincerà a svuotare di ogni significato operante. Questo è, in breve, un senso politico di questo intenso dramma che il regista Franco Molè ha allestito con vigore, ben assecondato dai giovani ed esperti attori del Teatro Stabile di Bolzano.
Ricordiamo in particolare Giancarlo Padoan, Fernando Pannullo ( l’unico, del gruppo dei comici, che manifesta sacrosanti sussulti d’odio), Marina Zanchi, assai brava nel non disarmato candore di Gaia, Adalberto Rosseti nel suo allucinato cristo. L’impianto scenico, semplice e incisivo, porta la firma di Roberto Francia. I costumi, ispirati alla povera verità della situazione, sono di Iris Cantelli. Gli applausi e l’intenso interesse del pubblico premiano in particolare questa recente fatica di Maricla Boggio e Franco Cuomo, che ben forniti di documenti e in piena libertà di creazione, hanno creato un apologo politico la cui lezione purtroppo ( e basta guardarsi intorno)continua ad avere un senso.




Recensione del libro “Passione 1514”
di Maricla Boggio e Franco Cuomo, Marsilio ed., 1973
Avanti!, domenica 5 dicembre 1973

Walter Pedullà

In “Passione 1514” di Franco Cuomo e Maricla Boggio sotto accusa il potere e
gli intellettuali di ieri e di oggi

In Passione 1514 di Franco Cuomo e Maricla Boggio il numero potrebbe anche significare l’ennesima volta che nell’era volgare è capitato agli uomini di replicare il mito cristiano della passione. In realtà indica la data di una sacra rappresentazione effettuata nel 1514 a Bolzano: nel cui Teatro Stabile, per destino adescato dal suo direttore Maurizio Scaparro, il testo è stato messo in scena nel 1973, l’anno cioè che veramente interessa ai due autori.
Essi, infatti, non si limitano certo a ricostruire con bravura il Rinascimento che interpreta una vicenda esemplare dell’umanità ma la trascinano con parole “in costume” nella nostra epoca, secondo una sovrapposizione di piani che coinvolge, oltre agli autori e agli interpreti del ‘500 e di oggi, anche il lettore “presente”. La storia di Cuomo e della Boggio, dopo essersi rigorosamente garantita con documenti, vuole scottare insomma per l’attualità di idee e di comportamenti.
“Teatro nel teatro” dunque questa Passione 1514 sulla quale al processo “recitato” del Cristo fa da contrappunto quello reale di una contadina diciassettenne torturata e condannata al rogo per stregoneria. Benedict Debs, il latinista e poeta che cura la regìa assistito dal pittore Vigil Raber, non può, e neppure desidera, evitare che i drammatici eventi della cronaca contemporanea attraversino la sua sacra rappresentazione: la quale d’altronde ha come interpreti cittadini di varia condizione sociale, “dilettanti” che nella preparazione dello spettacolo portano il rovello e le contraddizioni della vita reale. Così succede che discutendo del loro miglior modo di essere attori, costoro finiscono col rendere più precisa e autentica la propria sagoma di uomini. Riempiendo lo schema originario essi rendono quindi concreti i logori personaggi di una mitologia tanto frequentata dalla letteratura “colta”; come dire da quella estranea a una vicenda che invece è il tragico “privilegio” dei perseguitati, degli sfruttati, delle vittime di un potere multiforme per travestimento: romano, papale, borghese o “militare” con piccoli gradi di differenza, colonnelli o generali o loro mandanti di grande capitale.
Non lo sanno subito ma ne vanno prendendo progressiva consapevolezza, e il regista e gli attori, che quando essi si accaniscono a variare le battute dello spettacolo tradizionale con materiali d’esperienza personale e attuale, in effetti tentano disperatamente di sfuggire alla rigida struttura dello schema, che li destina ancora una volta alla sconfitta, alla viltà alla rassegnazione, al tradimento. La cultura non serve che a togliere l’alibi dell’ingenuità, della sorpresa della dimenticanza. Essi ricordano e tuttavia vanno a finire proprio dove il mito aveva previsto: la giovanissima contadina sarà abbandonata al proprio destino di morte da questi intellettuali che sono così calorosi interpreti della “finzione” non solo teatrale, ma anche politica. Non resterebbe che cambiare mito, ma anche quelli che effettivamente lo desiderano sono persuasi che non potranno farcela contro la forza e l’astuzia del potere. Finché sarà rappresentata la Passione come mito esemplare dell’Occidente, il “giusto” morirà in modo sublime ma non vincerà mai, per quante volte resusciti, se gli attori “dilettanti” non troveranno la forza e l’astuzia per fare una parte diversa da quella della vittima predestinata. Cuomo e la Boggio sanno da quale parte cercarla, ma sanno anche che ora ci vorrebbe un miracolo laica per spuntarla.

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