Chi ha detto che la nostra epoca rifugge dalla tragedia. Sarebbe più esatto dire che le tragedie ( di cui il nostro tempo è prodigo) le attraversiamo senza capirle. Perché la tragedia, come conflitto doloroso e ineluttabile sventura, la viviamo attraverso le mediazioni del sensazionalismo o i soprassalti del moralismo, quando non l’accantoniamo praticando comode anestesie. Fiumi d’inchiostro, talvolta retorico, e valanghe di statistiche, sono corsi intorno a una tragedia autentica come quella dell’aids: tragedia della vita negata e umiliata, ancor prima che soppressa. il titolo del nuovo testo di Maricla Boggio andato in scena a Todi, “Laica rappresentazione”, ci dice anche quale sia il suo contenuto. Laica è la volontà di capire il fenomeno senza esorcizzarlo, risalendo alle fonti dell’umana pietà. Rappresentare è il compito precipuo del teatro, che suscita immagini e azioni con una vivezza che altri linguaggi non possiedono.
I dieci “casi” che l’autrice allinea, facendoli uscire via via da un coro sempre presente sul fondo, non sono casi clinici ma semplicemente umano. Accanto ai personaggi che siamo mentalmente abituati ad associare alla malattia ( l’aids non è mai nominato come tale, ma come “quella malattia”), prostitute, travestiti, tossicodipendenti, vi sono figure irreprensibili, vittime innocenti. E c’è la tremenda condanna che il virus proietta anche sulle vite nascenti; i timori e le viltà che inducono qualche sieropositivo a non rivelare la propria condizione; la purezza di amori che lottano per sopravvivere. Cieca, come il fato ,crudele come un professionista di torture, la malattia investe un orizzonte totale.
Non cronaca, ma scandagli gettato al di là della cronaca, la “rappresentazione” della Boggio è in equilibrio tra umana partecipazione e critico distacco da un materia così coinvolgente. Tocca anche corde patetiche, in specie quando i personaggi sono quelli che la cronaca ha più volte introdotto e modellizzato; ma è sorretta, in definitiva dalla lucida volontà di rappresentare, cioè di conoscere una materia di fronte alla quale il più delle volte ci si ritrae con inconfessata rimozione. Lo spettacolo diretto da Adriana Martino con un sobrio impianto scenico di Lorenzo Ghiglia, colloca i brevi episodi in una luce assorta, sospesa tra la morte e la memoria della vita. Ne sono efficaci interpreti soprattutto un gruppo di attori giovani e giovanissimi, che mostrano di avere molte carte da giocare ( Manuela Mandracchia, Barbara Chiesa, Piero Caretto, Stefano Tamburini, Gianmaria Talamo, Luciano Melchionna, Stefano Ricci, Valentina Martino), cui si affiancano presenze sperimentato e mature come quelle di Maria Grazia Grassini, Marina Zanchi e Fernando Caiati.
Su un versante di ben distinte attitudini sia recitative che di drammaturgia sul campo, ha rivendicato ( e ottenuto) dignità la “Laica Rappresentazione” di Maricla Boggio, “dieci storie per coro e solisti”, un’antologia-calvario di individui e coppie che sono finiti preda del virus più micidiale del secolo, l’aids. In forma di deposizioni a futura memoria, con l’impellenza di uno Spoon River tragico e attuale, il testo è stato “ufficiato” di volta in volta su una pedana istruttoria, con alle spalle un Purgatorio di ombre bianche, su incentivo di una conduttrice in abiti astrattamente monacali.
Un dolore sobrio ma non evitabile è via via maturato dalle vicende delle madri sieropositive, padri avventuratisi per poco con giovanette tossicomani, prostitute condannate in partenza, mogli consumate da un male a loro contagiato da un marito omosessuale ( e qui la scena di un cosiddetto Padre in disperazione pasoliniana aveva a che fare, in altro modo, col Padre dei “Sei personaggi”), cui si aggiungono vittime della povertà, o semplicemente martiri di una virtuosa “differenza” ( un bacio castissimo, qui, tra uomini), quando non incombe il lazzaretto del travestito sudamericano, la tragedia nella comunità rieducativa, o nelle sfere mondane del lavoro. Con qualche accento oratoriale forse di troppo, la regista Adriana Martino ha comunque ben calibrato le “stazioni” con Marina Zanchi, Piero Caretto, Fernando Cajati, Nunzia Greco, Maria Grazia Grassini, Manuela Mandracchia e gli altri.
In “Laica rappresentazione”, uno ad uno i morti per Aids si staccano da una sorta di teoria infernale ( o paradisiaca) e, mostrandosi al di qua di un vetro al pubblico dei vivi, raccontano le loro storie. Story tellers da lettino psicoanalitico, a volte costretti a penosi confronti, a dolorosi dialoghi, i morti sono sinceri, spietati, catartici, sempre generosi e ( la ha dichiarato l' autrice, Maricla Boggio) ispirati alla verità della cronaca.
Gli spettatori, come Dante intenti ad ascoltare e a provare pietà, si commuovono non tanto per le vicende terribili, che forse hanno già letto su qualche giornale, ma per come gli attori, stupendi, le interpretano. Fernando Cajati, padre snaturato e omosex, maria Grazia Grassini in abiti medievali, “donna del Paradiso” che conforta, consiglia, consola con una maieutica fatta di amore laico, eppure simile a quello della celeste Beatrice.
“Laica rappresentazione” fotografa l’ultimo stadio della disperazione umana: i personaggi della Boggio sono frutto di una pietosa ricerca nell’inferno della Malattia, dell’infezione – non si parla di Aids -, un viaggio dantesco nel girone estremo, il più orrido che si possa immaginare; un Virgilio è una suora, la madre, che evoca le vicende spaventevoli di dieci dannati. Testo di alta nobiltà, coraggioso, partecipato, illuminato da sprazzi di chiara poesia, condotto con mano sicura da Adriana Martino mettendo in fila, alla sbarra, fantsmi feriti.
“Laica rappresentazione”, però, non è una rassegna di casi vissuti. La Boggio non si limita a descrivere la sofferenza dei malati, ma risale alla fonte del morbo, quegli altri mali oscuri, la povertà, la solitudine, la violenza, la diversità negata... Impossibile raccontare le “diecdi storie interrotte”, che coinvolgono intere famiglie o si consumano in un angolo della strada o al capezzale di un amico moribondo. Robusto e numeroso il cast. Segnaliamo Marina Zanchi, dolente Maria, Fernando cajati, dilaniato Padre, Maria Grazia Grassini, attenta Madre, e un bel gruppo di giovani. Lorenzo Ghiglia ha architettato una scena su due piani, una grata dietro la quale si agitano fantasmi e un grande disco luogo deputato delle tragedie; costumi di Lorenzo Ghiglia, musiche di Benedetto Ghiglia. Applausi calorosi .
Todi – La laica rappresentazione scritta da Maricla Boggio, presentata in prima l’altra sera, affronta il tema dell’aids. Ma non
siamo di fronte a vicende lacrimevoli, come anche in tv abbiamo più volte visto. Qui il discorso si scioglie lentamente in un’alta pietas, in una solennità che invita alla riflessione, in una quiete di silenzio e amore. Le “10 storie interrotte per coro e solisti”, come recita il sottotitolo della pièce, hanno la tessitura di una nuova antologia di Spoon River. Sono infatti le anime a parlare, evocate dalla figura della Madre., una specie di giudice tesa alla comprensione, senza l’ombra di condanne e accuse. Le quali appaiono, di volta in volta, nei singoli capitoli, quale grido soffocato, speranza delusa, incomprensione consumata per paura o fragilità.
Il testo dell’autrice è costruito come un grande affresco epico, certamente risultato di una conoscenza approfondita della materia e , al tempo stesso, innervato di frammenti da tragedia classica. E’ inutile osservare qui come la regìa, di Adriana martino, abbia conferito, un taglio più secco al concertato, asciugandolo forse per contenerlo in un tempo scenico misurato. Rimane il fatto che le vicende tornano con la loro toccante verità.
Ecco la prostituta che confessa le ragioni del marciapiede, Corinna infetta dal marito omosessuale, Quinto che passa il tempo a distruggersi nelle discoteche fino alla droga che lo ucciderà, i due giovani che si incontrano in una comunità di recupero per tossicodipendenti, i ragazzi che innalzano lo splendore del loro amore diverso sfidando la malattia fatale, fino all’avventura di un travestito e la chiusura di Maddalena, la sposa che aveva aperto la serie degli episodi. Si tratta di un percorso da cui emerge il rapporto della vita con l’emarginazione, la speranza di un mondo migliore e la condanna a vivere quello che inevitabilmente siamo, il blocco dei sentimenti di quelle anse nascoste del cuore dove “si deve portare il segreto che ognuno ha chiuso dentro di sé.
La scrittura della Boggio, molto concreta, antropologica dovremmo dire, si combina perfettamente con la regìa: una grande rete che imprigiona le anime, il Coro, una pedana circolare che propone di volta in volta il primo piano della singola vicenda. La sinfonia tragica, soavemente composta in una solennità metafisica, è accordata su uno stuolo di attori sensibili e bravi. Spiccano Maria Grazia Grassini (la Madre), Piero Caretto, Marina Zanchi, Nunzia Greco, Valentina Martino Ghiglia. Scene e costumi di Lorenzo Ghiglia, musiche di Benedetto Ghiglia.