Sapevo – erano stati molti a dirmelo, ne avevo letto, ne avevo sentito parlare – che Rosa Di Lucia era brava, e molto. Ma non potevo sapere che lo fosse al punto che, ascoltandola per la prima – e, purtroppo, unica – volta dal vivo ne sarei rimasto così colpito da non dimenticare più il sofferto suono della sua dolce vita, il senso profondo della sua interpretazione, il calore umano del suo personaggio.
Del resto, a caratterizzare il ruolo dell’attore di teatro è proprio il suo svolgersi in costante, continuo divenire, senza che mai nulla abbia a cristallizzarsi, perché, se mai ciò dovesse accadere, l’avventura scenica resterebbe priva del suo palpito vitale.
Ovvia la conseguenza: per aver contezza del reale peso specifico di un’attrice occorre essere lì a vederla ed ascoltarla nel momento del suo recitare. Per quanto possa essere stato preparato a lungo, per quanto possa essere stato ripetuto, ogni volta lì”exploit” nasce o rinasce come un evento a sé, irripetibile per toni, sfumature, gesti. Lo richiede il particolare tipo di rapporto dal vivo che intercorre fra l’attore e lo spettatore o meglio ancora il rapporto fra l’attore ed il pubblico ( non si recita davanti ad una persona sola) che rendono insufficiente surrogato una conoscenza per sentito dire oppure il ricorso ad una registrazione. E ciò per il semplicissimo motivo che né l’una né l’altro possono far fronte a quella tipica funzione di ideale fonte di comunicazione volto a coinvolgere le menti e i cuori, che è proprio di quest’arte nel momento del suo culmine espressivo.
Ho avuto la ventura di constatarlo una volta di più, con un’intensità come mai prima mi era accaduto di provare, la sera del 19 gennaio del 1995 proprio a Palermo grazie a Rosa Di Lucia, che rendeva vivi come meglio non si sarebbe potuto alcuni brani particolarmente significativi di Gardenia. Tutto concorreva a farne un evento assolutamente irripetibile e, appunto per questo, ancor più prezioso, destinato a restare nella memoria e nel cuore. L’occasione era unica: ricorreva l’anniversario della nascita di Paolo Borsellino, un anniversario fortemente segnato dall’inaugurazione del Centro che, dedicato al Suo nome glorioso, non vuol essere solo simbolo, ma anche dimostrazione concreta della “resistenza” attiva alla mafia, alla sia atrocità, alle sue perversioni, soprattutto a tutela dei figli delle vittime e anche dei figli, specialmente se minori, degli aguzzioni.
“Gardenia” è la storia immaginaria, ma realistica, della figlia di un boss potente, una storia in sette tempi, dall’infanzia alla maturità, dall’alba al tramonto.
Da Gardenia-bambina a Gardenia-donna che avanza negli anni, in un succedersi di sensazioni minate dal tarlo scoperto un poco alla volta, sulla propria pelle, dell’avere un padre marchiato di feroce perversione. Parabola mirabilmente resa dalla penna di Maricla Boggio e dalla voce di Rosa Di Lucia, “interprete”, nel significato più vero e più pieno che la parabola sottintende, sia di un testo dolce e crudele allo stesso tempo, nobile sempre, sia di un dramma realmente vissuto da chissà quante Gardenia, anche se non tutte, anzi solo pochissime, capaci di reagire allo stesso modo della Gardenia di Maricla Boggio e di Rosa Di Lucia. Che ce ne sia almeno una, questa Gardenia appunto, che possa assurgere ad esempio trainante, e quindi ad emblema, e dunque a codello del come affrontare il tormentato cammino che va dalla scoperta di un incolpevole “vizio d’origine” alla ricerca di una per nulla facile risposta in chiave di recuperata socialità.
Rosa Di Lucia è così entrata nella storia del Centro Paolo Borsellino, nato per far fronte moralmente e materialmente ai problemi dei giovani e dei giovanissimi in terra di mafia, facendogli il dono di un messaggio ora vivificato dal ricordo che il doloroso evento della sua struggente scomparsa a poco più di un anno di distanza ha ulteriormente arricchito, trasformandolo in una sorta di testamento ideale.
Ascoltandola ammirato, non sapevo, non potevo sapere e neppure immaginare, che quell’attrice, così fortemente e dolcemente impegnata nel dare un contributo di alta civiltà alla serata in memoria di Paolo Borsellino, fosse alle prese con un male inesorabile. Come dicevo all’inizio, le cose che non si conoscono subito, ma che si scoprono a gradi, restano, non appena scoperte appieno, ancora più impresse. Così è stato per la lenta scoperta di Gardenia adolescente, così è stato per me lo scoprire prima la superiore bravura di Rosa Di Lucia ed il sapere poi della malattia che subdolamente l’aveva accompagnata a Palermo.
Con un risvolto a quest’ultimo proposito che non posso tacere: dare ulteriore forza al suo messaggio, a sublimare la sua dizione c’era molto probabilmente anche la consapevolezza di un prossimo addio alla vita. Una vita che attraverso Gardenia continuerà nel nostro grato rimembrare.
La voce della conchiglia che segna l’inizio e la fine del monologo, porta a Gardenia, oltre l’eco del mare, come ci ricorda la tradizione popolare, un’antica fiaba che dice la condizione di sonno-morte, il dolore e la vita ritrovata.
Gardenia – il personaggio-metafora che Maricla Boggio ci presenta con estrema delicatezza – guarda con i suoi occhi bambini il mondo, i cui tratti si riorganizzano in un’atmosfera fiabesca, nel giuoco della fantasia che assume una realtà spietata, dicendola e trasformandola secondo le proprie coordinate.
E’ uno sguardo innocente, che riflette un mondo dominato dalla sopraffazione, dalla ferocia, dalla morte. Anche se apparentemente familiare e raccontata da una inconsapevole bambina, la mafia non è in queste pagine, meno dura e violenta, meno portatrice di lutto e desolazione.
Ma la voce sommessa di a questa bambina, costretta ad avere come interlocutori un’amica immaginaria e un orsetto di peluche, ci porta anche l’eco di una gigantesca onda di solidarietà e di una speranza. Che si possa essere assieme contro il progetto di morte perseguito con feroce determinazione dalla mafia e si possa delineare assieme una diversa società nella quale non vi siano più vittime e che non abbia bisogno di eroi.
Un abisso difficile da ricostruire per noi, divide la “realtà” di tutti dal mondo quale lo vedono i bambini: colorato, fatato, aperto all’invisibile, sottratto ai luoghi comuni della logica e alla gravità terrestre. I bambini volano, Gardenia vola perché desidera e sogna di volare. Ma se su quell’abisso è già difficile buttare un ponte per i bambini di città, quelli borghesemente protetti da un ambiente educato e civile, tanto più arduo sarà trovare un’espressiva via di passaggio fra un sogno infantile (fatto di prodigi, miracoli e della presenza di un’amica invisibile e una brutale realtà meridionale intrisa di capretti incaprettati e omicidi.
La modernità di questo racconto, commedia o favola, sta nella sua originale catarsi. La bambina che gioca con l’orso di peluche ( e inconsciamente identifica l’arroganza e il male con la figura del nonno-padrone) troverà l’erba magica del suo destino: diventerà magistrato, il suo Super-Io dolorosamente maturato sovrapporrà il mantello nero del giudice al vestitino a scacchi bianco e rosa testimone dei primi sogni premonitori.
Vorrei essere a Taormina per sentire questa bella storia affidata alla voce di Rosa Di Lucia. Talento grande di attrice, filo canoro, intenso e magico come pochi, oggi, nel nostro teatro. Un caro augurio a lei, di lontano, e a Maricla Boggio.
Non è facile inscrivere in uno dei tanti schemi di comodo la drammaturgia di Maricla Boggio, fors’ anche per le anomalie che la distinguono da tant’ altra produzione italiana. Può accadere infatti che ( data la materia abitualmente trattata da questa scrittrice) possa apparire congrua la definizione di Teatro-cronaca , anche se subito ci si accorge come il legame intenso della sua problematica con l’attualità o almeno con avvenimenti di essa, non abbia molto a che vedere con l’esemplarità del testo che spesso non racconta fatti, ma esprime opinioni. Così scopriamo che quello della Boggio è teatro di denuncia, che prende avvio dalla cronaca, ma nel quale l’evento di suggerimento è solo suggestione per una poetica ricostruzione di equilibri della personalità, o – se si vuole – per un riscatto morale nel quale la poesia della vita prende il sopravvento sulle macerie che la morte ha prodotto.
Un discorso generale che non è affatto incidentale, ma esplicatissimo di un particolarissimo modo di vedere la scena come luogo di comunicazione civile che investe e tende a far evolvere, almeno idealmente, determinate situazioni di costume, di tradizioni e di incredulo cinismo. E’ questa la via che Maricla Boggio va perseguendo da anni. Ora investendo momenti di asocialità come nel caso dell’istituzione psichiatrica ( Santa Maria dei Battuti, 1978), ora il dramma della droga ( Mamma Eroina, 1983), o la tragedia dell’Aids ( Laica Rappresentazione, 1992) o ancora l’emarginazione giovanile ( Schegge, 1989).
In Gardenia, proposta a “Taormina Arte” il tema affrontato – ma non è la prima volta – è quello della mafia, visto però stavolta in dimensione quasi favolistica. Da un lato incredibile come nel mondo delle fate e degli elfi, dall’altro terribile come negli incubi in cui certi sogni fiabeschi si sostanziano.
Del resto, come nei casi prima citati, Gardenia – sette giornate e un tramonto prende avvio da un terribile fatto di cronaca, l’uccisione per mano e decisione mafiose di un esemplare magistrato ( e Agnese Borsellino presente a Palazzo dei Congressi, ha seguito commossa gli sviluppi del dramma, mentre padre Giuseppe Bucaro ne ricavava nuova forza per la propria lotta antimafia non labiale), vista però da una angolazione onirica. La rivisitazione degli avvenimenti è infatti compiuta da una ragazza che da decenni è “conclusa” come un bocciolo di rosa – una Gardenia appunto, come suona il suo nome – entro la più irreale delle realtà: in un’oasi di pace, di lusso e di illusioni cioè, costruitale attorno per indubbio amor filiale, da una tipica famiglia di boss nella quale potere e morte sono la regola. Di tutto ciò – della negata realtà, cioè – la fanciulla prenderà cognizione per episodi, per strane casualità e per mirifici incantamenti, ritrovandosi però, prima istintivamente e poi con piena convinzione, coinvolta nella protesta popolare per l’uccisione di a quel giudice, fino al punto di assumerne in una sorta di esaltazione salvifica la toga. Un discorso sulla mafia, certamente. Ma totalmente diverso da tanti altri per tono e circostanze drammaturgiche, dove il sogno, il non sapere o il negare ( e negarsi) eventi tanto abnormi da apparire incredibili, da un lato restituisce pulizia a una generazione trovatasi involontariamente coinvolta in tanti delitti e dall’altro avvia quella stessa generazione – se sostenuta dai necessari presidi sociali e statuali – a un riscatto.
Tema di grande rilevanza morale e – per certi aspetti – antropologica, cui Rosa Di Lucia ha dato semplicità e discorsività di eloquio, ricreando un mondo di giochi infanti e di racconti fatati, ma anche di misteri: prima intuiti, poi sofferti, e solo alla fine pienamente compresi. Un monologo a molteplici voci dunque è a quello che ci è stato dato di ascoltare e penetrare: un monologo al quale gli stacchi luminosi e sonori, fissati dal regista Bruno Mazzali per scandire le “sette giornate e un tramonto”, davano coerenza e vigore di coinvolgente e tragico “crescendo” musicale.
(…) Offriamo ai ragazzi delle scuole siciliane Gardenia – sette giornate e un tramonto di Maricla Boggio perché usino a questo testo di teatro come sollecitazione al loro modo di vedere la realtà e la facciano diventare fonte personale di ispirazione per descrivere con parole proprie ciò che provano di fronte alle situazioni che si verificano intorno a loro suscitando paura e sconforto.
(…) Noi crediamo di cogliere in a questo lavoro l’indicazione per proporre ai giovani e alle persone di buona volontà di proseguire con le parole e con le azioni, più forti degli atti delittuosi, ad impegnarsi a realizzare una vita degna di essere vissuta.
La parla con lei diventava teatro. Era. il suo modo di esprimerla, il “vero” atto del comunicare. Non esteriorità stupefacenti, né prodigi virtuosistici. Quasi il naturale mostrarsi della parola, e con essa, dell’evocazione che sempre la parola offre come approssimazione.
Nella sua riservatezza, nella sua allegria-ritrosia, nella noncuranza dell’apparenza, avevo spesso avvertito un segreto richiamo alla Duse: ma lei ne avrebbe riso, come di complimento eccessivo. Eppure, la Duse certo la richiamava, anche in quel trascurare il trucco, mostrando senza esibizioni una bellezza antica, da statua greca e da figlia della terra, non da top model. E la richiamava nel ricercare un teatro che fosse profondo nei temi, lontano da frivolezze stucchevoli, e anelasse ad una religiosità che significasse legame con la comunità, scambio intenso e d’animo.
Forse, infine, per una recitazione schiva e a tratti velata: ma chi saprà mai della Duse? La sogniamo, e la raffrontiamo a chi ammiriamo con amore. Rosa, come il teatro, sfugge alla descrizione, e più che mai alla celebrazione d’antan.
Posso dire che è stata protagonista, lei tutto un testo, di tanti di noi: e di altri spettacoli ha significato il centro, anche se interprete di un personaggio.
Come da un baule di commedianti emergono titoli e personaggi, alla rinfusa dagli anni8 – più di venti – in cui Rosa offrì la sua fantasia alle parole degli autori, drammaturghi, letterati e poeti, suggerendo immagini e suoni e sentimenti: aveva cominciato partendo dalla pittura, dalle forme disegnate, agli inizi del Settanta. Il “Geat 72”, interrato nelle viscere di un palazzone umbertino, nella roma della contestazione, Jarry, Artaud, Handke, Cage, ma anche Adam de la Halle, e Lorca e Flaubert: cominciarono ad affollarsi nella sua voce, che pareva pensiero sonoro, gli autori italiani, Renosto, Ripellino, Gavina, i poeti. Dal “Beat 72” era passata ad uno spazio grandioso, che consentiva il sogno dell’infinito e della luce, , il Trianon: Hölderlin, Browning, Mishima, Racine lanciavano le loro invenzioni attraverso quegli occhi d’acciaio e di cielo, dove il gesto arricchiva il verbo, e la voce si ampliava, sempre più sicura del suo potere, anche talvolta implorando, proprio per quella sicurezza di esprimere o si incrinava irridendo. C’era, nel suo offrirsi personaggio, una sorta di dono totale e al tempo stesso di distacco dimostrativo, come sempre ammonendo che si trattava di un gioco, serio però, e faticato, anche se delineato poi con quella leggerezza che esibiscono i giocolieri, i trapezisti rischiando la vita. Senz’ansia di reclamizzarsi, per fascino inevitabile la vollero i teatri ufficiali, sottraendola alle cantine e ai luoghi alternativi come una principessa riconsegnata al suo grado. E dopo il sodalizio con Bruno Mazzali, si avvicendarono suoi registi Gregoretti, Squarzina, Salveti, la Shammah, Ljubimov, fino a Carluccio, suo compagno. Il suo era ardore di rivoluzionaria al calor bianco: e così, con identica intatta determinazione cavalcò anche le scene dei teatri famosi e immensi, rivivendo la brechtiana “moglie ebrea”, la “bella selvaggia” goldoniana , la pirandelliana “Mommina” e la cadenza cantante ma come riconsegnandolo al suo originale mistero, del verso dannunziano. Non più a Roma soltanto, ma in giro per l’Italia, con due città che più di tutte se la contendevano, Milano e Palermo, diverse ma unite dalla medesima predilezione. Era anche l’ironia, sublime conquista della mente, a inserirsi nella sua recitazione: Rosa amava divertirsi su quella passione assoluta del teatro, prima immagine, poi parola, poi tutt’e due senza più predominio. D’Annunzio a braccetto con Scarpetta, e Moscato, e i miei primi testi, e con me Valeria Moretti, e ancora altri tanti autori italiani, emersero dal silenzio con la sua risata o con la sua invettiva. Non discriminò, Rosa, dopo Eschilo eccelso, Siciliano, Gavina, la sonante Spaziani ed Ezra Pound, e Buzzati, Consolo, la Ortese, e li ammise al suo privato Olimpo, insieme a Leon Battista Alberti, Ariosto, Tasso, il Bibbiena, e Gorkij, Andreev, von Kleist.
Un soffio di paura la sfiorò, poco più di due anni fa, ma subito riemerse ridendo del pericolo scampato, e riprese il suo gioco serio, dedicando alle parole l’amore che ugualmente dedicava alle persone care, perché la sua vita stava tra queste due sponde. L’ultimo anno fu intenso, marcato da prove continue: come un eroe del mito, Rosa, superava il dolore e lo sfinimento, difendendo la sua fragilità con la forza di quelle parole di poesia che la rassicuravano che avrebbe continuato a vivere come la Ilse dei “Giganti”, portatrice indomita di un messaggio a rischio della vita.
Era l’estate siciliana, e lei nel caldo sole d’agosto interpretò la sua “Gardenia” – io gliela avevo dedicata – a Taormina;, a quella serata si commossero, non per quello che il testo diceva, ma per come lei lo aveva ricreato, persone che mi stupii avessero lacrime ed emozioni, ed altre a cui il cuore rispose come di fronte ad un’amica che soffrendo condividesse la loro sofferenza. A Milano poi, nell’inverno, fu un’altra serata, definitiva: lei consapevole volle offrirla al suo pubblico, con Testori, che sul letto di morte le aveva donato quel primo testo mai recitato.
Perché scelse proprio quell’opera, Rosa? Forse per avere vicino, mentre avvertiva la vita sfuggirle, quell’autore dubbioso e problematico, e pur così intensamente religioso… come forse era lei, pudica nel suo “credo” da non averne parlato pubblicamente, mai. Sento rimpianto per una creatura speciale che molto ha dato, e che non so come si potrà ripagare con la pur breve eternità delle nostre parole, dei nostri scritti, dalla memoria. Rosa, essenza del teatro, spirito integro di vita.
Rosa Di Lucia è morta il 4 gennaio 1996 a Roma.