POLITICA, CRONACA, TEATRO

Franco Cuomo

La sedia di Van Gogh è certamente più interessante dell’originale. Per questo mi pace il teatro: perché è finto. E la finzione è dichiarata.
Ciò che non si concede alla vita lo si concede alla scena.
Teatro politic? E’ chiaro che, se scrivo – come se canto, grido o faccio qualsiasi altro gesto – faccio politica. Anche se mi chiudo in camera e decido di non scrivere più, faccio politica.
Tutto sta a vedere da che parte la faccio e da che parte la fa chi mi contesta. E’ ridicolo invece pensare che il teatro possa concretamente srvire come strumento di propaganda e persuasione ideologica. Un manifesto elettorale intelligente o tre minuti di televisione sfruttati bene varranno sempre più di un teatro che fa il suo “esaurito” ogni sera.
Perché allora ricorrere alla storia? Perché non inventarsi tutto?
Non c’è incompatibilità. Si può ricorrere alla storia e inventarsi tutto al tempo stesso.
Dov’è la differenza? Astolfo che va sulla luna con l’Ippogrifo è forse meno reale dell’astronauta che ci va con l’Apollo? peggio per l’astronauta se non riesce ad arrivarci altrimenti: c’è gente che la luna non sa inventarsela.
La storia – la cronaca, il documento – può fare da pretesto teatrale, non essere di per se stessa teatro. Altrimenti lo zelo del rigore storico ( l’equivoco del teatro-documento) diventa necessariamente un limite. E poi, se si vuole fare della storia un saggio a scapito del teastro, perché non scrivere un saggio a vantaggio di intrambe?
Quando la cronaca diventa teatro, il teatro comincia laddove finisce la cronaca. Drammi storici in assoluto non esistono: esistono momenti e situazioni in cui la storia non è più soltanto storia e diventa ( o può diventare) teatro: la trascrizione non necessariamente fedele di tali momenti è ciò che chiamiamo dramma o romanzo storico.
Questo vale per ogni epoca. Se però mi riferisco a fatti remoti, nessuno protesta. Se parl odi fatti contemporanei, tutti chiedono spiegazioni. Perché?
Vi siete mai chiesti se davvero Riccardo abbia gridato “Il mio regno per un cavallo”? Chiedetelo a Shakespeare.
Credo che chiunque scriva – se dotato di quel minimo di lungimiranza necessaria a fargli comprendere che ciò che scrive gli sopravviverà comunque, in bene o in male - dovrebbe considerarsi morto e rinunciare alla “proprietà letteraria”.
Per quanto mi riguarda, ho avuto la fortuna di pensare e scrivere la maggior parte delle mie cose a chi me le avrebbe poi dovute realizzare. La stretta collaborazione con carmelo prima e con Maricla poi – e il loro duplice ruolo di regista e scrittore – ha impedito lo sclerotizzarsi delle parole e delle idee ad uno stadio semplicemente letterario, facendole già nascere in funzione dell’ipotesi scenica prevista.
Ma lei sfonda una porta aperta.
Fatelo voi. E’ difficilissimo sfondare una porta aperta.

 

IL MERIDIONE PER UN DISCORSO PIU’ LARGO

Maricla Boggio

Dicono che facciamo teatro politico.
Se il nostro teatro è definito politico perché la prevalenza del lavoro è relativa al contenuto, allora è segno che abbiamo fatto del cattivo teatro. Se invece politica non è pura funzione strumentale, ma la fantasia evocatrice che consente l’uso dello strumento, allora ci sta bene.
“Egloga” è racconto amaro e divertimento vitale. La rappresentazione di una società ad uno stadio primitivo – espressa più per immagini che per passaggi logici - è un tentativo di sottintendere altre realtà, più evolute economicamente e politicamente, ma tuttaiva socialmente inefficienti.
Nello svilupparsi episodico di “Egloga” c’è una componente di base, le condizioni del meridione – in particolare il sud degli scritti di Ernesto De Martino e di Danilo Dolci – e il suo linguaggio, le sue tradizioni, nel senso positivo di storia e negativo di superstizione.
Ma su questa base c’è l’esigenza di rendere la rappresentazione riferibile ad ogni altra situazione di sottosviluppo.
Sotto questa angolazione il meridione diventa pretesto per un discorso assai più allargato: i Braccianti si trasformano in altri personaggi – altre situazioni – ma l’elemento epico-didascalico e al temp ostess ofantastico, che tutto riduce ad una dimensione unitaria sono i Ragazzi Azzurri ( Acqua, Azzurro, Blu) che, non visibili, costituiscono il riferimento critico su cui gravita l’intero sviluppo dello spettacolo.
L’uso dei materiali poveri ed essenziali assolve ad una funzione elementare: il grano che ricopre il terreno è spreco, sfida blasfema al bisogno, ma è anche suggestione, “oro” che servirà alla Maga per i suoi sortilegi, e ancora altri “segni”: la paglia è ancora terra e civiltà agricola, ma anche scansione di spazi utili.
Così il muro di Tonino Caputo, compatto nella sua intangibile omertà, eppoi scomponibile, aperto, penetrabile, visibile nella sua intimità frazionata dalle situazioni che si susseguono, che alla fine si rinchiude nella sua impermeabile durezza.
Così le vesti logore dei contadini, apparentemente prive di possibilità vitali, e invece vitalissimo supporto – per Gianna Gelmetti – a mille trasformazioni colorate, solo che scatti la molla dell’immaginazione e dell’azione.
Se questa realtà ci serve di base per riportare alla dimensione del bracciante sfruttatol l’attenzione dello spettatore – per l’analogica che ne può derivare a qualsiasi tipo di sfruttamente – allora il lavoro comincia a funzionare. Così, fino alla totale libertà espressiva, rappresentata dalla disponibilità estrema dei Ragazzi Azzurri, ai quali tutto è permesso, purchéci diano aquel senso duplice di chiarezza didascalica e ragione ( serenità-severità) mista appaoeisa liberatoria della loro natura.
Santa Rosalia è festa – la mafia repressione. Un pensiero non muore nel suo episodio. Per questo ciò che rimane alla fine non è soltanto un mucchio di arance da giustiziare.

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