Per la Settimana Pirandelliana va in scena ad Agrigento “Il Teatrino di don Candeloro” di Maricla Boggio
Nella scena finale don Candeloro, dopo aver narrato ancora una volta la battaglia di Roncisvalle e la gloriosa morte di Orlando, consegna nelle mani del nipotino Rinaldo, “la spada che ha usato durante il racconto per i gesti di Orlando. Poi inclina la testa, restando abbracciato al fanciullo. Sonno o morte, ha concluso la sua giornata”.
Ci viene così trasmessa, con tutta la suggestione e la sua carica paradigmatica, una vicenda, che è di Candeloro e della sua famiglia, ma che trascende la dimensione privata ponendosi come metafora di una cultura, che pur sconfitta non rinuncia alla vita, riaffermandone vibratamente le ragioni.
Non si intende con questo affermare – come fu detto in passato -: “il folklore è immortale”, ché tutto ciò che nella storia sorge, nella storia, in tempi più o meno lunghi, muore; bensì sottolineare che il teatro dei pupi, che della cultura folkloristica siciliana (e non soltanto di essa) è parte integrante, ha detto molto di più delle gesta di cui ha narrato; ha testimoniato tensioni, ideali, identificazioni, realizzando, attraverso l’inesauribile fascinazione del teatro, processi catartici, e dando voce. con i pupi – dipinti “con i colori della carne e del sangue” -, a un universo fantastico, necessario, non meno di quello realistico, a sorreggere la fatica dell’uomo, conferendo a essa orizzonte simbolico.
E l’amarezza del vecchio Candeloro – “io sono vecchio, e sto dietro a cose che oggi non servono più” – è mitigata dall’intuizione che questo mondo, nonostante tutto, può ancora suscitare interesse, amore: “Le ama forse Rinaldo, che è ancora un bambino”.
Il testo di Maricla boggio ha alle spalle rigorose letture e puntuali riflessioni, ma è anche, e decisivamente, frutto di invenzione, di una tensione creativa che ha utilizzato le suggestioni di tali letture e riflessioni organizzandole secondo una felice libertà espressiva.
Attraverso la vicenda di Candeloro e della sua famiglia possiamo così ripensare la storia inflitta al Sud, storia di invasioni, di espropriazioni, di etnocidio.
Perché almeno di tutto ciò si conservi memoria.
Verga è un brutto cliente per chi dalla sua narrativa voglia cavare teatro: soprattutto per quel linguaggio che nascostamente si nutre di dialetto natìo ma che poi, sulla pagina si dispiega nello “stromento perfettissimo” / la definizione è sua) dell’italiano colto. Il quale parrebbe tutt’al più appropriato al don Giovannino sofisticato dei racconti ( raramente eccelsi ambientati tra i borghesi della vagheggiata Milano. ma decidendo di sceneggiare – e sia pure con la massima libertà – le due novelle che trattano l’avventura del “puparo” don Candeloro, Maricla Boggio si è perigliosamente tuffata proprio nel Verga della “gintuzza”, cioè di quella plebe che l’Autore, per patriottica scommessa lessicale, obbliga a tradurre in un “fiorentinesco” ineccepibile ( e talvolta di irritante pedanteria) i pensieri necessariamente concepiti nella madrelingua isolana. Ma poi, alla prova del palcoscenico, come conciliare la fisicità prepotente dell’attore di Sicilia ( gesti, umori, calori) con la battuta risciacquata in Arno?
Il problema fu – ed è – comune a tutti i grandi scrittori siciliani, toscanisti accaniti o, come Sciascia, manzoniani addirittura: Pirandello si permise all’inizio qualche teatrale incursione nel dialetto, ma era ancora un commediografo povero e angelo Musco “rendeva”.
Bene, tra queste irrisolte spine della “parlata” la Boggio si è inoltrata con idee molto chiare: dare a verga ciò che è di Verga – insomma lasciare pure l’italica favella su labbra che salivano dialetto – ma, nello stesso tempo, creare come prospettiva socio-politica una “spia” popolare attraverso l’assunzione di materiali poetici demologici. E per approntare una convivenza – altrimenti impossibile – tra linguaggi così storicamente opposti, Maricla Boggio si rivolge alla tecnica estraniante della drammaturgia epica: e il “song”, cioè il momento “cantato” della dialettica, le arriva dalle trascrizioni di Giuseppe Pitrè, cioè dalla massima fonte della cultura subalterna di Sicilia.
Il risultato di così ardita operazione ci sembra assai suggestivo: la rielaborazione è condotta in assoluta libertà, addirittura con situazioni e tipi e suoni completamente reinventati, ma tuttavia riesce a restare doppiamente fedele ( come certi bigami che, tutto sommato, sono fedelissimi) tanto alla cadenza cruscaiola di Giovanni verga quanto a una sicilianità che vuole prorompere senza mediazioni erudite. E molto, in particolare, ci affascinano – di questo testo – due momenti che per intero ( insomma ricavati dalle novelle, pure se a quel clima ispirati) appartengono alla scrittura originale della Boggio: ci riferiamo alla delicata scena in cui la sfortunata Violante affida alle monache il “frutto della colpa” e al tenero finale in cui li vecchio “puparo” oramai agli sgoccioli declama per l’ultima volta la rotta di Roncisvalle davanti al nipotino cui poi trasmette - come testamento e pegno di continuità – la spada di Orlando paladino. L’orgoglio dinastico del commedianti è povera cosa fatta di stracci e di sogni, certo.
Ebbene, lungo tutta la commedia ( che appunto di teatranti tratta) questo misero eppur sfavillante orgoglio, Maricla Boggio ce lo racconta con penna innamorata.