Cavour, l’amore e l’opera incompiuta - Teatro Stanze Segrete (Roma)

 

Recensioni spettacoli teatrali/eventi
Scritto da Enrico Bernard   

Dal 4 novembre al 4 dicembre. Un Cavour insospettabilmente sentimentale tra vicende private e angosce per un'opera, l'Italia, lasciata incompiuta sullo sfondo di una retorica borghese che attraverso la lirica mitizza l'indipendenza dallo straniero purché non si parli di egalité.
 
 
Produzione Logos presenta
CAVOUR, L'AMORE E L'OPERA INCOMPIUTA
di Maricla Boggio
regia di Ennrio Coltorti
con Ennio Coltorti, Adriana Ortolani, Eugenio Marinelli, Daniela D'Angelo, Massimo Roberto Beato
e le voci di Lorenzo Venturini e Daniela Barra
costumi di Rita Forzano
scene di Ennio Coltorti e Jacopo Bezzi
 
Perché il teatro in Italia, ad un certo punto della sua storia, ha smesso di essere, come invece è sempre stato negli altri Paesi, il “luogo” centrale della vita civile e politica? Effettivamente le altre letterature nazionali, a differenza di quella italiana, si basano principalmente sul teatro: una buona parte della letteratura inglese è fondata sulla drammaturgia, come quella spagnola o francese, inutile fare nomi dei grandissimi autori da tutti ben conosciuti. Ovunque, tranne che in Italia, il teatro è considerato il fulcro e il motore della formazione non solo culturale e spirituale, ma anche linguistica e politica dell'idea di Nazione. Lo è in Germania, con la "Drammaturgia d'Amburgo" di Lessing, lo è anche in Spagna e in Francia, ovviamente, dove il teatro è costitutivo dell'idea nazionale. Per non parlare dell'Inghilterra e, in tempi più recenti, degli Stati Uniti. In Italia invece l'idea di Nazione si fonda sulla retorica della lirica ottocentesca, piuttosto che sulla letteratura teatrale dello stesso secolo in cui essa si è realizzata con le lotte per l'indipendenza.
La domanda è pertinente se si pensa che, fino a tutto il Settecento, la letteratura italiana  è stata prevalentemente, se non esclusivamente, teatrale. Tanto che il Settecento è dominato dalla questione drammaturgica: il dibattito del secolo (Goldoni, Da Ponte, Metastasio, Gozzi, Alfieri, e potrei continuare per un pezzo) si svolge sopra, sotto, dentro, fuori e intorno al teatro. Malgrado ciò, la drammaturgia italiana del principio dell'Ottocento, nonostante il teatro partecipi molto attivamente all'Unità d'Italia, viene poi quasi cancellata dalla memoria storica della nostra letteratura: chi ricorda i nomi dei grandi autori, che pur ci sono stati, del XIX secolo? E ancora, per quale motivo la letteratura teatrale è stata esclusa dagli addetti ai lavori, cioè dai critici letterari, dalla storia delle patrie lettere? Non certo perché gli autori dell'Ottocento non abbiano seguito le fasi storiche o la realtà del loro tempo. Anzi, drammaturghi come Cossa, Giacometti, Bersezio, Torelli ed altri ancora hanno dato un contributo essenziale ad una drammaturgia nazionale e alla lotta per l'Unità d'Italia. Un autore teatrale come Vittorio Bersezio, dopo aver partecipato alla battaglia di Novara, dove andò a combattere gli austriaci, dichiarò il suo risentimento per l'irriconoscenza riservatagli col dimenticatoio dalla Patria: “Le pallottole austriache hanno risparmiato un inutile autore di cui l'Italia non sentiva bisogno”. E stiamo parlando di uno scrittore che consegnò al teatro un capolavoro come "Monsù Travet", opera che anticipa Kafka e narra le disavventure di un modesto impiegato piemontese, appunto il signor Travet, il cui nome divenne, come accaduto un secolo dopo con Fantozzi, un termine entrato nella lingua italiana (travet=piccolo funzionario).
Insomma, esiste - eccome! - un teatro nell'Ottocento, che si occupa della realtà del suo tempo. Un teatro che stupisce addirittura Garibaldi che a Trieste va due volte a vedere un lavoro di Cossa che pure ottiene un grande successo di pubblico. Al punto che un testimone dell'epoca riferisce del funerale di Cossa, morto poco dopo il successo triestino, in questi termini:
"Il lugubre corteo tra due file di denso popolo silente avanzò verso la stazione dove, col cuore stretto accompagnammo il nostro grande: dalla tuba del principe al berretto dello spazzaturaio, tutti i cappelli si abbassarono, e si curvarono le teste reverenti".
Eppure Cossa è stato completamente rimosso, accantonato dalla patria storia letteraria nel giro di pochi anni dopo la morte. Proprio colui per il quale Manzoni, seguito da Zola, a Torino saltò in piedi per battere le mani e gridare al genio!
Cosa è successo allora? Cosa ha determinato quest'eclissi teatrale nel periodo compreso tra Manzoni e Pirandello? Naturalmente un ruolo non ininfluente, almeno sulla critica, lo ebbe la posizione di Croce che, pur amando il teatro, lo considerò sempre un genere minore. Il grande Benenedetto Croce scrisse queste poche, bonarie ma sminuenti, parole a proposito di Cossa: "egli proseguì fedelmente un serio ideale artistico, determinato da una fase del pensiero storico contemporaneo; e resta l'autore di un'opera non volgare, il Nerone".
Ma non basta il "crocianesimo" - gustoso quanto piuttosto cattivo quell'eufemistico "opera non volgare" rivolto al "Nerone" di Cossa - a spiegare la questione. Il fatto è che il teatro, all'indomani della Rivoluzione Francese del 1789, con la traduzione dei testi giacobini all'inizio dell'Ottocento, ha cominiciato a far paura agli italiani. Il Teatro Giacobino era un vero e proprio teatro politico-"didascalico" che arrivava in Italia portando le idee della Rivoluzione francese. Ed era un modo di fare teatro cui molti degli autori che citavo prima si ispiravano, almeno idealmente. Mi riferisco per esempio al Giacometti autore di un lavoro protosocialista dal titolo "Le tre classi sociali", un titolo che non prometteva niente di buono al pubblico non certo popolare dell'epoca. Così la borghesia italiana preferì trovare nella lirica, e nella retorica della lirica, quel "va pensiero" che detto in "rude" prosa suona troppo rivoluzionario: passi la lotta per l'indipendenza, ma andiamoci piano con l'egalité!
Maricla Boggio da molto tempo si dedica ad una drammaturgia impegnata fatta di "realtà" politiche, storiche e sociali che - mi sia consentito un accostamento che non mira a retrodatare la sua drammaturgia ma a fondarla su precedenti e, casomai, a rinverdire e ricordare gli autori che citavo come parte di un processo culturale - non sono mai state estranee al nostro teatro. Un teatro che, al contrario come dimostravo, ha sempre partecipato alla vita politica italiana, anche quando l'idea e la speranza dell'Unità nazionale andava a mimetizzarsi, per esigenze contingenti, sotto le foglie della magica ed afrodisiaca mandragola di Machiavelli o dell'intrattenimento erotico dell'Aretino.
Rappresentato nell'anno del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, il testo della Boggio su Camillo Benso Conte di Cavour, ha sia il merito di proporsi sotto l'aspetto della continuità con la tradizione drammaturgica cui accennavo (lo dimostrano i due Premi Matteotti di cui è stata recentemente insignita l'autrice per la sua attività teatrale), sia quello di rivelare risvolti meno conosciuti della vita e della privacy della figura simbolo della nostra giovane nazione.
Infatti, le vicende umanissime di un personaggio storico come i suoi amori o le delusioni politiche, le ambizioni e il tentativo di crearsi una sfera privata nettamente separata da quella pubblica, trovano in questo atto unico di Maricla Boggio una sinergia drammatica con la Storia con la maiuscola che scorre in una serie di flash back al di fuori della camera da letto della scena, in cui l'aspro odore del chinino accompagna la parabola finale del febbricitante uomo politico. 
All'autrice non interessa, giustamente, esprimere un giudizio storico finale, che avrebbe potuto portare anche a soluzioni impreviste (recenti sono le rivelazioni dei massacri e delle violenze subite dalle popolazioni del sud da parte dei Piemontesi), sul personaggio cui dobbiamo, nel bene e nel male, l'Italia contemporanea. Anzi, con un finale a cadenze cinematografiche, viene lasciato provocatoriamente al nostro giudizio di spettatori (sia dello spettacolo che della storia più ampia) una riflessione sull'oggi, sui problemi, a partire dal Meridione, da sempre irrisolti e forse irrisolvibili: non a caso il titolo della piéce fa riferimento all'opera incompiuta, alias l'Italia, di Cavour. Maricla Boggio preferisce invece puntare i riflettori sull'uomo privato, più che sulla sua personalità nota, per rivelarci aspetti intimi del suo carattere, i motivi delle sue bizze e ritrosie, le sue angosce e i suoi ideali politici accanto alle sue debolezze.
Ennio Coltorti, regista e protagonista di questo denso spettacolo, sembra avere in mano una bacchetta magica trasformando il piccolo spazio scenico del Teatro Stanze Segrete in una sorta di palcoscenico della Storia che si muove tra velatini e palchetti in sospeso in una girandola di situazioni imprevedibili per la struttura in cui opera. Il Cavour da lui interpretato è forse un po' idealizzato (è appunto il Cavour che piacerebbe a noi italiani), ma qui non si tratta di essere fedeli al cliché (come invece accade agli altri personaggi del lavoro teatrale, a partire dal Vittorio Emanuele interpretato da Eugenio Marinelli), bensì di fornire allo spettatore - molti giovani fortunatamente in sala - motivi di attenzione e partecipazione. E l'efficacia del testo sta proprio nella sua universalità, perché la struttura drammaturgica e la costruzione del personaggio potrebbe essere, più in generale, mutando connotati e vicende, quella di un qualsiasi uomo di potere che giunge a dover chiudere i conti con la sua esistenza.
Sullo sfondo di arie liriche dal "Nabucco" e da altro repertorio verdiano, la vicenda umana di Cavour assume così i toni di una grande tragedia nazionale, quell'incompiuta nazione che siamo (o la nazione che non siamo diventati) per colpa di una borghesia, appunto retorica e conservatrice, in altre parole reazionaria, che non ha mai accettato - non a caso siamo il paese del "Gattopardo" - un vero cambiamento nel corso della sua storia. Un retorica che i costumi puntigliosamente realistici e storici, un po' polverosi, dell'allestimento tendono a sottolineare.
Alla fine dello spettacolo Coltorti interrompe il lungo applauso di un pubblico coinvolto per raccontare la storia del teatro Stanze Segrete fin dalle sue origini e dalla fondazione (che si deve ad Aurora Cafagna) e che oggi, pur nelle sue ridotte dimensioni, rappresenta uno dei pochi fulcri di vera e viva cultura teatrale ancora attivi a Roma.
 

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