La donna donna
Nel teatro di Brancati, molti personaggi femminili rientrano nello schema tradizionale dei comportamenti sociali secondo il costume dell’epoca, specie siciliano: l'autore le mette in scena nella situazione generale che ripropone differenziandole soltanto per sfumature.
Nella mentalità comune della società del tempo in cui Brancati opera, e in particolare nel costume meridionale, la donna è vista come oggetto di desiderio, di possesso, di ambizione.
Allora emerge “la donna”: “ecco il gran tema” esclama il padre di Francesco nel “Don Giovanni involontario”. Le situazioni in cui si verifica il rapporto tra l’uomo e la donna sono descritte attraverso una distanziazione critica che si insinua sotto l’apparente partecipazione.
Il suo modo di concepire tale rapporto si fa generale visione dell’intera scoietà a cui appartiene.
Da “Don Giovanni involontario”
Dice Francesco:
FRANCESCO – “Le donne! In fondo, è sempre la stessa storia ... Quando ne vedo una per la prima volta, certo mi piace, smanio, non dormo, ma insieme conosco esattamente cosa ne penserò quando mi sarò stancato. Che tristezza! Annoiarsi è sempre assai penoso, ma la noia che dà una donna, quella noia pungente, sottile, stretta, chiusa, ripugnante, ah, ah!... Delle donne, non posso dir nulla di bene: quando, per poco, hanno detto di no, mi hanno fatto disperare, non dormire; mi son mangiato i gomiti! quando poi han ceduto, mi hanno infinitamente annoiato... E quando dicono no? e quando dicono sì? Iddio le perdoni! Hanno sbagliato sempre; arrivano sempre in ritardo, non capiscono, dicono no per ragioni ridicole, dicono sì per ragioni peggiori. Ah, io odio le donne !... (come fra sé). L'insonnia che mi hanno dato, prima, il sonno interminabile che mi hanno lasciato, dopo!. ..”.
Il sollievo che prova Francesco quando una donna se ne va prosegue l'illusione della perfezione dell'universo maschile turbato dalla presenza della donna.
Brancati non rinuncia ad un beffardo ribaltamento finale.
Quando, nel sogno, Francesco crede di essere arrivato alle soglie dell'al di là, e pensa di aver meritato l'inferno per il tanto soffrire procurato alle donne da lui, più che amate, sopportate con noia, ma alle quali ha dato piacere, ecco il Diavolo che lo dissuade; la quantità è stata tanta, ma il piacere procurato, poco. E c'è un ribaltamento interiore, ambiguamente in bilico tra la simpatia per lo stupefatto "don Giovanni" e la rivalsa ottenuta dalle donne, la beffa per il suo creduto primato di piacere e l'indifferenza provata dalle sue amanti. Il Diavolo rivela a Francesco che non è stato lui a far soffrire di più, perché la sofferenza maggiore proprio lui l'ha provata. E le donne? Fingevano! « Tu hai dimenticato per sempre cosa sia la gioia”, gli dice l'Angelo, e in questa frase shakespeariana si ammanta una visione della vita dal sapore di splendida, rinunciataria mestizia; è, insomma, "quell'universo" del don Giovanni involontario, che si fa per un attimo poesia.
Un ulteriore ribaltamento del dramma è ancora conservato per l'ultima battuta, che costituisce il "riepilogo". Francesco non è morto, sognava. Lo pervade una disperazione grottesca - il serpente che gli si era profilato nella visione dell'al di là era un volgare salume, al passo con l'ingenua volgarità della sua vita ormai quasi del tutto trascorsa.
Il teatro pieno di furori, da cui emerge una “certa” donna
Il teatro di Brancati su cui vorrei fermare lo sguardo è pieno di furori per come è fatto il mondo e si veste di sogni disperati per un’esistenza che non c’è: da questo teatro, amorosamente creata, emerge una "certa" donna.
Questa donna si presenta alcune volte come “altro”: per rifiuto di una tradizione consolidata o per ribellione ad una sessualità vicina a quella animale, ottusamente riproduttiva: in questa donna inventata a sua immagine e somiglianza nelle istanze di ribellione, la libertà creativa di Brancati dà corpo alle sue suggestioni assecondando i più nascosti disegni di rinnovamento esistenziale. Il comportamento anomalo che a lui non può riuscire in prima persona perché i tempi non sono maturi, lo affida al personaggio, che può parlare anche ai posteri e farsi antesignano di una volontà politica di rinnovamento.
Celandosi dietro al fantasma immaginato, Brancati si fa donna per far parlare e agire liberamente se stesso.
In questa dimensione drammaturgica la donna si manifesta come trasgressione: attraverso il suo comportamento viene forzata una morale consolidata, sia per le propensioni sessuali – Caterina de “La governante” - che per l’osservanza delle tradizioni sociali e familiari che esigono per una ragazza il matrimonio – Pierina di “Questo matrimonio si deve fare” - ; e quando emerge la Elvira di “Una donna di casa”, allora è per una sorta di triplo salto mortale che a quel ruolo di casalinga tradizionale la donna si riaffaccia, dopo aver cavalcato il demone dell’intellettuale di successo.
Via quindi ogni somiglianza con la femmina accidiosa, oggetto di pratiche sessuali necessarie alla prosecuzione del nome di famiglia. Di queste donne, specie nei romanzi di Brancati, gli uomini fantasticano con gli amici per sbizzarrire la fantasia se si tratta di potenziali amanti o per planare sul matrimonio con l’obbiettivo del consolidamento economico.
La donna "doppio" di Brancati è personaggio del tutto diverso.
PIERINA di “Questo matrimonio si deve fare”.
La ragazza Pierina è insofferente di ogni legame tradizionale. La sua verginità non le pesa, come non pesava a Giovanna D'Arco. Dice quello che pensa, e inventa quello che le serve pur di creare ostacoli alla realizzazione del suo matrimonio con l'avvocato Pannocchietti che colleziona incarichi e stipendi pur di avere la sua mano. « Ha le mani piene di rughe - dice del pretendente che ha ventinove anni -. Ha sangue vecchio. Non può tagliarsi le unghie perché teme di ferirsi con le forbici! E d'inverno ... gonfia tutto! “.
Il clima oppressivo della provincia piccolo-borghese, con le sue feste nel circolo a colpi di danze e di rosolio, di giochi di carte e di scherzi dalla volgare perfidia, dove gli anni passano senza lasciare altro segno che non sia quello delle rughe e dei capelli sbiancati o diradati, questo clima lascia Pierina intatta come solo può accadere a creature di poesia.
Di fronte all'aumentare delle cariche del fidanzato, Pierina pretende sempre di più, fingendo di entrare nell'ottica dell'interesse come il padre che la vorrebbe maritata, ma in realtà si beffa di tutto e di tutti.
Fiorisce, parallelamente a Pierina, un poeta nel desiderio:
Ferdinando, a cui pare di essere vissuto in altra epoca come Leopardi; ma la sua immaginazione, pur fuori dall'usuale, è limitata al ripetitivo, e il suo genio si limita all’essersi inserito una gobba nella giacca per somigliare di più al suo amato poeta.
Chi forse si potrebbe avvicinare a lei è Volfango, professore aspirante universitario dall'esile voce, che da decenni la ama senza osare di rivelarsi. Al punto che quando, involontariamente, non può non ammettere quell'amore - Pierina scopre il diario dove Volfango parla di lei con passione -, la voce lo abbandona completamente. A Pierina donna di fantasia non rimane che mettersi tra i due aspiranti alla sua mano, e con un ultimo soffio di spirito pronunciare « Che bel quadro!”.
Pierina, creatura di gioia sprizzante è verde di linfe destinate a non maturare mai per la cattiveria del terreno da cui devono nutrirsi. Ma è proprio nel suo rifiuto che Pierina vive la sua singolarità, è nella libertà contrastata e ostinatamente difesa che si definisce la sua felice anomalia.
CATERINA de “La governante”.
Nel laboratorio interiore di un drammaturgo si elaborano a volte elementi di varia provenienza, che arrivano a produrre il personaggio.
L’origine della governante Caterina va ricercata in un breve scritto di Anna Proclemer, indirizzato al marito il 29 febbraio del 1948: esso figura nel libro “Lettere da un matrimonio” di Vitaliano Brancati e Anna Proclemer:
“Nuzzo caro, vuoi che ti narri il terrificante dialogo avvenuto tra me e la Signorina? (che era la governante che stava in casa, la puericultrice diplomata, severa) Eccolo.
IO - Se io dovessi andare in Sicilia, signorina, mi raccomando a lei. Lei ha molto giudizio e credo ...
SIGNORINA - Deve stare tranquillissima, signora, per quanto mi riguarda le assicuro che farò come se lei ci fosse, di più, anzi, dato che la mia responsabilità sarà maggiore.
IO - So benissimo che per quanto la riguarda non avrei motivo di stare in pensiero, ma devo confessarle che non mi fido completamente della Tina.
LEI - Perché signora? Da quello che m'è parso di capire, non credo che si approfitterebbe di nulla. Mi sembra molto onesta.
IO - Non molto, in verità. Pochi giorni prima che venisse lei, l'avevo licenziata perché mi ero accorta che rubava sfacciatamente sulla spesa. Sa, a quel tempo io lavoravo e non avevo tempo di ...
LEI - Ma davvero? Ma cosa mi dice? Non avrei mai pensato che ... Eh, come si sbaglia a volte nel giudicare le persone ...
IO - Per il resto non ho motivo di lagnarmi; è seria, non ha pasticci fuori casa, è anziana ...
LEI - Senta, signora, mi scusi se mi permetto, non so se faccio bene a dirglielo, non vorrei ... ma non crede che sia un po' viziosa?
IO - (spalancando gli occhi) Un po' ... che cosa?
LEI - (imbarazzata) Ecco, ho l'impressione che non sia del tutto normale.
IO - (sollevata) Ah sì, so che è stata, anni fa, in una casa di cura per una malattia nervosa, ma ormai ...
LEI - (insistendo e con crescente timidezza) No, vede, non volevo dir questo. Vede, mi sbaglierò, sa anzi forse non dovrei nemmeno parlarne, ma mi ha fatto l'impressione di essere una di quelle donne ... come dire? .. storte.
E arrivando alla battuta chiave:
LEI - E poi c'è un'altra cosa. Un giorno mi ha detto: "Signorina, vorrei che lei mi insegnasse le preghiere". "C'è poco da insegnare - le ho detto io - basta che le dica ... " E allora lei:
"Quando le dice lei, signorina?". La sera, le ho risposto. "Le dice a letto?" Sì, perché? "Potrei qualche volta venire da lei così me le insegna?" Ma le preghiere io le dico per conto mio, le ho detto, e ho troncato il discorso. Non le sembra strano? lo mi sbaglierò, e poi di queste cose non ne capisco niente, ma mi ha fatto una curiosa impressione.
IO – ( mugolo e pronuncio parole inintellegibili)
LEI – E poi, sa, delle volte mi guarda, ma mi guarda in un modo così strano... L’altro giorno ero seduta sul letto che leggevo l’”Europeo”. Lei si è appoggiata alla porta della camera e si è messa a fissarmi come... ecco, come un fidanzato può guardare una fidanzata! E’ rimasta lì imbambolata un quarto d’ora. Io ho fatto finta di niente e lei se n’è andata: Mi perdoni se le ho raccontato queste cose, può darsi benissimo che mi sia sbagliata, anzi sarà certamente così...
IO – (tranquillizzante) Sì, può darsi che sia stata un’impressione!
Comunque se accadesse qualche altra cosa, la prego di dirmelo”.
Il 2 marzo del 1948 – pochi giorni dopo aver ricevuto la lettera di Anna Proclemer, Brancati risponde:
“Annina cara, il dialogo che mi hai trascritto e che io conservo come una scena di commedia, è veramente incredibile. Ma come? La Tina nasconde un diavolo così nero? Avevamo l’inferno in casa e non ne sapevamo nulla!....”.
L’episodio raccontato in modo così vivido da Anna Proclemer “non aveva poi avuto seguito”, scrive lei stessa nel suo libro. Ma aveva certo lavorato nell’animo di Brancati mettendone in movimento la fantasia, perché quattro anni più tardi, nel 1952, egli scrisse “La governante”. Le due donne che appaiono nella lettera scritta dalla Proclemer in forma di scena assumono poi, nel dramma, due aspetti estremi di femminilità, quello trasgressivo di Caterina, e quello innocente di Jana. E il racconto diventa il dialogo tra la signora, nuora di Platania e la governante, la quale, più o meno, dice le stesse cose che Brancati aveva recepito dalla lettera.
ELENA - (ansiosa) Ma di che si tratta?
CATERINA - (pausa) Lei, signora, conosce bene Jana?
ELENA - Perché mi fa questa domanda?
CATERINA - (già pentita) Oh, per nulla ... Nulla ...
(stringendosi le tempie) Appena ne parlo a voce alta, mi convinco che è una pazzia ... un brutto sogno a occhi aperti ... Mi perdoni ... se permette, anzi, torno di là.
ELENA - (trattenendola con le dita) No, scusi. Lei doveva parlarmi di Jana?
La scena prosegue poi come si sa.
Nel dramma brancatiano Caterina è governante in una famiglia altoborghese dal prevedibile ménage di finte rispettabilità.
Caterina preferisce amare le donne piuttosto che gli uomini per disgusto dei comportamenti maschili, e si rifugia nella conoscenza letteraria del mondo – legge appena ha del tempo libero -; la sua è una manifestazione di impotenza a incidere sul concreto, con un ripiegamento rispetto all'azione. Tenta di avere rapporti con Jana, la serva di casa portata dal paese, forse ne è attratta per la sua purezza, per la fiducia che le manifesta come di bestia affezionata, inconsapevole del male.
In questa Caterina opera lo spirito giudicante di chi si sente diverso rispetto all’esistenza cosiddetta normale e “perbene”, quasi sempre ipocrita. Da una parte emerge il compiacimento di essere diversa, dall'altra il disagio. Si scontrano l'amore per gli altri desiderati come compagni di vita, e l'invidia per quelli che vivono in branco senza sentirsi attanagliare dalla solitudine, ma anche il ribrezzo per le loro volgarità. E’ Brancati a vivere in Caterina: l’autore sente un intrico di sentimenti contrastanti, di attrazione e di repulsione, per la gente da cui nasce e che gli è diventata estranea fra le mani, sia nei rapporti sociali che nell’appartenenza politica: per questo ne fa materia di drammaturgia.
La condizione di emarginazione sessuale di Caterina è il segno di un disagio che non ha la forza di riscattarsi, ma al tempo stesso sente nella diversità la sua colpa.
Tale colpa rimane nascosta finché essa non incide sulla realtà: la morte della giovane Jana da lei calunniata porta alla luce questa colpa: di qui l’autopunizione, il suicidio. Dal livello letterario alla sofferenza della carne si genera un brusco cambiamento che porta alla tragedia.
La solitudine di Caterina, il suo disperato bisogno di chiarezza, i suoi impulsi non controllati a dispetto di una volontà moralmente intransigente, il suo anelito all’espiazione, e alla fine il suo suicidio per amore di giustizia, sentito come una cesura dal mondo degli uguali, diversi da lei, questa solitudine desiderosa di espiare la sua diversità, rappresenta drammaturgicamente il "doppio" dell'intellettuale Brancati. E’ solo una lieve analogia a collegare la ribellione dello scrittore ad un mondo di ipocrisie sociali e politiche rispetto alla governante afflitta dai suoi problemi di sesso, ma questa analogia è sufficiente per dar vita al dramma.
GIOVANNI in “Raffaele”
Vorrei allargare la dimensione di questa "diversità” rappresentata attraverso figure al femminile, citando come eccezione il personaggio di Giovanni in “Raffaele”.
Anche Giovanni è un ribelle alle regole ed ai costumi. Se è maschio, però è antifascista rispetto ad una società interamente fascista; in una concezione invalsa anche al di là del famoso ventennio, è un po' femmina, schivo com'è da ogni esaltante manifestazione di machismo. Tutto sta a definire il "femminile" ed il "maschile" non secondo schematici ruoli determinati dal sesso, ma considerando l'inclinazione dello spirito.
La battuta di Giovanni, rivolta al fratello Raffaele, opportunista e pavido, può portare verso questa strada, se a "uomo" si dà un valore positivo, che come si deduce dalla battuta, non ha a che fare con il sesso.
GIOVANNI - Un applauso! Dalla testa ai piedi, sei un applauso! I tuoi occhi dicono sì!, le tue mani dicono bene!, le tue orecchie dicono bravo!, i tuoi capelli dicono avete ragione! Se ti premono sul petto, così (Io afferra per i fianchi, premendolo nello stomaco coi pollici), fai eja! come un pupazzo! Se ti premono le spalle fai alalà! ... Che hai di uomo tu?
ELVIRA di “Una donna di casa”
Elvira, protagonista di “Una donna di casa”
è forse il personaggio che più rappresenta il "doppio" di Brancati nell'atteggiamento interiore dello spirito.
Casalinga dichiarata, silenziosa, dedita al bucato che esibisce con trascurata quanto provocatoria naturalezza, e ai figli che soccorre in ogni bisogno con puntigliosa perfezione, Elvira racchiude in sé una carica eversiva talmente potente da decidere di rimanere nascosta per l’assoluta impossibilità di affermarsi nel concreto. E, nell'ambito del reale e del vivibile, scava la sua dimensione di sopravvivenza, che è quella celata all'interno della meno sospettabile di rivoluzionarietà, cioé nel chiuso universo della "casalinghità". Ma, mentre per ogni altra donna di mediocri ideali, l'uscita dalla casa e l'emulazione dell'uomo sono il tetto delle aspirazioni, per Elvira la libertà è "quel" mondo dei piatti e dei panni che le permette la riflessione distaccata e critica, senza compromessi.
Elvira scrive una commedia per scommessa: Emanuele, il marito attore, la recita credendola di un misterioso autore straniero, mentre è convinto che sua moglie sia un’umile donna di casa, tutta presa dalla pulizie e dalle faccende domestiche. La commedia ha successo. Emanuele scopre che è Elvira ad aver scritto quella commedia e ne rimane sconvolto nella sua concezione tradizionale che confina la moglie nell’ambito familiare. Che Emanuele abbia per amante l’attrice che gli recita al fianco non ha intaccato quello che lui ritiene un diritto: avere la moglie dedita alla famiglia e soprattutto fedele. Personaggi di fede politica opposta si incontrano e scontrano nella vicenda: attraverso di loro Brancati esprime il suo pessimismo nei confronti di una effettiva possibilità di intervento teso a portare giustizia in un contesto sociale ancora schiavo di antichi cascami fascisti, intriso di nuovi legami devozionali, percorso equivocamente da malintesi richiami ad un superficiale e millantato marxismo.
Il giovane Ciro, calatosi dalla sua esistenza di nobile scioperato a rappresentante di istanze sociali per nulla vissute, vede in Elvira il suo idolo, perché la donna, pur potendo essere una signora, conduce una vita umile di casalinga ed al tempo stesso è un’intellettuale di successo. Ma Elvira non cede alle lusinghe, si mantiene ferma negli affetti e possiede un forte senso della realtà; si è fatta una visione documentata delle ingiustizie del mondo e non si illude di poterle cancellare. Uun po' madre e un po' casta e potenziale amante, Elvira così parla a Ciro:
ELVIRA - lo ho visitato da ragazza, sotto una pioggia torrenziale, un paesino della Piana in cui duemila persone avrebbero saltato il pasto della sera; i bambini venivano messi a letto all'avemaria perché si addormentassero prima di sentire fame. Il dialogo, che ho riprodotto, l'ho udito con le mie orecchie. E con questo? Devo mentire? Nascondere che la mia più grande felicità è rimanere sola, pensando a me stessa? E che quanto c'è di meglio, a questo mondo, è un momento di limpidezza, in una mente onesta e libera?
Mi pare di poter intuire che quella convinzione, nel groviglio dei desideri privati e delle pubbliche istanze sociali, appartenga anche a Brancati; certamente appartiene al suo "doppio", alla donna da lui creata per parlare più liberamente del suo "io" nascosto. Osservare e descrivere gli eventi sociali è già un’azione teorizzata, destinata magari a spingere i posteri ad una azione concreta: così è stato per Vittorio Alfieri sentito da Piero Gobetti come anticipatore del Risorgimento, così è stato per Cecov rispetto ai rivolgimenti sociali in Russia. Brancati non si è fatto riformatore politico, ma i suoi drammi, se letti in trasparenza e soprattutto a distanza di alcuni decenni dalla loro stesura, preludono a sostanziali cambiamenti di costume. E questi anticipano i cambiamenti politici.
In “Una donna di casa” la serie dei ribaltamenti e delle sorprese ha ancora un paio di guizzi.
Nella commedia scritta da Elvira e recitata da suo marito, la visione di un mondo che sente l’urgenza di un’affermazione di libertà, dopo il consenso del pubblico produce nell’assetto politico locale l’effetto di un ciclone. I notabili al potere fiutano il pericolo, si generano inquietudini e trambusti da più parti. La donna decide allora di far cadere la commedia: fa recitare al marito un altro finale, dove la libertà è mostrata come una sciagura. Ma in questo brusco ribaltamento il pubblico vede un amaro monito, ed è di nuovo successo.
Accorsi da tutti i giornali, i critici, disorientati e curiosi, interrogano Elvira, ma lei si finge una casalinga incolta e quelli se ne vanno delusi. La commedia verrà proibita per il suo potere di eversione. Elvira non scriverà più.
Tuttavia Emanuele, anche se Elvira è tornata casalinga, è pieno di sospetti per quella moglie che lo sorprende per il suo cervello:
“ Come posso vedermi accanto sullo stesso cuscino, una testa in cui ci sono mille e cinquecento volumi?”, dice, quando ormai la vicenda volge alla conclusione ed Elvira ha deciso di tornare ai fornelli. Attraverso il sacrificio di pensare e di infondere sollecitazioni a mutamenti da parte di Elvira, i due coniugi ritrovano giocosamente un "feeling" amoroso, ed è un falso lieto fine a concludere con palese ironia la commedia.
Ma il finale consolatorio è irrilevante rispetto alla splendida intuizione del personaggio di Elvira, della sua solitudine protesa alla riflessione sugli altri, della sua impotenza ad agire che non è rinuncia a farsi portavoce di idee, confinandosi ad una allegra partecipazione all'unica vita possibile di essere vissuta, quella delle quattro mura di casa, delle azioni del quotidiano, del tran tran familiare sentito come linfa vitale.