Nell’ambito di una nuova, inedita, rassegna internazionale dedicata al teatro medioevale e rinascimentale, caratterizzata da opere di autori attivi nell’arco di sette secoli (X-XVII), la presenza di testi di scrittori contemporanei, che si sono ispirati a temi e figure dominanti delle diverse epoche, testimonia l’interesse degli artisti di oggi nei confronti di quei tempi che, anziché “oscuri” ( come un’ottusa pedagogia intendeva e descriveva), sono stati in realtà fiammeggianti di passioni e di idealità, ora oppressi da irragionevoli fanatismi, ora illuminati da memorabili esempi di virtù.
Nella galleria dei personaggi indimenticabili, segnati dal loro destino d’amore e di morte, che affascinò e commosse il loro Poeta, Paolo e Francesca hanno, da secoli, ampio e legittimo spazio nella letteratura drammatica, come, per altre ragioni, Francisco d’Assisi e Giovanna d’Arco.
Meno drmmatizzabile, benché fortemente drammatica, è apparsa, alla maggior parte degli scrittori del passato e fino ai nostri tempi, un’altra celebre vicenda amorosa medioevale vissuta da protagonisti di forte personalità, quella di Abelardo e di Eloisa.
Certo, i caratteri intellettuali dei due, coinvolti nei complessi rapporti etici, culturali, sociali della loro epoca, l’impegno culturale che contrassegnò, in quel momento dell’esistenza, il loro legame con forza pari a quella che li travolse nella passione, li provò nell’abbandono, nella sofferenza, nella tortura fisica e morale, comportava complessi problemi di trasposizione scenica.
Ritengo che proprio il tono culturale della loro vicenda abbia, fortunatamente, scoraggiato molti autori velleitari dal tentativo di presentare, in modi che sarebbero stati oleofgrafici o scandalistici, quel dramma di spiriti d’autentico spessore psicologico, di lucida intelligenza e di tormentata moralità.
Inoltre, se riflettiamo sui caratteri dominanti nella drammaturgia italiana, osserviamo che non poco imbarazzo avrebbe comportato, almeno fino a qualche decennio fa, portare in scena temi come un dibattito filosofico-teologico medioevale,il contrasto fra tesi ideologiche ortodosse ed altre supposte eretiche, e simili, oppure rendere credibile al pubblico un personaggio femminile non riconducibile all’ambito della tradizione tardo-romantico o psicologica della produzione di successo.
Solo nella seconda metà del nostro secolo, la grande trasformazione politica e socio-culturale, con i suoi innumerevoli riflessi sul costume, ma anche una diversa e più aperta concezione delle peculiarità del testo drammatico, con il conseguente recupero, da parte degli autori, di temi e “materiali” provenienti da vari settori della letteratura e della cultura, e una serie multiforme di linguaggi scenici sperimentati da registi e attori nei più assortiti spazi, consentono agli autori di oggi dei osare impegnarsi nella rapprsentazione di figure complesse e problematiche, come Abelardo ed Eloisa.
Tuttavia sussistono, a mio parere, alcune serie difficoltà per chi voglia portare in scena, davanti al pubblico attuale, in parte influenzato da modi diretti, spicci e superficiali della prassi televisiva, un itinerario spirituale come quello dei due personaggi.
La prima difficoltà è costituita dall’invenzione del tono-livello del racconto scenico, che deve essere capace di illustrare comprensibilmente il senso della vita e del pensiero di Abelardo, questo nobile bretone che, dopo aver rinunciato ai diritti della primogenitura, si dedicò interamente allo studio della dialettica alla scuola di grandi maestri, giungendo ventenne, nel 1100 a Parigi, città fervida di commerci e dinamica nei rapporti sociali e culturali, dove ben presto egli cominciò ad insegnare e dove incontrò la bella e coltissima Eloisa nipote del canonico Fulberto; un incontro fatale per entrambi.
La vicenda della loro passione amorosa, che diede vita a un figlio, e delle sventure che li colpirono, causate dall’odio cieco di Fulberto, che fece evirare Abelardo, la forzata monacazione di Eloisa, appassionatamente legata al suo maestro, appaiono meno ardue da drammatizzare, mentre le controversie filosofiche e teologiche ( dal problema degli Universali, al rapporto fede-ragione, dalla “Logica” alla §”Introductio ad Theologiam”) e le successive condanne da lui subite a causa dell’incomprensione e dell’invidia che il suo ingegno innovatore provocava, sono certo più difficili da sceneggiare.
La seconda seria difficoltà è la forma, la struttura drammatica da dare a una vicenda come questa, se renderla nei modi propri della tradizione medioevale, quella della narrazione presentata con successivi quadri scenici che illustravano l’intera vicenda dei protagonosti, oppure se mettere a fuoco una o due scene rivelatrici della storia e dei personaggi.
Fonti dell’eventuale drammaturgo sono, ovviamente le opere di Abelardo e, più agevoli da utilizzare, le celebri “lettere” che i due protagonisti si scambiarono, dopo che Abelardo, nel 1132-34, aveva osato scrivere la propria drammatica autobiografia: “Historia calamitatum mearum”. Sulla base di qauesti scritti e delle opere critiche composte ( dopo la riscoperta delle “Opere” di Abelardo nel 1616) dalla metà dell’Ottocento in poi ( la più nota in italia è quella di E. Gilson “Eloisa ed Abelardo”, ( Torino, 1950), alcuni nostri scrittori hanno portato sulla scena i due personaggi: ricordo soltanto Francesco Della Corte: “Mia moglie Eloisa”, in scena per la regìa di Maricla Boggio nel 1970 con il titolo “Abelardo ed Eloisa”, Mina Mezzadri: “Eloisa ed Abelardo” (1967), Fortunato Pasqualino, che col suo “Abelardo” ottenne il Premio Pescara nel 1968, e Franco Enriquez che fece rappresentare, nel ’78, il suo “Eloisa ed Abelardo”; tutti questi testi sono legati a una diversa stagione della nostra cultura e del nostro teatro; certo non mi posso soffermare qui a illustrare le loro caratteristiche.
Dirò invece, doverosamente, che questa nuovissima prova scenica della Boggio, autrice da anni intenta a seguire e affrontare coraggiosamente i temi scottanti della storia delle donne e della vita sociale del nostro tempo, mi ha sorpreso per la lineare agevolezza con cui ha saputo restituire a un pubblico medio, in occasione di una rasssegna multiforme, i complessi problemi e gli inquietanti personaggi del dramma.
Anzitutto ha avuto un’intuizione illuminante, quella di far partecipi e testimoni del dramma dei due intellettuali un gruppo di giovani studenti di oggi, che riviono quelle antiche vicende come la storia infinita di un amore autentico e travagliato, che li concerne: infatti il sottotitolo dell’opera è: “favola moderna e medioevale”. Inoltre, ha dato al suo dramma a quadri, un andamento leggero, ora di danza ora di pensosa riflessività, che le consente di presentare, senza rallentamenti né cambiamenti di stile, ma efficacemente, sia lo scontro dialettico fra il teologo tradizoionalista Bernardo di Chiaravalle (il futuro santo) e il nostro Abelardo, moderatamente razionalista, uno scontro che durò tutta una vita e che la Boggio risolve con varie scene, come momenti di un “agon” classico ( o di uno scontro sportivo), sia le fasi salienti della passione amorosa, dal primo trepido incontro all’abbandono assoluto di lei, mentre il “coro” dei giovani studenti ripete versi d’amore scritti da Abelardo.
Anche se la parabola scenica non indugia a descrivere le successive fasi della drammatica vicenda e i personaggi di contorno restano in secondo piano, null’essenziale di quella storia di passione e di pensiero va perduto; Fulberto il canonico, zio d’Eloisa è mostrato nei suoi momenti caratterizzanti, dall’ambizione di ospitare il maestro, al conformistico timore dello scandalo dopo la scoperta del legame fra i due, al risentimento che diventa odio irrazionale e vendicativo.
Così le fasi della pluriennale vicenda sono solo alluse o accennate, al centro restano, naturalmente i due protagonisti, resi adeguatamente nelle loro due componenti caratteristiche: l’intellettualità e la passione. Eloisa è una giovane intellettuale che scopre l’amore, e sente attrazione per l’intelletto, l’anima e il corpo del maestro fino a perdersi in lui per sempre; Abelardo è lo studioso con notevoli doti dicreatività, irrequieto, avido di sapere, bisognoso di un rapporto continuo con i giovani allievi, la passione che lo travolge non spegne in lui razionalità e sentimenti religiosi; alla fine, dopo la condanna della Chiesa, troverà rifugio a Cluny accolto e difeso da Pietro “il venerabile”.
Merito specifico della Boggio è d’aver saputo conferire a questa storia complessa un’aura di giovinezza e di speranza, che sopravvive anche in Eloisa, nonostante le rinunzie, le sofferenze, la nostalgia; è un messaggio positivo che conferma la maturità artistica raggiunta dall’autrice.
“La leggenda di Abelardo ed Eloisa è... un miraoclo medioevale... una metamorfosi predestinata... una cerca parlante... Questo amore vive nella parola e nella carne... E se è cominciato nella carne, è nella parola che non morrà...”; così il personaggio deel Professore ci introduce in questa ulteriore rivisitazione di una vicenda famosa.
L’attrazione tra un uomo e una donna, la suggestione tra due intelligenze, l’amore, nelle sue diverse accezioni. che illumina e lega due persone, la libertà di un pensiero che si dispiega attraverso la conoscenza senza aprioristiche sottomissioni, il rispetto umano e la vendetta, la crudeltà e la sofferenza, la passionalità e il trascendimento mistico sono delineati da Maricla Boggio in una dimensione teatrale densa di capacità evocativa e di intensa suggestione. Attraverso la parola di Maricla Boggio la storia di Abelardo ed Eloisa ci raggiunge di nuovo e ci coinvolge.
Nel suo testo teatrale ci viene restituita in tutta la sua capacità evocativa e la sua emblematicità unìantica storia che testimonia ancora una volta come l’amore e il dolore siano inestricabilmente connessi alla condizione umana e ne scandiscano l’inesausto patire.
Si vive solo/ quando si vive in gioia.../ Altro vivere/ non si deve chiamar vita... è ripetuto nelle prime pagine di questo nuovo testo di Maricla Boggio; il nostro è, dunque. altro vivere, che non dovrebbe chiamarsi vita.
L’amore, inveramento della vita, è arsura totale, sete inestinguibile, timnore e tremore. Contrariamente a quanto solitamente si ritiene, esso ha ben poco a che fare con la felicità; esso si dispiega moltop iù frequentemente nel segno della sofferenza, di una radicale inadeguatezza dell’io e del rapporto amoroso stesso, con tutte le loro contraddizioni e tutti i loro limiti, rispetto al desiderio, assoluto e “divino”, dell’altro.
Per tale indicibile sofferenza, molti, pur essendo stati investiti almeno una volta dall’amore, se ne ritraggono atterriti - l’amore è “fascinans”, ma è anche “tremendum” -, attestandosi, quando non sul piano dei surrogati, su quello degli “amori”, con la loro dinamica di noncuranza e di interscambiabilità, con la loro ideologia bellica, con le loro gratificazioni in termini di “avere”.
Il piano dell’amore – arsura totale, bruciore implacabile – viene ovattato e conservato nel ricordo, reso forzatamente inattuale nel rinnovato culto della felicità e nel conseguente rifiuto dello scandalo della sofferenza.
Ma chi ha conosciuto, almeno una volta, l’amoree-arsura sa che l’amore è altro dagli amori e intuisce, anche se vuole dimenticarlo, che l’amore è vita e che la condizione di sogno è vita dimidiata.
L’amore è vita, si è detto; ma è anche, inestinguibilmente, nostalgia della vita. Analogamente, l’amore è linguaggio dell’Essere e, inestinguibilmente, nostalgia dell’Essere, in aqunato nostalgia di pienezza. Lo ricordano a quanti intendessero dimenticarlo, o lo avessero occultato quale verità “oscena” e quindi impraticabile, le parole di Raimondo Lullo: “... essendo il disamore morte e l’amore vita”.